3 ottobre 2008

Laicità, una parola di cui si abusa, ma alla quale manca la giusta definizione (Maddalena)


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LAICITÀ/ Una parola di cui si abusa, ma alla quale manca la giusta definizione

(Giovanni Maddalena)

La crisi della parola “laicità” si è ben vista la scorsa settimana alla Summer School “Galimberti” su “Religioni e laicità”, organizzata dal Centro Studi sul Pensiero Contemporaneo. La discussione ha mostrato quella che chiameremo una crisi epistemologica della parola e che ci interessa più dell’inevitabile risvolto etico su cui troppo spesso sono ripiegate le discussioni intorno a questo tema.
Tanto per cominciare, può una parola andare “in crisi”? Sì, quando la sua definizione non coglie più la realtà.

La parola “laico” nell’accezione difesa dalla nostra intellighenzia è l’opposto di “credente”, e dovrebbe identificare la parte più progressista della società, quella più legata all’evoluzione sociale e ai problemi concreti. Declinata sul piano del diritto, “laicità” sancisce un principio “primario” della Costituzione di molti Paesi, soprattutto europei, per il quale lo Stato è neutrale, per non dire indifferente, rispetto ai giudizi di valore dei cittadini.

La crisi è emersa in tutte le battaglie etiche recenti, dal terrorismo alla bioetica, facendo vacillare antiche convinzioni “laiche”. Di queste convinzioni vogliamo qui cogliere – per cominciare un dibattito – la radice epistemologica, ossia ciò che riguarda la conoscenza che esse presuppongono.
L’ex presidente della Corte Costituzionale Zagrebelsky ha spiegato con la solita chiarezza qual è il “nucleo irrinunciabile” di questa visione di laicità: laico è chi è prima un cittadino e poi “tutto il resto”, comprendendo nel “resto” religioni, squadre di calcio, circoli, ideologie di ogni genere e tipo. Insomma, come diceva Rousseau, prima si deve essere cittadini e poi uomini. Il nemico della laicità – conclude l’insigne giurista – è ogni forma di “appartenenza”.

In due parole: se togliamo l’appartenenza, aboliremo l’ingiustizia e fanatismo.

Peccato che questo schema illuminista non funzioni più. L’inter-culturalismo delle nostre società occidentali mostra che nessuno può più riconoscersi in questa visione di laicità se non un pugno di accademici occidentali con la perenne pretesa di insegnare come il mondo “dovrebbe essere”.

Indifferente a questi ultimi, la narrazione di sé della gran maggioranza del mondo comprende ogni genere di appartenenze in cui ci si riconosce: dalla religione alla tradizione, dalla squadra di calcio alla marca delle scarpe. Pensate davvero che nelle villas argentine, nei ghetti americani, nelle banlieues parigine (i tipi di società che Zagrebelsky vorrebbe migliorare con la laicità dello Stato) essere prima “cittadino” e poi “tutto il resto” abbia un senso?

Del resto, nella vita di ciascuno non è proprio l’appartenenza alla propria famiglia, scuola, squadra di calcio, religione e Paese, che collabora all’identità? Più ancora, non è la propria esperienza di una realtà che ci precede (era già lì quando siamo “arrivati”) che costituisce l’unico uomo che può diventare un cittadino?

Certo, le identità particolari possono sfociare nel fondamentalismo.
Il problema, però, non è la troppa appartenenza, ma quello che ha messo in luce Pennac nel suo libro sulla scuola: le appartenenze sono pericolose quando non sono giudicate (È giusto? È vero? È buono? È bello?). E non sono giudicate quando ci vengono imposte le parole con cui descriverle.

Dall’amore privato alla politica, usiamo le parole (e i gesti) imposte dai film e dalle pubblicità, dai professori e dai giornalisti. “Liberare le parole”, connettere esperienza e pensiero è il primo passo per superare l’estraneità che sfocia in violenza e per riconoscere chi sa insegnare davvero. Non c’è da avere paura delle differenze se le parole indicano lealmente un’esperienza della vita perché la realtà mostrerà la propria verità. Sarà l’esperienza a mostrare il “senso comune” che presiede a ogni cultura autentica.

Conviene forse riprendere un’altra definizione di “laico”: quella che oppone “laico” a “clericale”. Clericale è chi controlla il significato delle parole, imponendole a prescindere dall’esperienza, laico è chi usa le parole secondo l’esperienza.

In questo senso, il temutissimo Papa che aux Bernardins sostiene che se uno cerca la Vita, deve imparare la grammatica, è più laico di chi ci vuole tutti, a priori, “citoyens”.

© Copyright Il Sussidiario, 2 ottobre 2008

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