12 aprile 2007

Il Papa e la marcia dei radicali


Sui giornali di martedi' non abbiamo trovato consensi (o critiche) al messaggio pasquale "Urbi et Orbi" di Benedetto XVI. I media hanno semplicemente deciso, salvo rare eccezioni, di ignorare l'appello del Papa al mondo ed ai governanti delle nazioni.
La stampa ha autonomamente deciso che Ratzinger non meritasse alcun cenno ne' di approvazione ne' di critica. Che cosa allora ha riempito lo spazio che avrebbe potuto essere riempito dal Papa? Chiaro! Interviste, commenti, retroscena ed invettive che Marco Pannella ha dedicato al Pontefice, colpevole di non avere salutato la marcia di Roma contro la pena di morte. Gravissimo! Secondo Pannella il Papa DOVEVA PARLARE! Peccato che il leader radicale non difenda cosi' appassionatamente la liberta' di parola del Papa quando questi si interessa (ingerenza!) di temi eticamente sensibili. In questo caso Benedetto XVI DEVE TACERE perche' la difesa della vita e della famiglia non e' affare suo. SILENZIO o abroghiamo il Concordato (come se i 120mila fedeli di domenica ed i 50mila di ieri non portassero beneficio alle casse dello Stato italiano).
Il Comune di Roma dovrebbe ringraziare il Papa!
A parte la battuta, sono del parere che non si possano mai usare due pesi e due misure: il Papa, e in particolare e soprattutto questo Papa, non parla "a comando", non cede alle pressioni mediatiche, fa semplicemente il suo lavoro...fa il Pontefice!
Pannella si lamenta perche' "l'altro Papa" li aveva salutati durante un Angelus e aveva ricevuto lui e la Bonino in udienza. E allora?
Secondo Pannella la benedizione Urbi et Orbi (con piu' di sessanti tv di tutto il mondo collegate) e' la stessa cosa di un Angelus?
Non e' che si cercava pubblicita'?
Se il Papa puo' parlare o meno a seconda dei temi, la laicita' e' un valore assoluto o relativizzabile?
E se il Papa ha il diritto di esprimere la propria opininione, perche' nessuno si e' sentito in dovere di manifestargli solidarieta' dopo la lectio di Ratisbona?
Temo che con Benedetto XVI i radicali abbiano sbagliato indirizzo: il Papa non strumentalizza e non si lascia strumentalizzare da questioni politiche che riguardano l'Italia e non il mondo.
La battaglia contro la pena di morte e' sacrosanta e non puo' avere colori politici.
Pensiamo che Papa Ratzinger sia favorevole alla pena di morte? E gli appelli per salvare i condannati lanciati in questi due anni? Piu' sotto troverete un articolo di Aldo Maria Valli che non perde occasione per contrapporre Papa Benedetto al suo predecessore utilizzando come "arma contro Ratzinger" il catechismo della Chiesa cattolica. E chi ha redatto il catechismo, caro Valli? Non e' stato forse il cardinale Ratzinger? Suvvia!
Un consiglio per gli amici politici: non tentate di strumentalizzare il Papa o avrete brutti risvegli :-)
Quanto sarebbe stato facile dire una parola ai radicali, quanto sarebbe stato osannato dai media un Papa che, incurante del caso Welby, del caso Nuvoli, degli insulti ricevuti un giorno si' e l'altro pure, della minaccia di abolizione del Concordato, avesse prestato il fianco alla politica.
Ma non si sarebbe trattato di ingerenza?
Benedetto XVI avra' molte occasioni di dire la sua sulla pena di morte, ma senza strumentalizzazioni e soprattutto senza pressioni dei media che, spesso, ragionano in base a criteri che nulla hanno a che fare con la coerenza.
Non sono stupita dalla politica, ma sicuramente dall'atteggiamento della comunita' di Sant'Egidio che, per l'ennesima volta, ha offerto alla stampa l'occasione per attaccare il Papa!

Raffaella


Il Papa e le beghine del buonismo

Critiche cattoliche a Benedetto XVI, lodi dal laicissimo Ricossa

Mentre sul nostro foglio il professor Sergio Ricossa, bandiera del pensiero libero e liberale, tesseva le lodi del pontefice, sulle pagine di Europa, quotidiano di una Margherita con molti petali cattolico-democratici, si leggeva una critica a Benedetto XVI che non avrebbe caratterizzato la settimana santa con l’invocazione dell’abolizione della pena di morte. Naturalmente la pena di morte, sulla quale la posizione cattolica è chiaramente enunciata nell’ultima edizione del Catechismo pubblicata dalla congregazione presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger, e approvata da Giovanni Paolo II, non c’entra nulla. Quello che si vuol fare intendere è che il Papa dovrebbe occuparsi solo di problemi innocui, che non pongono dilemmi alle coscienze, secondo gli stilemi di un conformismo buonista che tende a trasformarsi nella nuova religione degli ignavi. I settori della borghesia cattolica che nell’Ottocento se la prendevano con i sacerdoti che difendevano i diritti dei lavoratori sfruttati, sostenendo che avrebbero invece dovuto occuparsi solo dei riti e predicare contro l’odio di classe, la pensavano nello stesso modo. D’altra parte è stata quella che è considerata la più cattolica tra le titolari di ministero, Rosy Bindi, a lamentare che la chiesa non si limiti a occuparsi di Dio.
Questa melassa fatta di buoni sentimenti gratuiti, che si possono, anzi si debbono esibire, che può sembrare innocua, in realtà sta diventando una sorta di pensiero unico asfissiante e intimamente autoritario, per la pretesa che professa in modo sempre più aperto di rappresentare il bene comune. Un po’ di terzomondismo, meglio se africano e veltroniano, un po’ di transigenza verso le tossicodipendenze (ma non per le sigarette e tanto meno per i rigatoni alla carbonara, causa di obesità, il nuovo nemico pubblico numero uno), qualche raduno di cantanti contro la fame e, naturalmente, una bella manifestazione di ministri e notabili vari contro la pena di morte: il catalogo del pensiero unico buonista è tutto qui. Non è vero che non fa male a nessuno. Fa male alla ragione e alla libertà. Le beghine del buonismo non sopportano che si parli d’altro, dell’unicità irripetibile della famiglia e della persona umana, temi aspri, che dividono, e che Benedetto sostiene con argomenti razionali e umani, coi quali i laici veri si confrontano, ritrovandosi sullo stesso terreno, naturalmente con consensi e dissensi. Solo i nuovi clericali, adepti del buonismo, invece di discutere recitano le loro litanie conformiste.

Il Foglio, 12 aprile 2007

APPLAUSI!!!!


Pena di morte, non tutti i papi sono uguali

di ALDO MARIA VALLI

Nel messaggio lanciato da Benedetto XVI alla fine della messa di Pasqua la pena di morte non è menzionata.
Dopo aver esclamato «quante ferite, quanto dolore nel mondo!», il papa ha spiegato: «Penso al flagello della fame, alle malattie incurabili, al terrorismo e ai sequestri di persona, ai mille volti della violenza - talora giusti ficata in nome della religione - al disprezzo della vita e alla violazione dei diritti umani, allo sfruttamento della persona». La pena di morte può essere senz´altro collocata tra i mille volti della violenza e tra i diritti umani violati, così come può essere considerata una forma di disprezzo della vita, ma di fatto il papa non ne ha parlato, suscitando delusione tra i promotori della marcia per la moratoria immediata delle esecuzioni capitali.
Non è però costume dei papi in generale, e di Benedetto in particolare, dare la propria adesione a iniziative che vedano tra gli organizzatori partiti o movimenti politici. E d´altra parte la posizione di Ratzinger in materia non è sovrapponibile in modo semplicistico a quella di Giovanni Paolo II, che più volte disse no alla pena capitale.
Il catechismo del 1997 - ricordando che l´insegnamento tradizionale della Chiesa in materia non esclude il ricorso alla pena di morte ma suggerendo al tempo stesso all´autorità costituita che in realtà è meglio usare «mezzi incruenti» - cerca faticosamente di salvaguardare posizioni e sensibilità diverse all´interno del mondo cattolico. Fu un´aggiunta tratta dall´Evangelium vitae di Giovanni Paolo II, nel 1995, a far virare il catechismo su una posizione più abolizionista là dove ricorda che oggi «a seguito delle possibilità di cui lo stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l´ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti».
Gli appelli di Giovanni Paolo II contro la pena di morte si intensificarono nella parte finale del pontificato. Nel 2003, in occasione della giornata mondiale del malato svoltasi a Washington, inserì il «non necessario ricorso alla pena di morte » fra i mali di un modello di società americana «in cui dominano i potenti emarginando e perfino eliminando i deboli», un modello «improntato alla cultura della morte e perciò in contrasto col messaggio evangelico». Ma andando a ritroso negli anni si trovano molte altre prese di posizione. Nel messaggio per la giornata mondiale della pace del 2001 inserì «il ricorso tutt´altro che necessario alla pena di morte» nel «triste scenario» di una società che mentre invoca la pace mostra nei fatti di disprezzare la vita. Nel settembre del 2000, chiedendo la grazia per Rocco Bernabei, citò quasi alla lettera il nuovo catechismo: «Auspico che si giunga a rinunciare alla pena capitale, dal momento che lo stato oggi dispone di altri mezzi per reprimere efficacemente il crimine, senza togliere de- finitivamente al reo la possibilità di redimersi ». Ancora più espliciti i numerosi appelli lanciati nel 1999, quando, in prossimità del grande giubileo, chiese ripetutamente di arrivare a «un consenso internazionale per l´abolizione della pena di morte», perché «la pena di morte è crudele e non necessaria e questo vale anche per colui che ha fatto molto del male». Quest´ultimo concetto, espresso dal papa il 27 gennaio nello stadio di St. Louis,di fronte a centomila persone, fu accompagnato da una richiesta di clemenza a favore del condannato a morte Darrel Mease, la cui esecuzione era prevista proprio per quel giorno e fu poi graziato dal governatore del Missouri. Molti poi ricorderanno l´appello lanciato nel giorno di Natale del 1998, quando Giovanni Paolo II disse no alla pena di morte così come alla produzione e al commercio delle armi, allo sfruttamento dei bambini, ai genocidi e al degrado ambientale.
Il fatto che non si sia arrivati entro l´anno duemila a una moratoria internazionale rientra fra le sconfitte di papa Wojtyla assieme alla sua campagna per la soppressione del debito estero dei paesi poveri. D´altra fra gli abolizionisti c´è anche chi fa notare che Giovanni Paolo II impiegò troppo tempo per approdare, con l´Evangelium vitae, a una netta presa di posizione contro la pena di morte. Quanto a Benedetto, per capire il suo punto di vista è bene ricordare quanto il cardinale Ratzinger, un anno prima di diventare papa, scriveva ai vescovi degli Stati Uniti in un memorandum riservato.
Nel testo, in cui chiedeva di non ammettere alla comunione i politici cattolici favorevoli all´aborto (nel caso concreto il candidato alla Casa Bianca, John Kerry), il prefetto della congregazione per la dottrina della fede poneva la questione della pena di morte a un livello morale più basso, meno importante e vincolante, rispetto ad aborto ed eutanasia.
Scriveva infatti che poiché «non tutte le questioni hanno lo stesso peso morale», in nessun modo fra i cattolici ci può essere diversità di opinione su aborto ed eutanasia, mentre una diversità può essere legittima «sul fare la guerra e sull´applicare la pena di morte». E ancora più esplicitamente: sebbene la Chiesa esorti a rifiutare la guerra e ad esercitare «discrezione e misericordia» nell´applicazione delle pene, «può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore, o fare ricorso alla pena capitale ». Proprio per questo un cattolico a favore della pena capitale non è «da considerarsi indegno di presentarsi a ricevere la santa comunione ». Per la cronaca, i vescovi americani disobbedirono al cardinale Ratzinger.

Europa 10 aprile 2007

Sempre le stesse cose, gli stessi paragoni...uff



Eppure sono contro la pena di morte

A Pasqua non ho marciato per quella idea dello Stato...

Francesco D'Agostino

Mi hanno chiesto perché non ho preso parte alla "marcia di Pasqua" che si è svolta a Roma contro la pena di morte. La prima, facile risposta - e del tutto corretta - è che per quel giorno avevo da tempo previsto la mia assenza da Roma. A questa prima risposta, però, ripensandoci meglio, ho dovuto, per onestà intellettuale, aggiungerne un'altra. Anche se fossi stato a Roma, non avrei certamente partecipato all'iniziativa. Perché? Per una sorta di disagio, che non è semplice spiegare, dato che non posso che ammirare chi si batte contro la pena di morte nel mondo e rispettare chiunque attivi iniziative per combatterla. Dato però che si tratta di un disagio autentico e profondo, bisogna pur portarlo alla luce. Sicuramente in esso rientra il non volermi trovare in quella che non saprei definire se non come una cattiva compagnia, il non voler manifestare fianco a fianco con alcuni, che lottano sì contro la pena di morte (una lotta, ripeto, in sé e per sé nobilissima), ma non si battono, né mai si sono battuti, per il diritto alla vita. E poiché questa contraddizione è radicata e si è esplicitata in innumerevoli dichiarazioni e in tanti conseguenti atteggiamenti (nonché in pratiche che hanno avuto notevole rilievo mediatico, come nel recente "caso Welby"), sono da tempo giunto alla conclusione che per costoro il dire di no alla pena di morte ha un significato assolutamente diverso dal mio (e da quello di tanti altri): per me è dire di sì alla vita, per loro è dire di no al diritto penale. Tra coloro infatti che si battono contro la pena di morte, alcuni non partono dall'idea che la vita umana sia sacra e che di conseguenza la pena capitale sia sempre ingiusta (questa, a mio avviso, è l'unica ragione plausibile per opporsi alla pena capitale), ma, in una logica di radicale relativismo individualistico e avendo difficoltà a tematizzare in ambito morale l'idea stessa della responsabilità, separano diritto e morale e giungono a negare che ciò che i giuristi chiamano delitto d ebba avere a proprio fondamento la colpa morale del colpevole e che perciò meriti una pena. Di conseguenza, criticano l'idea stessa che si possa formulare un concetto oggettivo di giustizia e riducono l'ingiusto a ciò che è proibito dalla legge (capovolgendo ciò che per il senso comune è evidente e cioè che il compito della legge consiste nel punire ciò che è oggettivamente ingiusto). E arrivano così, alla fine, a pensare come inaccettabile l'idea che si possa affidare allo Stato, come suo altissimo e prioritario dovere, il potere di punire. Ora, non c'è dubbio che molte pene comminate nel mondo siano ingiuste, perché non rispettano la dignità del reo e non ne favoriscono l'espiazione e, più in generale, che sia vistosissima la crisi in cui versa oggi il diritto penale, troppo spesso ridotto a mera tecnica di difesa sociale o, peggio ancora, pensato come finalizzato a soddisfare il comprensibile, ma aberrante desiderio di vendetta delle vittime dei crimini. Da questa idea del diritto penale ho sempre ritenuto doveroso dissociarmi radicalmente. Ma è, a mio avviso, altrettanto doveroso dissociarmi da ogni iniziativa contro la pena di morte che si trasformi di fatto in una negazione della giustizia penale e in una lotta per negare che lo Stato abbia in generale il dovere di punire. Viviamo davvero in tempi tristi, se la lotta per il diritto alla vita giunge a dissociarsi dalla lotta contro la pena di morte e attivare una serie di equivoci così preoccupanti.

Avvenire, 11 aprile 2007


Io domenica c'ero

Mescolati con gli altri per fare insieme un passo avanti

Mario Marazziti

Per la prima volta nella storia umana è possibile che la pena di morte arretri pesantemente. Più di metà dei Paesi del mondo non la usa più e la curva abolizionista è in ascesa costante. Nel 1972 i Paesi che l'avevano abolita erano appena 21. Oggi 98 Paesi l'hanno abolita per ogni reato o la prevedono solo per crimini di guerra. Se si aggiungono i 27 Paesi abolizionisti "di fatto", che non eseguono più condanne da oltre dieci anni, arriviamo a 125 paesi, contro 71 che ancora emettono sentenze capitali e a una cinquantina che davvero le eseguono. Tra questi, come è noto, Cina, Iraq, Iran, Arabia Saudita, Stati Uniti, Egitto, Singapore, sono tra i più attivi, in compagnia di Pakistan, India e Giappone. La vittoria sulla pena capitale è decisiva per l'affermazione di una cultura della vita senza eccezioni, anche se l'evoluzione del pensiero è stata tardiva. Platone e Aristotele, Sant'Agostino e San Tommaso, Lutero e Calvino, Tommaso Moro e Rousseau, Kant e Hegel hanno ritenuto in vario modo normale l'amputazione del "membro malato" della società o la giustizia come atto puramente retributivo, fino alla pena capitale. Nelle Scritture, a dire il vero, c'è una evoluzione che spinge a vedere un cammino inequivoco dalla sua accettazione al suo superamento: dalla vendetta sproporzionata («settanta volte sette»), alla pena proporzionata (la legge del taglione), al segno di salvezza su Caino, alla convinzione, nel Libro di Giobbe, che l'uomo non può disporre della vita umana: «Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio d'ogni carne umana» (Gb 12, 10). Fino al superamento di ogni violenza nei Vangeli e al Venerdì Santo, dove Gesù, il Giusto, è crocifisso e messo a morte innocente dal diritto e dalla giustizia più raffinati del mondo. Nel mondo occidentale si è affermato progressivamente un senso diverso di giustizia. Da un lato una concezione pattizia del diritto in vista della difesa della vita umana (Hobbes), dall'altra una sensibilità evangelica che già faceva escl udere i cristiani dall'esercito di Giuliano l'Apostata per il loro rifiuto di dare morte. Giustizia, sì, ma sempre riabilitativa. Giustizia senza morte (Cesare Beccaria): fino al Tribunale Penale Internazionale per i crimini contro l'umanità che esclude dalle punizioni possibili la pena capitale anche in caso di genocidio. Oggi appare raggiungibile l'obiettivo di una moratoria universale delle sentenze e delle esecuzioni capitali ed è di grande importanza l'impegno italiano per arrivare a presentare una risoluzione all'Assemblea generale delle Nazioni Unite. La Comunità di Sant'Egidio lavora da anni perché si affermi una cultura della vita senza eccezioni e perché si fermi la pena di morte nel mondo. Per sempre. Perché è una legittimazione al livello più alto, quello dello stato, di una cultura di morte e non solo perché è inutile, perché non è un deterrente, perché è macchiata da discriminazione sociale, religiosa, politica: dopo la schiavitù e la tortura, anch'esse ritenute normali per secoli, oggi è tempo che la pena di morte diventi armamentario del passato. Per questo ha promosso un appello per una moratoria universale che ha creato il primo fronte morale unitario del mondo su questo tema, che ha raccolto già più di cinque milioni di firme in tutte le principali culture del pianeta e che è diventato l'Appello ufficiale di tutto il movimento abolizionista mondiale. La Marcia di Pasqua assieme a tanti anche di culture e provenienze diverse si inserisce in una battaglia civile che vede un numero crescente di soggetti impegnati a tutto campo per regalare al mondo un diritto umano in più.

Avvenire, 11 aprile 2007

Ottimo Francesco D'Agostino! Condivido la scelta e le ragioni del dissenso
Raffaella

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