25 maggio 2008

Monsignor Betori spiega la nuova traduzione delle Sacre Scritture: "Lo dico serenamente: è la migliore" (Osservatore)


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Monsignor Betori spiega la nuova traduzione delle Sacre Scritture

Lo dico serenamente: è la migliore

di Maurizio Fontana

Vent'anni di lavoro per una traduzione che ha l'ambizione di diventare la Vulgata (che in latino vuol dire "diffusa") per gli italiani del xxi secolo. Ecco in sintesi l'impresa della traduzione della Sacra Scrittura voluta dalla Conferenza episcopale italiana (Cei). A illustrarla è monsignor Giuseppe Betori, biblista e vescovo segretario della Cei, in una lunga intervista con chi scrive e con il direttore del nostro giornale a pochi giorni dalla presentazione ufficiale della revisione della traduzione della Bibbia. L'impresa troverà compimento il prossimo 29 maggio quando, durante l'assemblea generale della Cei, verrà donata a Benedetto xvi la prima copia dell'editio princeps.

Innanzitutto, perché una nuova traduzione?

Molti pensano che sia stato un cambiare tanto per cambiare, magari stanchi della vecchia traduzione. In realtà ci troviamo all'interno di una decisione presa dalla Santa Sede addirittura nel 1965 quando - a seguito del Concilio Vaticano ii - Paolo vi ritenne opportuno rivedere la Vulgata di san Girolamo alla luce delle più recenti acquisizioni di critica testuale in ordine ai libri dell'Antico e del Nuovo Testamento. Questo progetto voluto dal Papa ebbe una lunga gestazione, che portò nel 1979 a una prima edizione di una Nova Vulgata e nel 1986 alla seconda edizione, proposta da Giovanni Paolo ii a tutta la Chiesa come editio typica per l'uso liturgico. E, ovviamente, il Papa suggeriva anche che le traduzioni in lingue moderne fossero rifatte con gli stessi criteri utilizzati per la Nova Vulgata.

E a sua volta la Nova Vulgata aveva alle spalle il lavoro di revisione dell'Abbazia di San Girolamo fondata da Pio xi...

Sì. L'Abbazia di San Girolamo ha restituito il testo critico della Vulgata. Poi sulla base di questa è stata fatta una revisione che però andava oltre i testi ebraici, aramaici e greci utilizzati da Girolamo. La Nova Vulgata prendeva infatti come base i testi critici oggi in uso: per l'Antico Testamento la Biblia Hebraica Stuttgartensia, edizione che, ad esempio, fa tesoro delle scoperte di Qumran; per il Nuovo Testamento il riferimento è invece al cosiddetto Nestle-Aland, cioè quell'edizione del Nuovo Testamento greco che unifica i due principali testi critici oggi in uso. Da quel momento in poi è sulla base di questi testi che si è invitati a rivedere tutte le traduzioni per l'uso nella liturgia. Ed è proprio quello che abbiamo fatto.

Nel frattempo era comunque già apparsa la Bibbia della Cei.

Sì, la Bibbia viene pubblicata nel 1971 per rispondere immediatamente al bisogno di trovare un testo biblico italiano condiviso per la utilizzazione nella liturgia che nel 1965 era passata alla lingua moderna. In quel caso però non si fece una nuova traduzione: si utilizzò come base una traduzione allora in uso - quella da poco edita dalla Utet e curata da Angelo Penna, Enrico Galbiati e Piero Rossano - e un gruppo guidato dal cardinal Ermenegildo Florit ne fece la revisione, che apparve appunto nel 1971.
Questa revisione andò all'esame della Sacra Congregazione per il Culto per la parte da utilizzare nella liturgia, e si arrivò nel 1974 alla seconda edizione, che è poi quella ancora oggi in uso. Noi invece siamo tornati ai testi originali.

Quali criteri sono stati dati ai traduttori?

Qui è bene precisare che il lavoro - davvero una profonda revisione - di traduzione si è svolto in due fasi successive.
In un primo momento la finalità era quella di adeguare la traduzione ai testi critici presupposti dalla Nova Vulgata, cercando però di arrivare a un testo che fosse il più comunicativo possibile, appianando le difficoltà lessicali e sintattiche. Questa prima fase è stata caratterizzata da criteri di traduzione di tipo concettuale piuttosto che letterale. Già san Girolamo, sulle tracce di Cicerone, spiegava come nel tradurre un testo non si dovesse rendere le parole ma i concetti nella forma che la lingua permette. Va anche detto però che Girolamo, quando si riferisce alla Bibbia, aggiunge una precisazione: nel tradurre un testo sacro questo principio non si può applicare totalmente perché nella Scrittura "anche l'ordine delle parole è un mistero". Ovvero siamo di fronte a una parola che anche nella forma porta con sé un'impronta di Dio.
Di qui un'altra fase del lavoro di traduzione, che nasce nel momento in cui la Santa Sede pubblica l'istruzione Liturgiam authenticam sul modo di tradurre i libri liturgici. E qui l'istruzione sottolinea un'attenzione maggiore proprio a una fedeltà anche letteraria.
Ecco allora che questa fase di lavoro è stata tutta tesa a far corrispondere per quanto possibile il testo italiano alla forma stessa dell'ebraico, dell'aramaico e del greco. In maniera tale che la stessa parola sia tradotta allo stesso modo in tutti i contesti, a meno che il contesto non abbia proprio una connotazione diversa. Faccio un esempio: nell'Antico Testamento la parola hesed è tradotta normalmente con il termine "amore", a meno che il contesto non sottolinei in maniera evidente che si tratta di un amore misericordioso e allora, ma solo allora, la parola hesed viene tradotta con "misericordia". Nella traduzione ancora in uso c'è un'oscillazione non coerente di questi termini. Nella nostra nuova traduzione la parola "misericordia" viene ricondotta quasi esclusivamente alla radice rehem che indica invece le "viscere", intendendo con questo l'atteggiamento misericordioso di Dio.
Inoltre si è cercato di salvaguardare il linguaggio tradizionale. Faccio un altro esempio: il termine "ladrone" è stato mantenuto nei vangeli di Matteo e di Marco, ma non in quello di Luca, perché Luca utilizza un altro vocabolo. Insomma: caso per caso si è cercato di ottenere una certa coerenza nella traduzione dei vocaboli e nella composizione della frase, per rendere il testo il più vicino possibile alla forma letteraria dei testi originali ebraico e greco.

Cerchi di dimenticare di essere il segretario della Cei e da biblista ci dica: tra le traduzioni italiane, l'attuale è effettivamente la migliore?

Sì, senza dubbio. È molto più fedele ai testi originali. Sono stati eliminati errori e inesattezze ed è molto più attenta al problema della coerenza del vocabolario. In queste pagine si riconoscono bene le dipendenze di un testo del Nuovo Testamento dall'Antico. Non a caso il saluto dell'angelo a Maria comincia adesso con il termine "rallegrati", ovvero il chàire è stato letto alla luce del libro del profeta Sofonia dove l'annuncio del ritorno del Signore nella città santa utilizza questo stesso vocabolo per esortare Gerusalemme alla gioia. Da questo punto di vista è adesso più facile, leggendo il testo di Luca, accorgersi che dietro le parole dell'angelo l'evangelista vuole accostare l'evento di Nazaret, l'incarnazione del Figlio di Dio, all'antica profezia sul ritorno di Dio in mezzo al suo popolo.

E nelle altre versioni come la Concordata o quella "in lingua corrente"?

Quelle hanno altre finalità. Ad esempio: la traduzione "in lingua corrente" cerca di offrire un senso immediato, che limita però la ricchezza del senso che sta all'interno del testo.
Invece questa nostra traduzione permette di avvicinarci alle potenzialità della lingua originale, all'ampiezza di senso racchiusa nella parola che viene proposta.

E quali possono essere attualmente le più autorevoli concorrenti di questa traduzione?

In verità, ormai sono quasi sparite tutte. La vecchia traduzione era nata per la liturgia. Poi però è diventata "la traduzione", riferimento anche per la lettura spirituale e per lo studio teologico. Anche la "Nuovissima versione della Bibbia" ha una caratteristica diversa: è stata realizzata da molti biblisti con criteri diversi per ogni libro biblico. Qui invece il criterio è unico perché tutto è stato rivisto totalmente in modo unitario.
In questo senso è molto importante ribadire il concetto della pluralità dell'uso di questa nuova versione. Di fatto oggi tutti i commenti che circolano sulla Sacra Scrittura - che non siano specialistici - utilizzano la Bibbia Cei. Questo fa sì che di fatto oggi all'interno della comunità ecclesiale ci sia un'unica Bibbia, quella Cei. E, serenamente, si può dire che è anche la migliore. Abbiamo utilizzato i migliori specialisti per ogni libro. Inoltre c'è stata una revisione globale che ha permesso di evitare disuguaglianze e difformità di impostazione.
Ciò significa che la vita di fede di un cattolico in Italia non ha una pluralità di linguaggi: lo stesso testo che viene letto nella liturgia è quello che il credente prende tra le mani per fare la sua lectio divina e che poi magari - se frequenta una scuola biblica - si ritrova come testo da studiare per un approfondimento di carattere culturale e teologico. Questo ridà unità al linguaggio della fede sul piano biblico. Cosa che in Italia non abbiamo mai avuto. Non abbiamo mai avuto una traduzione italiana che nei secoli formasse il linguaggio della fede, come ad esempio per l'Inghilterra la King James Version, o come la traduzione di Lutero per il tedesco. Avevamo la Vulgata. E la nostra lingua di fede biblica è fatta di calchi della Vulgata, calchi italiani di parole latine. Di fatto, però, la nostra traduzione della Bibbia, ormai prevalente nella diffusione e nell'uso comunitario, offre l'occasione di creare un linguaggio biblico.

Lei ha fatto riferimento ai singoli specialisti. Proviamo a dare qualche cifra. Chi è stato coinvolto in questo progetto? Quanti traduttori ed esegeti vi hanno lavorato?

Sono stati coinvolti all'incirca un centinaio tra biblisti, liturgisti e italianisti. Tra questi vi sono anche due protestanti. Inoltre, tutto il Nuovo Testamento è stato dato in lettura alla Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane, e tutto il Pentateuco all'Assemblea dei rabbini italiani. Tutti hanno dato apporti e consigli di cui si è tenuto conto nella revisione ulteriore. Ovviamente la decisione finale è stata del gruppo di lavoro e poi dei vescovi.
Teniamo presente infatti che la Bibbia Cei non è solo un'opera di esperti. È soprattutto un'opera di Chiesa. Quindi un ruolo fondamentale è stato anche quello dei vescovi che hanno avuto il testo in visione in due momenti. Dapprima per offrire una serie di osservazioni - ne hanno mandate più di tremila, quasi tutte accolte - e poi, a lavori ultimati, per un'ultima lettura che ha preceduto il voto finale, nel 2002, in cui c'è stata un'approvazione quasi unanime (202 vescovi su 203 votanti).

E da allora a oggi cosa si è fatto?

In questi sei anni si è consegnato alla Santa Sede il testo per la recognitio. Inoltre a un certo punto è intervenuto Benedetto xvi il quale ha chiesto che non fossero recognitae soltanto le pagine destinate ai testi liturgici attualmente in uso, ma tutta la Bibbia. È stato un segno di attenzione molto importante per noi. Tra l'altro Ratzinger ha anche suggerito alcune correzioni: nella sua famosa omelia alla Santa Messa Pro eligendo Pontifice fece un appunto alla vecchia traduzione, nella lettera agli Efesini, che fu subito accolto.

In questo intenso e lungo lavoro di revisione e di correzione, ci sono stati anche degli incidenti di percorso?

Ci sono stati errori di stampa nel nuovo Lezionario perché nello scorso ottobre l'obiettivo di uscita per il nuovo anno liturgico ha comportato un passaggio in meno nella correzione delle bozze. Ci è così sfuggito qualche errore, anche se fondamentalmente solo sui titoli delle letture.
Nel caso della Bibbia il lavoro di correzione è stato molto più intenso e speriamo che ciò abbia evitato molti errori. Ma tutti quelli che scrivono libri sanno bene che la prima cosa che si vede non appena il libro è stato stampato è proprio un errore. E anch'io sto aspettando l'errore che certamente scoprirò nonostante abbia riletto personalmente per tre volte le bozze.
Coroniamo comunque un lavoro lungo venti anni. Iniziammo nel 1988 con le prime commissioni di studio e oggi usciamo con un volume che comprende solo il testo - utilizzabile quindi anche per la liturgia - e un altro volume più piccolo composto di introduzione e note, realizzato da esperti sotto la supervisione della Segreteria Generale.

Lei ha già fatto cenno ad alcuni interventi di correzione. Si può quantificare la portata globale della revisione del testo?

La correzione fondamentale rispetto all'edizione del 1971 dipende dal fatto che sono diversi i testi critici di base. Facciamo un esempio tratto dagli Atti degli Apostoli. Nel discorso di Paolo agli anziani di Mileto prima si trovava: "La Chiesa che Dio ha salvato con il suo sangue" presupponendo il testo greco àimatos idìu. Invece il testo greco dell'edizione Nestle-Aland ha àimatos tù idìu, cioè "il sangue del proprio (figlio)". Nella nuova traduzione dunque non si legge più "Dio che ci ha salvati con il suo sangue", bensì "Dio che ci ha salvati con il sangue del suo Figlio".

In questo caso la correzione è dovuta al diverso testo critico di riferimento. Ci sono state invece delle varianti apportate in virtù di scelte teologiche, figlie di un'evoluzione nell'esegesi per cui dei passi sono stati interpretati e quindi tradotti con delle sfumature diverse?

Direi al contrario che la scelta di proporre un testo più letterale favorisce una traduzione più aperta all'interpretazione teologica rispetto a quella precedente. Perciò questa traduzione serve meglio alla lectio divina e anche allo studio biblico, perché non predetermina - come fa, ad esempio, la traduzione "in lingua corrente" - un'interpretazione sulle altre, ma lascia aperte le possibilità.

Per i testi critici vi siete dunque affidati alla Stuttgartensia per l'Antico Testamento ebraico, al Rahlfs per i testi greci dell'Antico Testamento - escluso il Siracide, in cui si è seguito il testo più accredito oggi dello Ziegler - e al Nestle-Aland per il Nuovo Testamento.

Esattamente. Anche se per l'Antico Testamento ebraico qualche volta abbiamo dovuto utilizzare le proposte di lettura collocate nell'apparato della Stuttgartensia, proposte per lo più fondate sulla Settanta perché ci sono dei punti in cui il testo ebraico è corrotto e non ha senso.

Storicamente si è sostenuto che la Settanta fosse più attendibile anche per l'Antico Testamento, in quanto riferita a un testo ebraico più antico e sicuro di quello masoretico.

Ma se partiamo dicendo che la Settanta è più attendibile del testo ebraico, allora dovremmo ritradurre la Settanta in ebraico. E non ci siamo sentiti di farlo. Tanto più che eravamo guidati dalla Nova Vulgata stessa che interpretava il testo ebraico della Stuttgartensia - là dove è problematico - alla luce della Settanta e della Vulgata.
La linea è stata sempre la stessa: salvaguardare l'uso nella tradizione della Chiesa rivisto con i criteri della critica testuale. E le correzioni non sono state certo poche. Direi che siamo nell'ordine di decine di migliaia.

Ci sono dei casi di particolare rilievo?

Ai lettori potrebbe interessare il lavoro fatto su tre casi specifici: il Pater noster, il Magnificat e il Benedictus; tutti testi biblici di uso liturgico e di preghiera personale talmente diffusi da richiedere un'attenzione particolare. La scelta del Consiglio permanente è stata quella di intervenire solo dove fosse assolutamente necessario per la correttezza della traduzione. Nel caso del Padre nostro si è affermata l'idea che fosse ormai urgente correggere il "non indurre" inteso ormai comunemente in italiano come "non costringere". L'inducere latino (o l'eisfèrein greco) infatti non indica "costringere", ma "guidare verso", "guidare in", "introdurre dentro" e non ha quella connotazione di obbligatorietà e di costrizione che invece ha assunto nel parlare italiano il verbo "indurre", proiettandolo all'interno dell'attuale formulazione del Padre nostro e dando a Dio una responsabilità - nel "costringerci" alla tentazione - che non è teologicamente fondata.
Ecco allora che si è scelta la traduzione "non abbandonarci alla" che ha una doppia valenza: "non lasciare che noi entriamo dentro la tentazione" ma anche "non lasciarci soli quando siamo dentro la tentazione".

Facciamo un cenno anche ai Salmi. San Girolamo li ha tradotti addirittura tre volte. Nell'edizione della Vulgata i benedettini hanno deciso di affiancare la traduzione dalla Settanta a quella dall'ebraico. Quale è stata la vostra scelta?

Noi abbiamo scelto come base l'ebraico. Però la Settanta è utile perché ci viene in aiuto là dove l'ebraico è oscuro. Se vogliamo affermare l'importanza del ritorno ai testi originali, allora dobbiamo ricordare che la Settanta rappresenta un momento di passaggio, anche teologico. E allora sostituirla ai testi ebraici, porterebbe a cancellare lo sviluppo teologico che essa attesta. Impediremmo cioè di interpretare la Settanta come sforzo teologico di comprensione della Parola.

Poco fa parlava della variante importante al testo del Padre nostro. Sono i particolari che più toccano la gente comune. Inciderà anche nella quotidianità dell'uso liturgico?

Questo è da vedere. La traduzione non implica ancora che siano state fatte delle scelte da parte dell'episcopato italiano e da parte della Santa Sede in ordine all'utilizzo di questa traduzione per i testi liturgici. Per la recita del Padre nostro durante la messa o negli atti devozionali, tutto è ancora da decidere. E sarà una decisione che si prenderà solo nell'ambito dell'allestimento - ancora in corso - della traduzione della terza edizione del Messale romano.

Ci sono altri esempi di questo genere?

Per quanto riguarda il Magnificat, nella precedente versione si leggeva "Come aveva detto ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza". Oggi traduciamo "per Abramo e la sua discendenza": c'è un dativo di comodo in greco che viene tradotto con "per" e che indica la finalità della rivelazione. Le promesse sono fatte ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe, i padri, per tutti i loro discendenti, fra i quali anche noi. Maria ci dice che la promessa che si realizza in lei è l'inizio dell'adempimento delle promesse che sono per tutti noi, figli di Abramo.

Usciamo dai dettagli della singola traduzione e torniamo all'opera nella sua globalità. Questa edizione è destinata a sostituire tutte le altre Bibbie. Quanto tempo ci vorrà?

L'editio princeps la metteremo in commercio a fine mese, però la sua destinazione è fondamentalmente l'aula liturgica. Potrà essere, ad esempio, la Bibbia da tenere in fondo alla Chiesa per permettere la consultazione e la meditazione ai fedeli.
A metà settembre ci sarà invece l'edizione comune a tutti gli editori cattolici, di carattere popolare ed economica, con le note preparate dalla Cei, cioè l'edizione Uelci (Unione editori librari cattolici italiani), l'unica che costerà meno di 15 euro.
Solo in seguito daremo il testo agli editori che lo richiederanno. Quando il testo servirà per iniziative di distribuzione gratuita ai fedeli, allora anche noi lo offriremo gratuitamente alle comunità coinvolte.

A proposito di costi. È stato economicamente molto impegnativo realizzare questa nuova Bibbia?

Sono state più che altro spese organizzative. Tutti i consultori, infatti, hanno lavorato gratuitamente. L'Associazione Biblica Italiana ha chiesto a tutti gli aderenti di prestarsi gratuitamente a questo lavoro e tutti lo hanno fatto volentieri, anzi direi onorati di poter far parte di un progetto così prestigioso.

Quindi, presumibilmente, con la diffusione commerciale si copriranno le spese sostenute?

Direi proprio di sì. Teniamo conto che questi libri liturgici, fino all'introduzione dell'otto per mille, erano la prima fonte di introito della Cei. Ancora adesso, una parte delle attività della Cei è possibile grazie a queste entrate.

La Bibbia Cei diventerà un testo di riferimento anche per l'esegesi. Quali scuole di pensiero si stanno affermando nel panorama dell'esegesi contemporanea?

L'esegesi contemporanea è oggi molto frammentaria. Permane ancora forte tutto il filone storico-critico classico, legato alla filologia tradizionale. Però è altrettanto vero che le metodologie della nuova critica letteraria, in particolare quelle strutturali o narrative, cominciano ad avere un loro peso. Da questo punto di vista credo che valga l'equilibrio suggerito dalla Pontificia Commissione Biblica nel documento su L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Occorre la convergenza di una pluralità di metodi. È chiaro che il principio di fede deve essere mantenuto come un elemento decisivo dell'interpretazione.
Non ha senso quindi l'impostazione di quanti vorrebbero proporre la comprensione del testo della Bibbia prescindendo dalla fede: questo testo storico nasce come testo di fede e si produce come fatto di fede. Non si può ignorare.
Su questa linea, notevole è l'apporto del Gesù di Nazaret di Ratzinger che mostra come sia possibile dare una lettura di fede della storia di Gesù: questa lettura fa tesoro delle acquisizioni di un'analisi storica e letteraria del testo, ma non la chiude in un razionalismo che rifiuta la natura stessa dell'evento cristiano.
Aggiungerei che è il principio della "tradizione" che deve reggere tutto il nostro accostamento alla Sacra Scrittura con la lettura canonica, perché la Scrittura è frutto di una tradizione. Diversamente dal Corano considerato dai musulmani come una rivelazione scesa dal cielo. La Bibbia è frutto della fede di un popolo, di una comunità che vi ha sedimentato la propria tradizione di fede, sotto la guida dello Spirito. È solo all'interno di questa tradizione che essa può essere compresa pienamente.

Anche se i testi possono non essere sempre sicuri?

Sì, perché ciò fa parte della fragilità connaturata all'idea di incarnazione. Cristo s'incarna nella debolezza della carne umana, una carne che viene ferita sopra una croce. Questa stessa logica della debolezza sta anche nell'incarnazione attraverso la Parola che non si sceglie un linguaggio divino per parlare a tutti gli uomini, ma sceglie una lingua, o meglio, tre lingue umane legate a determinati periodi storici. C'è uno scandalo della croce e c'è anche uno scandalo della Parola.
L'allora cardinal Ratzinger ha giustamente sottolineato che non esiste una fede da inculturare, quasi che si possa ipostatizzare una fede fuori da una cultura: la fede si è rivelata infatti dentro una cultura. Il problema quindi è quello di una "transculturazione". Questo fa sì che tutto il mondo della cultura ellenistica non sia il luogo in cui in un secondo momento viene inculturata la fede, da cui si potrebbe quindi prescindere, ma è uno dei contesti in cui la fede si rivela per il Nuovo Testamento (e in parte per l'Antico) e viene trasmessa lungo i secoli. Per cui non si tratta di estrarre la fede dal mondo culturale ebraico ed ellenistico, ipostatizzarla e reincarnarla in un'altra fede, ma mettere a confronto, far dialogare la fede detta nella cultura giudaico-ellenistica con le altre culture del mondo.

Di fatto, è questa la lezione di Ratisbona.

È un punto essenziale. Da questo punto di vista il libro Gesù di Nazaret è molto importante e, in qualche modo, anche la nostra traduzione vuole inserirsi su questo tracciato, portando quell'ebraico e quel greco, e il loro significato culturale dentro l'italiano di oggi.

Passiamo dal piano dei specialisti dell'esegesi a quello del popolo di Dio, della gente comune. Dal Concilio ad oggi, quale è stato il ruolo della Sacrosantum concilium e della Dei Verbum per la diffusione e per la conoscenza della Parola di Dio?

Il Concilio è stato fondamentale perché ha ridato piena cittadinanza alla Sacra Scrittura. Attenzione: non dico che l'ha reimmessa. La Bibbia era ben presente nella vita della Chiesa anche prima del Concilio. Lo era in modo più mediato, ma la predicazione cristiana e la liturgia non avevano certo smesso di attingere al tesoro della Parola. È chiaro però che la Sacra Scrittura è rientrata in circolazione immediata soprattutto grazie al Concilio Vaticano ii. Specialmente nelle forme della lectio divina e dell'accostamento personale e nell'arricchimento che la stessa liturgia ha ricevuto dall'ampliamento dell'Ordo lectionum missae. Qui abbiamo avuto un salto di qualità nell'accostamento diretto. Non sottoscrivo invece le posizioni di coloro che affermano che prima del Vaticano ii la Bibbia fosse assente dalla vita della Chiesa: era presente in modo mediato, ora lo è in modo diretto, e questo ovviamente è un guadagno.
Ora però, se è vero che ormai in tutte le azioni liturgiche risplende la ricchezza della Bibbia, dal punto di vista dell'appropriazione personale questo processo è molto più lento. Sono cresciuti i gruppi e le occasioni di lettura della Bibbia, mentre invece non c'è stata una popolarizzazione della Bibbia. Spero che la prossima assemblea sinodale sia un'occasione per rilanciare uno sforzo di popolarizzazione. Dobbiamo creare maggiori occasioni di fruizione comunitaria della Sacra Scrittura. Altrimenti, lasciandole da sole, noi scoraggiamo le persone.

Una comunità locale oggi, in Italia, a quali risorse può attingere per questa conoscenza? La Chiesa italiana cosa offre?

Come Conferenza episcopale italiana abbiamo istituito all'interno dell'Ufficio catechistico un servizio di apostolato biblico, che ha proprio lo scopo di individuare e sostenere le forme più adatte di accostamento alla Bibbia. Non solo quelle all'interno della comunità. Penso ad esempio anche all'insegnamento della religione cattolica. A volte si dice che la Bibbia deve entrare nella scuola. Ma la Bibbia nella scuola già c'è. È l'asse portante dell'insegnamento della religione cattolica. Dobbiamo però aiutare maggiormente gli insegnanti a sviluppare nel contesto scolastico un accostamento culturale alla Bibbia.
Nelle parrocchie poi ci sono varie esperienze di gruppi biblici, lectio divina, scuole della Parola e così via. Noi pensiamo che sia importante coordinare tutte queste esperienze e istituire all'interno di ogni diocesi un servizio di apostolato biblico che aiuti i parroci e li sostenga nel trovare strumenti, sussidi e persone che aiutino.

Proprio di recente sono stati resi noti i primi risultati di un'inchiesta sulla conoscenza delle Sacre Scritture in vari Paesi europei ed extraeuropei.

I dati emersi non ci possono certo far dormire sonni tranquilli. Dicono che nell'arco di un anno in Italia solo un quarto della popolazione ha accostato una pagina biblica. Un dato assolutamente negativo, seppure non tanto quanto quello emerso in Paesi a noi vicini come la Francia o la Spagna. In Italia il cattolicesimo tiene un po' di più rispetto al resto dell'Occidente europeo, in quanto la rete parrocchiale e la presenza dell'associazionismo e dei movimenti è ancora una realtà vivace. Però il dato è comunque preoccupante.
Dobbiamo inoltre tener conto che il problema della lettura della Bibbia si situa all'interno di un problema culturale più ampio. Non è che la gente non legga la Scrittura; la gente semplicemente non legge. E la Bibbia diventa così uno dei tanti libri che la gente non legge. C'è un problema di crescita culturale del Paese intero.
Di qui anche l'utilità del progetto culturale della Cei. Non possiamo pensare alla fede come a qualcosa che possa camminare a prescindere dal contesto culturale. Dobbiamo puntare su una rigenerazione culturale del Paese, a cui la fede dà il suo apporto e senza la quale la fede stessa soffre.

Quindi gli stereotipi dell'Italia arretrata dal punto di vista biblico a causa del cattolicesimo controriformistico hanno ben poco valore?

Sì, e lo dimostra il fatto che, pur in una situazione non positiva, ne sappiamo un po' più dei francesi; lo dimostra il fatto che un po' di Bibbia i nostri preti l'hanno data alla nostra gente che continua a venire in Chiesa, mentre in Francia si registrano percentuali assai minori delle nostre. La comunicazione data attraverso la predicazione resta ancora il fattore fondamentale della trasmissione della fede, anche biblica.

Ma i preti sono preparati?

Forse non come noi vorremmo. Possiamo però cercare di garantire una maggiore preparazione. Per esperienza posso dire che è molto facile proporre elementi di esegesi al prete che però poi conduce la sua pastorale a prescindere dall'esegesi. Occorre un'interpretazione teologica della Scrittura fondata sull'esegesi, ma che nell'esegesi non deve esaurirsi.

Non sarebbe meglio se si studiassero maggiormente il latino, il greco e magari anche l'ebraico?

Sono d'accordo. C'è un urgente bisogno di una revisione dei curricula di preparazione del nostro clero. I curricula dei nostri seminaristi sono ipertrofici per quanto riguarda il numero delle discipline, e mancano invece di una visione globale culturale e teologica. Il ripensarli è quindi un'urgenza. Le urgenze sono certo crescenti ma non possiamo rispondere aumentando i corsi.

Restiamo sul tema del rapporto tra cultura e conoscenza delle Sacre Scritture. Recentemente lei ha parlato del "valore estetico della Parola di Dio" e della qualità, anche letteraria, di questa nuova traduzione della Bibbia. Potrebbe aiutare anche gli insegnanti di italiano?

Io penso di sì. Forse è un'ambizione troppo grande quella nostra, ma la coltiviamo: diventare una piccola Vulgata dell'epoca moderna. La Vulgata ha formato una parte del nostro patrimonio lessicale. Certo, era l'unico riferimento e ha impiegato secoli. Io però mi auguro un impatto di questo tipo, perché è in gioco quell'incontro tra cultura e fede sul quale noi stiamo scommettendo. Una fede che sia capace di plasmare la lingua perché plasma la cultura e che per questo usa anche la lingua biblica: in questo senso la nostra traduzione è importante per il futuro.

(©L'Osservatore Romano - 25 maggio 2008)

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