6 febbraio 2008

Embrione con tre genitori: i commenti di Veronesi, Veca e Binetti (Corriere)


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R.

Lo scienziato

«Ingegneria genetica? Dico sì se fa nascere bimbi senza malattie»

di UMBERTO VERONESI

La scoperta degli scienziati inglesi, al di là della validità della sua applicazione alla cura, che al momento non possiamo valutare, deve far riflettere su come stiamo affrontando l'immenso potenziale della ricerca sul Dna.
Ogni volta che si annuncia un passo avanti in questo campo, si alzano infatti automaticamente le barriere delle posizioni preconcette e dei no di principio. E così il dibattito soffoca nello scontro ideologico, invece di animarsi attorno al vero problema di ogni ricerca scientifica: il suo obiettivo. Non ci può essere una ricerca buona in sé o malefica in sé, ma piuttosto una finalità buona o malefica, o meglio morale o immorale. In altre parole bisogna interrogarsi sul significato etico della scienza, senza dare per scontata la cattiva leggenda dello scienziato inconsapevole degli effetti delle sue azioni.
Distinguiamo innanzitutto la scienza dalla tecnologia; la tecnologia segue acriticamente le regole del mercato, cioè si impegna comunque a fornire ciò che viene richiesto, senza porsi il problema del perché. La scienza invece segue dei principi che sono: universalità, obiettività, riproducibilità dei risultati e ricerca della verità. E ha una finalità precisa che è quella di migliorare costantemente le condizioni di vita dell'umanità. La scienza tende al bene e ciò che dobbiamo valutare è se ciò che viene fatto in suo nome corrisponde al suo fine. Se l'ingegneria genetica ha lo scopo di evitare malattie in un bambino che ancora deve nascere oppure di curare patologie gravi e mortali, allora non può che essere giudicata positivamente. Ciò che dobbiamo evitare è la mancanza di finalità, vale a dire che qualche genetista esaltato giochi a creare nuovi organismi per il solo gusto della sperimentazione. Certo, per valutare eticamente la scienza bisogna superare alcuni tabù. Prima di tutto la convinzione che il Dna sia sacro e intoccabile. In realtà questo è già stato superato di fatto, poiché oggi il Dna si mischia e si ricombina nelle piante, nei vaccini, nei farmaci. Dunque scagliarsi contro l'intervento dell'uomo sul Dna è antistorico, ma assicurarsi che gli obiettivi scientifici siano morali è sacrosanto. Domandiamoci se di fronte alle pressoché infinite possibilità della genetica conviene buttare tutto al macero oppure lavorare sull'etica degli scienziati. Io credo che buttare al macero in nome di una chiusura ideologica, qualsiasi essa sia, non faccia il bene di nessuno: né dei malati, che dalla genetica si aspettano la cura anche per quelle malattie che oggi non possiamo sempre curare; né della popolazione sana che è consapevole di poter proteggere la propria salute e soprattutto quella dei propri figli, anche quelli che ancora devono nascere; né dei governi, che devono pensare allo sviluppo futuro di un intero Paese in linea con il resto del mondo. Meglio allora lavorare sull'etica della scienza. Ma come? Io ho proposto da anni di creare un organismo super partes, una sorta di Authority all'inglese, una Camera Alta composta dalle principali componenti di pensiero della società (giuristi, filosofi, sociologi, scienziati) che abbia l'incarico di valutare i progressi scientifici proprio in relazione alle loro ricadute sociali. In mancanza di questo saremo condannati a consumare i nostri dibattiti sui media, ascoltando chi urla più forte.

© Copyright Corriere della sera, 6 febbraio 2008

Il fine giustifica i mezzi? Dal mio punto di vista assolutamente no!
R.

Il filosofo «Da una parte e dall'altra vedo certezze brandite come spade. Dobbiamo prendere sul serio quello che ci dicono gli scienziati»

Veca: si può vietare, ma scongiuriamo le crociate

Gian Guido Vecchi

Professore, qual è la sua prima reazione da genitore, da nonno?

«Penso sia una cosa che richiede anche a me una riflessione. E che sia un fatto di civiltà prendere sul serio le posizioni diverse dalle mie, discutere con altri che hanno idee diverse. Anche perché sennò sarebbe noiosissimo ».

Il filosofo laico Salvatore Veca ritiene «irrinunciabile» la libertà di ricerca e tuttavia pensa che una società possa anche decidere di «scartare, fino a prova contraria, determinate applicazioni scientifiche». Il problema è di metodo: «Non troverei nulla di spaventoso nell'arrivare all'idea che questa tecnica non va bene, non si fa. Ma vorrei ci fosse un percorso...».

Quale, professore?

«L'esatto contrario di ciò che succede in questi casi: crociate, certezze irrevocabili da una parte e dall'altra. Vede, è la storia della stanza d'albergo di Marcel Proust: talvolta la sentiva nemica, avvertiva qualcosa fuori posto, e se ne andava».

Siamo come Proust?

«Sì, il disagio bioetico funziona così: nella nostra vita quotidiana irrompono possibilità che prima non c'erano, stravolgono le nostre abitudini e ci procurano incertezza. Siamo sempre un passo indietro rispetto a noi stessi. Nessun uomo è un'isola, diceva John Donne: e invece noi ci troviamo soli, privi di nuovi criteri da condividere con altri».

Già, ma che ci siano due genitori e non tre o uno, più che un'abitudine è un dato biologico, no?

«Certo, ma la questione va soppesata. Immaginiamo che funzioni, che un bambino abbia il retaggio genetico dei due genitori salvo che non è destinato ad ammalarsi per il contributo di una secondo donna. Sarebbe un male? Sicuri?».

Il timore è anche che si arrivi a pratiche eugenetiche...

«Vero, il problema del piano inclinato: dove si va a finire? Ci possono essere dei limiti, ad esempio la Carta di Nizza tutela la dignità delle persone».

Quindi che si fa?

«Anzitutto c'è un problema di verifica, riguardo alle "scoperte" circolano un sacco di bufale. Dopodiché dobbiamo ascoltare i giudizi della cittadinanza, cioè di tutti noi, e insieme prendere sul serio quanto ci dice la comunità scientifica».

Vale l'opposto?

«Chiaro, la comunità scientifica ha le sue responsabilità pubbliche. Nessuno deve tirarsi fuori. E soprattutto nessuno, quali che siano le sue convinzioni etiche, religiose o culturali, può essere escluso da decisioni su cose che riguardano tutti. Sennò finisce come la vicenda del Papa alla Sapienza».

Lei non sosterrebbe il «dissenso» dei 1.500 docenti?

«Eh no! C'è un clima grottesco, siamo diventati matti: scusate, ma la discussione pubblica ha un senso perché ci sono ragioni diverse dalla nostra! E io le prendo molto sul serio».

E cioè?

«Viviamo in una società in cui c'è un disaccordo persistente sulle cose ultime, la vita e la morte. Non è un incidente di percorso né banale relativismo. La libertà delle persone comporta un pluralismo dei valori. Ci sono tante idee di bene: il bene della persona, della scienza...».

In un libro lei ha proposto come metodo la «priorità del male»...

«Poiché ci sono tante idee di "bene", credo abbia più probabilità di successo cercare di mettersi d'accorso su che cosa è "male", l'idea alla Rawls del "consenso per intersezione". Che manovre eugenetiche siano un male, per dire, fa parte del nostro dna europeo: e tutto ciò che vi si approssima va scartato».

Si può limitare la ricerca?

«Non la ricerca in sé, ritengo che la libertà di ricerca sia irrinunciabile, altrimenti siamo fregati. Si può dare il caso in cui certe applicazioni della ricerca non vengono ritenute socialmente accettabili. Tutti devono prendersi la responsabilità di scegliere. Sapendo, come diceva Milton Friedman, che "nessun pasto è gratis": se scegli una cosa, ne perdi un'altra».

© Copyright Corriere della sera, 6 febbraio 2008


La Binetti: aberrante, ferita al genere umano

MILANO — «Aberrazioni mentali da cui dobbiamo guardarci. La definirei una ferita grave all'organismo umano ». Non usa mezzi termini Paola Binetti, senatrice del Partito democratico. È duramente critica con tutti quei ricercatori (inglesi e no) che «trattano un essere umano come un oggetto solo da montare e smontare» e così facendo offende la scienza. «Che — spiega — deve avere obiettivi profondi e importanti per dare risposta ai problemi della vita umana. Deve essere al servizio dell'uomo ».
In linea con la Binetti, Bruno Dallapiccola.
Il genetista romano usa il termine «obbrobrio » per definire l'embrione con il Dna di tre genitori. «Praticamente un'ammucchiata in provetta», è il colorito commento agli studi inglesi. E aggiunge: «Da un punto di vista etico ho forti perplessità. Diciamo che sono abituato a pensare che un bambino nasca da due genitori, non da tre». E Luca Volontè, capogruppo Udc alla Camera, coglie subito l'assist di Dallapiccola e non si tira indietro nel giudicare gli esperimenti d'Oltremanica: «Fanno rabbrividire. Siamo arrivati ormai alla costruzione dell'umano artificiale, al Frankenstein dei film in bianco e nero che supera anche l'immaginazione fantascientifica di Aldous Huxley ».
Dal bianco al nero. A politici ed esperti duramente critici si contrappongono voci entusiaste. Non nasconde la propria soddisfazione Donatella Poretti, deputata radicale: «Una bella notizia. Qualsiasi notizia scientifica utilizzabile per aiutare le persone che hanno malattie deve essere accolta sempre con ottimismo. Non può far paura il risultato di una ricerca che arriva da un Paese democratico come la Gran Bretagna». Da scienziato, il senatore Ignazio Marino spiega che non c'è alcun «problema etico, perché in realtà i genitori sono due e restano due. La chiarezza è d'obbligo: il Dna del nuovo individuo deriva solo dalla fusione dei Dna del padre e della madre ma l'embrione prosegue il suo sviluppo grazie al trapianto dei mitocondri sani. Con i mitocondri sani l'embrione sarà a sua volta sano».

© Copyright Corriere della sera, 6 febbraio 2008

2 commenti:

euge ha detto...

Sono perfettamente d'accordo con la Binetti di questo passo rischiamo di creare dei moderni Frankenstein

ondeb ha detto...

Ha ragione Volontè... Sto pensando che da tempo ho "Brave New World" in lingua originale per leggerlo qualche volta, ma di questo passo rischio di vedere nella realtà delle situazioni che farebbero impallidire l'autore se fosse vivo...