1 ottobre 2007

Antipolitica e democrazia, un editoriale di Navarro Valls


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L´analisi

Antipolitica e democrazia

JOAQUÍN NAVARRO VALLS

Alla fine di giugno di quest´anno, a Vienna, un convegno internazionale ha messo in risalto il problema più importante su cui discutono, oggi, molti Paesi occidentali. Il titolo: Building Trust in Government. L´opinione più diffusa di politologi, sociologi e intellettuali è che proprio nella mancanza di fiducia risiede il vero motivo dell´attuale crisi di consenso di tutte le democrazie europee.
L´autorità e la fiducia, in effetti, sono fattori tra loro strettamente interdipendenti. I cittadini partecipano al processo politico, affidando la loro sovranità ad istituzioni che hanno la legittima autorità sulla base della volontà effettiva dei cittadini che rappresentano. Questo delicato rapporto è il vero fondamento della democrazia. E quando questo rapporto viene meno, allora cominciano a farsi strada crisi profonde, per molti versi simili a quella che si è espressa in Italia nelle polemiche di questi giorni. Tale ribellione popolare non è nuova e neanche è necessariamente grave, anche se offre importanti spunti di riflessione.
Si tratta, in effetti, di un atteggiamento psicologico di perplessità profondamente radicato e sempre presente negli atti e nei comportamenti dei popoli.
Spesso la politica ha saputo utilizzare questi fattori sociali per generare nuovi consensi o per screditare quelli già esistenti. I Sofisti antichi, ad esempio, ad Atene hanno utilizzato il malcontento dei cittadini contro l´aristocrazia come un valido presupposto per finanziare le proprie "scuole", oltre che naturalmente per promuovere la loro cultura. Tutto ciò è abbastanza comprensibile.
E´ chiaro, però, che quando si parla delle nostre società contemporanee il discorso diventa più complesso rispetto al passato. E questo perché effettivamente l´ordine stesso della nostra cittadinanza si fonda su forme di governo di tipo democratico che si reggono sulla solidità imprescindibile della sovranità popolare, la quale, però, resta sempre fragile e manipolabile.
Certamente, il grado di complessità della nostra vita rende estremamente difficile riuscire ad affiancare una conoscenza adeguata degli avvenimenti vissuti tutti i giorni con ciò che accade nel dibattito politico, lasciando spesso gli interessi particolari sguarniti di attenzione. Tutto ciò produce una distanza spesso incolmabile tra la classe politica e i cittadini. Questo sganciamento della vita politica dalla vita reale della gente crea un ambiente favorevole alla demagogia e al disfattismo.
E´ ovvio che ciò accada ed è importante capire i reali motivi che ispirano talvolta una tanto diffusa mancanza di fiducia tra la gente e una conseguente protesta indifferenziata.
Il problema, infatti, inizia quasi sempre da una perdita di speranza che finisce per trascinare un po´ tutto con sé, anche la politica, in un vortice generale di pessimismo.
Gli atteggiamenti antipolitici non sono, infatti, soltanto l´espressione politica più forte della mancanza di ottimismo della gente, ma anche un segnale forte della mancanza di idee e di progetti convincenti da parte della stessa politica.
La democrazia, come ha osservato recentemente Stefano Rodotà, si regge esclusivamente sul coinvolgimento continuo dei cittadini alla vita delle istituzioni. Per questo, le istituzioni stesse devono riuscire a creare ed interpretare questo ruolo attivo dei cittadini, rendendolo rappresentato e reale. Quando questa partecipazione manca, allora la democrazia è incompiuta, entra in crisi, e solo parzialmente riesce a funzionare.
D´altra parte, la fiducia reciproca tra governanti e governati si è accompagnata in ogni tempo allo sviluppo dell´idea di cittadinanza, come ha fatto notare tra gli altri lo storico inglese Walter Ullmann. Questo avviene perché la risposta fiduciosa dei cittadini è legata essenzialmente agli obiettivi veri del messaggio politico, senza i quali difficilmente è possibile che nasca un vero motivo di credibilità tra la gente.
Max Weber ha spiegato dal punto di vista sociologico questa situazione con la sua consueta efficacia, affermando che è molto diverso vivere "di" politica e vivere "per" la politica. Infatti, solo nel secondo caso la politica è mossa "dalla coscienza di dare un senso alla propria esistenza per il fatto di servire una causa".
In effetti, è molto diverso perseguire un obbiettivo o il servirsi di esso. Quello che conta qui è che il consenso può venire soltanto quando i politici danno l´impressione di essere al servizio del bene comune. Allora, sì, la loro funzione non soltanto è percepita come importante da tutti, ma è degna di fiducia e rispetto.
Questo fattore differenzia nettamente il possesso dell´autorità dall´autorevolezza del possessore. Perché il potere, necessariamente connesso alle cariche possedute, appare giustificato esclusivamente quando è uno strumento al servizio di un problema reale, utile ed impellente.
Il filosofo Carl Schmitt ha giustamente affermato che quando la politica perde le proprie finalità finisce per identificare ineluttabilmente il bene e il male con il proprio possesso o meno del potere, creando così un terreno fertile per la corruzione e per la disaffezione generalizzata.
E ciò è perfettamente comprensibile: o la politica ha una sua dignità e autorevolezza, oppure, essendo sullo stesso piano delle altre libertà individuali, è recepita come un abuso intollerabile e da eliminare ad ogni costo.
La dissacrazione qualunquista di questi giorni, che tante volte abbiamo veduto emergere assieme a molte dittature del passato, si genera a causa della perdita completa da parte della politica di almeno un progetto ideale e programmatico, trasformando se stessa in una lotta intollerabile per l´acquisizione del potere. Di cui, alla fine, il popolo reclama la soppressione. Tale eliminazione drastica segna, però, la nascita di un potere ancora maggiore unito alla fine della democrazia stessa.
Sì, perché quando il potere non ha più alcun obiettivo finale eleva se stesso a motivo ultimo di ogni azione. E anche, purtroppo, di ogni distruzione.

© Copyright Repubblica, 1° ottobre 2007

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