29 maggio 2008

I vescovi: aiutiamo l’Italia ad aprirsi alla speranza


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LA CHIESA E IL PAESE

I vescovi: aiutiamo l’Italia ad aprirsi alla speranza

DA ROMA MIMMO MUOLO

Se il Paese ha bisogno di una i­niezione di speranza, la Chie­sa è pronta a fare la sua parte. Del resto l’accento posto sull’edu­cazione dei giovani, le parole pro­nunciate dal cardinale Angelo Ba­gnasco nella sua prolusione e so­prattutto l’andamento dei lavori di questi giorni vanno proprio in que­sta direzione. Se ne fa interprete, ad esempio, l’arcivescovo di Spoleto Norcia, monsignor Riccardo Fonta­na.
«Ritengo che il cardinale presi­dente – afferma – abbia inquadrato con il giusto taglio pastorale i nodi problematici sotto gli occhi di tutti, stimolando alla riflessione comune. Ciò che sta emergendo è l’apertura alla speranza. Ci sono i problemi, è vero, ma la Parola di Gesù ci dà fi­ducia nella ricerca intelligente e at­tenta delle soluzioni». Per Fontana, «il Paese reale è più attento alla pro­posta del Vangelo di quanto i mass media tendano a dipingerlo. E pro­prio per questo dobbiamo conti­nuare a dire la nostra, smontando anche pregiudizi e luoghi comuni». Il presule fa a questo proposito un e­sempio. «Si parla male degli immi­grati, ma nessuno dice che tra di lo­ro ci sono molti sacerdoti, che svol­gono un’azione pastorale impor­tante nelle nostre comunità. Senza dimenticare che proprio tra gli im­migrati di seconda generazione stanno nascendo molte vocazioni al sacerdozio».
Il taglio della speranza viene sotto­lineato anche da monsignor Gian­carlo Maria Bregantini. «Vanno evi­tati – afferma l’arcivescovo di Cam­pobasso- Bojano – gli atteggiamenti di semplice giudizio e condanna. È la via dell’educazione ai valori au­tentici quella che alla fine porta frut­to ». E il presule la declina, per e­sempio, in relazione a tre delle e­mergenze sociali di questo periodo. «Se educhiamo al rispetto dell’am­biente, presentando la terra come un giardino, sarà più difficile in fu­turo trovarsi di fronte a situazioni come quella dei rifiuti in Campania. Ma se la terra è un giardino – ag­giunge – allora dobbiamo essere consapevoli che ne siamo non i pro­prietari, ma i custodi e che dunque questo giardino deve essere aperto all’accoglienza, nel rispetto di de­terminate regole, ma senza equipa­razioni di massa, ad esempio, tra immigrati e delinquenti, come av­verrebbe introducendo un reato specifico per i clandestini». Infine il discorso va sui problemi economici delle famiglie. «È giusto chiedere il ri­spetto del potere d’acquisto degli sti­pendi – afferma Bregantini – ma dobbiamo educare al valore della so­brietà, eliminando anche nelle no­stre case sprechi e consumi inutili». L’emergenza educativa viene posta in cima alla lista delle priorità anche da monsignor Michele Castoro, ve­scovo di Oria, e da monsignor Ger­vasio Gestori, vescovo di San Bene­detto del Tronto-Ripatransone­Montalto. «La nostra preoccupazio­ne – afferma il primo – è che il pa­trimonio di valori e di fede del po­polo italiano non vada smarrito nel passaggio delle generazioni. Per questo sarà necessario trovare tutte le strade per sostenere le famiglie e parlare ai giovani, anche a quelli ap­parentemente più lontani».
«Per le nostre comunità – aggiunge Gestori – è certamente un compito gravoso, ma deve essere anche una gioia». La via per perseguire effica­cemente l’obiettivo «è la rete tra le a­genzie educative». «Se la famiglia è fragile e dunque da sola non ce la fa, occorre stabilire quelle che in que­sti giorni abbiamo chiamato allean­ze educative con la scuola e soprat­tutto con la comunità ecclesiale. In­somma, la Chiesa, che in questo campo è stata sempre in prima li­nea, non deve fare nessun passo in­dietro, semmai rilanciare il proprio impegno».
È la medesima sottolineatura pro­posta da monsignor Adriano Ca­prioli, vescovo di Reggio Emilia­Guastalla. «L’emergenza educativa – sostiene – prima ancora che sui contenuti (per altro necessari, anzi indispensabili) si risolve sulla capa­cità di relazione. Nessuno oggi può pensare di educare i giovani da so­lo. Occorrono reti di solidarietà e di aiuto reciproco tra scuola, famiglia e parrocchia, senza escludere il mondo del lavoro. Ed è fondamen­tale che tutti creino un ambiente cul­turale nel quale i giovani possano es­sere invogliati a passare dal permis­sivismo all’assunzione delle re­sponsabilità. In questo specifico am­bito, dunque, le nostre comunità ec­clesiali possono e devono dare un grande contributo».
E tanto più questo contributo sarà importante, aggiunge monsignor Si­mone Giusti, vescovo di Livorno, quanto più farà riferimento ai gran­di valori del Vangelo. «Una certa im­postazione di stampo laicista, che vede la formazione solo come tra­smissione di nozioni, sta mostrando tutto il proprio fallimento. È tempo di tornare ad educare». Anche per­ché, afferma monsignor Sebastiano Sanguinetti, vescovo di Tempio-Am­purias, «è necessario ricomporre la frattura tra fede e vita. Una religio­sità disincarnata e solo devozioni­stica porta a disinteressarsi anche dei problemi del Paese. Al contrario una fede adulta conduce all’impe­gno per il bene comune». Monsignor
Giuseppe Molinari, arcivescovo del­l’Aquila, conclude con un auspicio: «Faccio mio l’appello del cardinale Bagnasco a dare risposte sagge e sol­lecite ai grandi problemi della gen­te. Le nostre comunità sono dispo­nibili a fare la loro parte, con l’e­sempio e la preghiera, ma è indi­spensabile che chi opera in politica si assuma fino in fondo le proprie responsabilità».

© Copyright Avvenire, 29 maggio 2008

Bertello: «Tre sfide da non rimandare»

DA ROMA

Emergenza educativa, bene comune e sostegno economico alla Chiesa. So­no i tre temi sottolineati dal nunzio a­postolico in Italia, monsignor Giuseppe Ber­tello nel suo intervento di saluto alla 58ª As­semblea generale dei vescovi. Il tema prin­cipale dell’assise – ha ricordato l’arcivesco­vo, in riferimento all’educazione dei giova­ni alla fede – chiede alle comunità ecclesia­li (già impegnate in questo campo) «un sup­plemento di consapevole dedizione e una verifica di quanto è stato finora acquisito, in confronto co­raggioso con le sensibilità e le urgenze che nascono dalla situazione at­tuale ». Una situazione, del resto in ra­pido cambia­mento. Tutta­via, ha aggiun­to Bertello, se è mutato «il con­testo sociocul­turale, nel qua­le scrivere la proposta della pastorale giovanile, si è fat­ta sempre più viva la consapevolezza ec­clesiale della necessità di una evangelizza­zione forte e maggiormente esplicita, che sappia dare risposte reali alle domande del mondo dei giovani». Per questo occorrono «maestri che non rinunciano a sentire nel proprio cuore la passione per la felicità del­la persona concreta, che sta loro di fronte». Strettamente collegata alla questione del­l’educazione è quella del bene comune, ha poi ricordato il nunzio. A tal proposito il pre­sule, ha messo in evidenza il contributo da­to alla riflessione su questo tema dalla Set­timana sociale di Pisa e Pistoia e ha augu­rato che l’approfondimento di quella che «costituisce una vera sfida per la nostra so­cietà, possa proseguire a livello locale, nel­lo studio delle diverse situazioni concrete». Infine Bertello ha ricordato i vent’anni del­la pubblicazione del documento Sovvenire alle necessità della Chiesa. «L’alta percen­tuale dei contribuenti, che scelgono come destinataria dell’otto per mille la Chiesa Cat­tolica, è un segno della stima e della fiducia degli italiani per il suo impegno a favore di tutti e si presenta come una modalità at­traverso la quale ciascun fedele può eserci­tare la sua partecipazione corresponsabile non solo alle esigenze di culto e di pastora­le ed al sostentamento del clero, ma anche ad interventi caritativi nel Terzo Mondo». «Durante gli anni trascorsi in Africa e in A­merica Latina – ha concluso il nunzio – ho toccato con mano l’importanza degli aiuti tempestivi ed efficienti della Chiesa italia­na per progetti di sviluppo o per venire in­contro alle emergenze causate da disastri naturali». (M.Mu.)

© Copyright Avvenire, 29 maggio 2008

Re: «Siamo pastori e padri accoglienti»

Nell’omelia della Messa che ha aperto la terza giornata di lavoro, il prefetto della Congregazione per i vescovi indica lo stile autentico di chi è chiamato a guidare e «amare» la comunità cristiana

Salvatore Mazza

DA ROMA

Il vescovo «non è un funzionario, né un burocrate». E neppure «un rappresen­tante del potere, né un manager di un’organizzazione umana » . Il vescovo è piuttosto «il servitore di tutti, serve Dio e, per suo amore, serve il prossimo», ed è «un pastore che illumina, incoraggia, sostiene, e tutti ama e guida; un padre che educa e conforta con una verità che egli ha ricevu­to e che, a sua volta, deve trasmettere».
A ricordarlo è stato ieri mattina il cardina­le Giovanni Battista Re, prefetto della Con­gregazione per i vescovi, nell’omelia della Messa che, nella basilica di San Pietro, ha aperto il terzo giorno di lavori della 58ª As­semblea generale della Conferenza epi­scopale italiana. Nel suo compito di guida e pastore, ha sottolineato il porporato, il ve­scovo «deve essere animato dallo spirito di servizio». L’autorità, «che un tempo era con­siderata incontestabile», oggi «è tanto più persuasiva ed efficace quanto più tiene conto della dignità di ogni persona e si pre­senta con spirito di servizio».
Nello stesso tempo, ha osservato Re, «il ri­conoscere che il nostro compito è servire un progetto più grande di noi ci porta a non ca­dere nel rischio di un pericoloso senso di autosufficienza, che sconfina nell’attivismo e nell’autoritarismo». È infatti dal giorno della consacrazione episcopale, ha insisti­to il prefetto del dicastero vaticano per i ve­scovi, che «siamo al servizio di un’iniziati­va che non è nostra, ma di Dio, e, in pari tempi, siamo al servizio degli uomini e del­le donne del nostro tempo, per sostenerli nel loro cammino sulla terra e indicare lo­ro la meta eterna, nella quale soltanto pos­sono trovare pienezza di significato e di va­lore gli sforzi umani».
Per questo, allora, se lo «stile» di un vesco­vo richiede «tante qualità», dalla saggezza alla fortezza, dalla prudenza all’amabilità, dalla lungimiranza all’attenzione alle pic­cole cose, soprattutto esso «deve essere ca­ratterizzato da un senso di paternità». In­fatti «non dobbiamo mai dimenticare che abbiamo davanti delle persone e non degli operatori o, tanto meno, dei 'numeri' – ha affermato Re –. La paternità episcopale ci chiede di saper incontrare le persone dan­do attenzione a ciascuna. Certamente non per tutte potremo avere lo stesso tempo e la stessa possibilità di rapporto, ma quan­to è importante che ciascuno di quelli che ci incontrano possa avere la sensazione di essere stato accolto e guardato con amore». E dunque « dobbiamo essere pastori dal cuore grande, sullo stile di Paolo che ai Tes­salonicesi scriveva: 'Siamo stati amorevo­li in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affe­zionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stes­sa vita, perché ci siete diventati cari'». E in­fine, ha detto ancora il cardinale Re, «il ve­scovo deve avere un cuore veramente uni­versale, andando anche al di là della co­munità cristiana. Nella vita di sant’Ambro­gio si legge che alla sua morte si afflissero tutti, non soltanto i cristiani, ma anche i giudei e i pagani». Un’esperienza questa, ha rilevato il celebrante, molte volte docu­mentata nella storia: «Tre anni fa, per e­sempio, alla morte di Papa Giovanni Paolo II, ha impressionato la vicinanza ampia e commossa al Pontefice defunto che si è re­gistrata nel mondo intero, una simpatia manifestata da parte dei cattolici ma an­che di persone e di popolazioni apparte­nenti ad altre culture e religioni » . Quel «grande Papa», ha concluso Re, ha lasciato «un segno nel mondo, e molti hanno guar­dato a lui anche per apprendere come si percorre il cammino che ci attende quan­do, per ogni uomo e per ogni donna, si a­priranno le porte dell’eternità».

© Copyright Avvenire, 29 maggio 2008

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