7 febbraio 2008

Il suicidio mediatico dello spirito critico: anche alla Sapienza si riflette sul discorso di Benedetto XVI (Osservatore Romano)


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Anche alla Sapienza si riflette sul discorso di Benedetto XVI

Il suicidio mediatico dello spirito critico

di Luca M. Possati

Riflettere sul senso dell'istituzione universitaria alla luce delle parole di Benedetto XVI, quelle stesse parole che il Papa avrebbe dovuto pronunciare nel corso della sua visita all'università "La Sapienza" di Roma dello scorso 17 gennaio, visita alla quale ha dovuto rinunciare.
Con questo scopo la facoltà di Scienze politiche dello stesso ateneo romano ha organizzato mercoledì 6 febbraio l'incontro dal titolo "Fede, ragione e Università". A coordinare i lavori, Fulco Lanchester, preside della facoltà, insieme ai relatori Vittorio Possenti, ordinario di Filosofia politica presso l'università "Cà Foscari" di Venezia, Mario Caravale, ordinario di Storia del diritto italiano presso "La Sapienza", e Teresa Serra, ordinario di Filosofia politica dello stesso ateneo.

Due le domande al centro delle discussioni, le stesse che hanno mosso la riflessione del Pontefice: qual è la natura e la missione del Papato? Qual è la natura e la missione dell'università?

"Abbiamo sentito l'esigenza di riflettere sulle parole del Papa perché riteniamo che l'università debba essere anzitutto un luogo di pluralismo, dove discutere i punti di frizione e chiarirli attraverso il dialogo", ha spiegato il preside.

Soffermandosi sui fatti che hanno portato all'annullamento della visita di Benedetto XVI allo Studium Urbis, Lanchester ha ricordato che "i responsabili sono molti, e non si trovano soltanto in questo Ateneo".

Lo "scandalo" - ha detto il preside - è stato causato da "inequivocabili errori" riconducibili soprattutto alle pressioni esercitate da alcuni mezzi di comunicazione "che hanno sfruttato la situazione per fini polemici".

Ancora una volta, ha aggiunto Lanchester, è avvenuta una "espropriazione del ruolo dell'università come centro della riflessione critica" e una "riproposizione di storici steccati che credevamo superati". Proprio per questo rileggere a un mese di distanza l'allocuzione che Benedetto XVI avrebbe dovuto tenere per l'inaugurazione dell'anno accademico può gettare una luce importante anche sulla storia recente dell'ateneo, istituzione "che, nel secondo dopoguerra, dalla politica è stata lasciata soffocare nelle sue contraddizioni - ha sottolineato ancora Lanchester - e che oggi si trova a dover affrontare gravi problemi economici e organizzativi".
Che cos'è, dunque, l'università? Quale la sua natura, la sua autonomia e la sua vocazione?
Una "palestra nella ricerca della verità": così la definiva Giovanni Paolo II, rivolgendosi alle autorità e agli studenti dell'ateneo di Roma Tre, in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico 2002. Università vuole dire ricerca della verità, ma di una verità al di là del sapere soltanto teorico, al di là di quella scientia che, come ricordava sant'Agostino, da sola è sinonimo di tristitia. "Penso che si possa dire - scrive Benedetto XVI - che la vera, intima origine dell'università stia nella brama di conoscenza che è propria dell'uomo" e che in ultimo luogo è "conoscenza del bene".

Frasi importanti. Frasi che, come ha sottolineato Vittorio Possenti, ripropongono con forza la questione del coraggio per la verità.

"Nel dibattito pubblico - ha detto Possenti - non possiamo mai mettere da parte la ricerca della verità". "Dobbiamo renderci conto - ha aggiunto - che stiamo entrando in un'epoca nuova, che chiude il periodo della privatizzazione della fede. Dopo l'età della secolarizzazione stiamo andando verso una società post-secolare, una società nella quale il discorso religioso è presente nel mondo pubblico in varie forme".
Ecco, allora, che tutti siamo chiamati a porci di nuovo la domanda al centro dell'allocuzione di Benedetto XVI: Che cos'è la verità? Come la si riconosce? E dunque, che cos'è la ragione?
"Se deve esserci un rapporto tra fede e ragione ci deve essere, ancor prima, un reciproco riconoscimento", ha rilevato Possenti, "ma un tale rapporto può instaurarsi solo se entrambe le parti capiscono di avere in fondo il medesimo scopo: la verità". Come già nel discorso all'università di Ratisbona (12 settembre 2006), nell'allocuzione per "La Sapienza" il Pontefice ha affrontato un nodo centrale dell'intera storia della filosofia e della teologia: la ragione umana ha un riferimento che è la realtà, l'essere; ma nello stesso tempo, aprendosi alla rivelazione, può scoprire nuovi campi di azione e conoscere meglio se stessa. "Ecco perché una ragione aperta, che ascolta e che è consapevole dei propri limiti, non può non entrare in dialogo con la fede - ha precisato il filosofo - ma questo dialogo non intacca l'autonomia dell'indagine razionale". La fede non è mai un dato inerme; essa agisce come un "pungolo" per la ragione, un incitamento a guardare al di là del sapere naturale, a non considerare le scienze positive l'unico criterio possibile di razionalità. In tal senso, Possenti ha richiamato le pagine del capitolo sesto del libro di Tobia: "Il viaggio del protagonista può essere letto come una metafora dei rapporti tra fede e ragione", un incitamento alla ricerca della verità perché "la filosofia non può scadere in scientismo, così come la teologia non può diventare un fatto privato".
Ma se la verità è conoscenza del bene, di quella verità che ci rende buoni, quale rapporto intercorre tra conoscenza e agire, tra teoria e prassi? In che modo la verità s'immerge nella comunità e la guida? Si pone così la questione dei fondamenti della vita politica ed etica.

"C'è un passaggio del discorso di Benedetto XVI - ha spiegato Possenti - che non è stato adeguatamente valorizzato, quello in cui il Pontefice si sofferma sulla teologia medievale e sulla disputa tra conoscere ed agire sottolineando l'importanza della sensibilità per la verità nel dibattito politico".
L'orizzonte più inquietante per l'Occidente, oggi, è il "nichilismo giuridico", e cioè quella situazione in cui si nega nel modo più assoluto l'esistenza di una legge, di un diritto fondamentale. Nel nichilismo giuridico a prevalere è l'oblio della legge, il disprezzo per i diritti umani. Diritto, allora, diventa sinonimo di forza, di volontà che si autogestisce, anzi di scontro tra diverse volontà di potenza che non si accettano. Non si riesce più a pensare un fondamento universale del diritto. "Si assimila la legge alla legge positiva", ha spiegato Possenti, "così Nietzsche riprende in maniera più forte quel che era già stato detto da Hobbes e attacca il diritto naturale". È dunque questa la vera vocazione dell'università: farsi luogo di confronto per costituire e rafforzare una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà e della dignità umana, quella "forma ragionevole" richiamata da Benedetto XVI a partire dai testi del filosofo tedesco Jürgen Habermas.

"Certo l'università serve per fornire competenze e immetterle nel mercato del lavoro - ha precisato Possenti - ma deve anche superare questa dimensione ed educare alla libertà, all'impulso disinteressato alla conoscenza contro le lotte politiche per la supremazia e contro un laicismo chiuso nei propri pregiudizi, spesso più anticlericale che laico".

La necessità di pensare un fondamento del diritto precedente il diritto positivo, la "ragione pubblica" che affonda le sue radici nella tradizione, è confermata anche dalla storia del diritto positivo europeo. "In un momento storico come il nostro - ha detto il professor Caravale - un'epoca nella quale la legge non è più la sola fonte del diritto e la sovranità dello Stato viene costantemente messa in discussione, il richiamo alle tradizioni del diritto è fondamentale". Come dimostra la storia delle tre grandi tradizioni giuridiche europee - il diritto romano, quello francese e quello inglese del common law - "c'è sempre, in ognuna di esse, l'idea di un diritto più profondo, fatto di valori essenziali senza i quali il diritto non sarebbe diritto", ha spiegato Caravale. Il concetto più importante espresso dal Papa è stato il richiamo al recupero delle tradizioni culturali, all'esigenza di riconoscerle. "Anche quando si parla, spesso, di modificare la nostra costituzione, dobbiamo renderci conto che esistono norme fondamentali non derivanti dalla nostra natura di esseri umani, ma, più concretamente, dal nostro esser membri di una comunità". E tuttavia, "gli ambienti culturali sono tanti - ha precisato la professoressa Serra - e la storia si chiude nel momento in cui il dialogo cessa, l'ascolto reciproco manca". Il senso autentico delle parole del Papa sta dunque nell'invito a riconoscere l'altro come autentico soggetto di comunicazione libero e portatore di diritti in quanto membro di una comunità. Un senso, questo, condensato nell'appello finale dell'allocuzione: "Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell'università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà" ma "invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio".

(©L'Osservatore Romano - 8 febbraio 2008)

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