19 aprile 2007

Auguri, Santità! La parola ai cardinali...


Vedi anche:

Cronaca minuto per minuto di quel 19 aprile 2005

Numero speciale dell'Osservatore romano

I cardinali descrivono la personalita' di Papa Benedetto

Che tipo e'il Papa? Risponde chi lo conosce bene...

Gli auguri dell'Osservatore romano




Papa Ratzinger: mente e cuore

del cardinale Jozef Tomko
prefetto emerito della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli


Molta acqua è passata sotto i ponti del Tevere, da quando nel 1969 incontrai il giovane professore Joseph Ratzinger nella prima riunione della Commissione teologica internazionale di cui mi toccò organizzare l’aspetto tecnico. Fra i trenta membri vi erano nomi di gran prestigio: il vescovo Carlo Colombo, il vivace padre Yves Congar, l’umile padre Henri de Lubac, il rumoroso (a causa del debole udito) padre Karl Rahner, il taciturno Hans Urs von Balthasar, per nominarne soltanto alcuni. Joseph Ratzinger fu tra i più giovani, lo si vedeva spesso in compagnia del noto esegeta Rudolf Schnackenburg. L’atmosfera generale postconciliare era ancora abbastanza calda, ma le discussioni in seno alla Commissione furono rispettose, anche se a volte vivaci. Ratzinger interveniva poco e manifestava chiaramente il suo temperamento discreto, gentile e sobrio, con una cordialità misurata ma sincera. Comunque, il suo prestigio teologico e umano cresceva.
Paolo VI lo nominò nel 1977 arcivescovo della capitale bavarese e cardinale; Giovanni Paolo II lo designò, nel 1980, come relatore generale dell’importante assemblea sinodale sul matrimonio e sulla famiglia. Si può dire che questa fu la sua prima apparizione, prolungata per un mese di collegiale cooperazione, sotto gli occhi dei pastori provenienti da tutto il mondo. La profondità della dottrina, il rispetto delle opinioni collegato con la lineare chiarezza e sensibilità pastorale, gli procurarono molti consensi nell’episcopato mondiale e la sua nomina nel 1981 a prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, in successione al cardinale Franjo Seper, sorprese forse più lui che l’episcopato.
Qui cominciò la metamorfosi, certo non del cardinale Ratzinger ma della sua immagine nei media. Una certa stampa gli applicò le proprie categorie e i cliché già elaborati per il vecchio Sant’Offizio, e ne fece un “grande inquisitore”, senza cuore, rigido e duro, con aggettivi che la carta stampata oggi si vergogna di sopportare. Un’immagine volutamente falsata da alcune parti tanto sotto l’aspetto della dottrina quanto sotto quello dell’umanità. Chi lo conosceva da vicino, poteva solo meravigliarsi di tanta acredine e ammirare la sua forza d’animo e serenità. Mi ricordo le sue profonde riflessioni estemporanee in un colloquio sulla virtù della fortezza. Fu la sua risposta silenziosa e dignitosa agli ingiusti e bassi attacchi. Nelle nostre riunioni in seno alla Congregazione, che – guarda caso – conserva il metodo di lavoro collegiale, e nei contatti personali noi abbiamo conosciuto un altro Ratzinger. I voti scritti con cura nel suo quaderno, con i quali approfondiva il tema che dovevamo discutere, erano la scuola non solo di alta teologia, ma anche di ragionevole moderazione dei toni. Quando si trattava di dover affrontare le opinioni di un autore, il prefetto era sempre pronto a proporre il dialogo con quel teologo. Il suo atteggiamento verso il personale e persino verso la gente che incontrava quando in tutta semplicità, con il basco in testa e la borsa nella mano, attraversava la piazza di San Pietro sulla strada tra l’ufficio e la casa, manifestava il cuore umano.
Cuore sensibile e cuore di pastore. Chi ascoltava la sua calda omelia per il venticinquesimo del suo episcopato nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, alla presenza dei concittadini bavaresi in costume, e i discorsi spirituali proferiti in altre occasioni, poteva intuire la profonda spiritualità sacerdotale del cardinale. Le grandi masse l’hanno conosciuta soprattutto in occasione dei funerali dell’indimenticabile Giovanni Paolo II. Del resto, il tatto e la saggezza con cui ha diretto le riunioni del Collegio cardinalizio, radunato al completo, durante i novendialia, lo hanno fatto conoscere da vicino e apprezzare anche ai porporati provenienti da lontano.
Durante questi memorabili eventi l’immagine pubblica del cardinale Ratzinger cambiava e diventava sempre più veritiera. Era lui, con tutta la sua umanità e fede, che apparve con le braccia aperte la sera dopo la sua elezione sulla loggia della Basilica di San Pietro alla folla accorsa in piazza. Ed era ancora lui, solo lui, che ho potuto ascoltare nel discorso pronunciato in un forbito latino la mattina seguente nella Cappella Sistina, ormai aperta. Senza esserlo dichiaratamente, era in fondo un discorso programmatico: dopo il richiamo all’eredità di Giovanni Paolo II vi era la ferma fiducia nell’aiuto divino, la volontà di seguire il Concilio Vaticano II come bussola, nello spirito di collegialità episcopale, centrata sull’Eucaristia e sul Risorto; seguiva poi l’invito ai sacerdoti, l’impegno per l’ecumenismo e il dialogo, per la famiglia umana e lo sviluppo sociale, e l’appello ai giovani.
I due anni del fecondo pontificato sono ora presenti davanti agli occhi di tutti: il viaggio in Polonia, la Giornata mondiale della gioventù, i discorsi in Baviera, compreso quello di Regensburg, la Turchia come viaggio dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, il grande discorso alla Chiesa italiana a Verona, per menzionare soltanto alcuni gesti. La gente accorre a incontrare Benedetto XVI perché ogni sua omelia o discorso è un nutrimento per lo spirito e per l’intelligenza. Persino quella breve riflessione domenicale all’Angelus dalla finestra del Palazzo Apostolico, diventata ormai una cattedra, raccoglie una numerosa folla di fedeli, italiani e stranieri. Un giovane mi ha spiegato: «Lo ascolto volentieri perché parla profondamente, eppure io lo capisco». Il mondo ha già riscoperto in Benedetto XVI non solo la lucida ragionevolezza del professore e teologo ma anche e soprattutto il cuore di pastore, servus servorum Dei, con il delicato sorriso e le braccia aperte.
Penso che il miglior augurio per l’ottantesimo compleanno di Benedetto XVI sia quello classico, liturgico: «Dominus conservet eum!».

Trenta giorni


Un pellegrinaggio commovente

del cardinale Paul Poupard
presidente del Pontificio Consiglio della cultura


Il compleanno del padre di famiglia è un’occasione molto cara ai figli per esprimergli il loro amore. Per questo motivo, mentre ci accingiamo a celebrare l’ottantesimo genetliaco del santo padre Benedetto XVI, non vorrei limitarmi soltanto a onorare l’appuntamento anagrafico. Desidero, invece, rivolgermi al Santo Padre attingendo alla memoria del cuore, colma di gratitudine per le tante dimostrazioni di paterna accoglienza, di incontro, di dialogo offerte a tutto il mondo. Una di queste testimonianze si eleva sulle altre e mi tocca nell’intimo, perché l’ho vissuta direttamente, in una vicinanza speciale e privilegiata: il pellegrinaggio in Turchia. Ora che i riflettori si sono spenti e le urgenze della cronaca affievolite, rimane la serenità per meditare su questa visita che Dio ha accompagnato fin dall’inizio e che ha potuto così realizzarsi felicemente, ed è divenuta un dono grande per la Chiesa e per tutta l’umanità.
È un viaggio pastorale – mi rifaccio alla visione che il Concilio Vaticano II presenta nella costituzione Lumen gentium ai nn. 14-16 – che, come la missione della Chiesa, si snoda “a cerchi concentrici”. Nel cerchio più interno il successore di Pietro conferma nella fede i cattolici, in quello intermedio incontra gli altri cristiani, mentre in quello più esterno si rivolge ai non cristiani e all’intera umanità. La prima giornata, in effetti, si è svolta nell’ambito di questo terzo “cerchio”, il più largo, per insistere sull’importanza che cristiani e musulmani si impegnino insieme per l’uomo, per la vita, per la pace e la giustizia. Nell’ambito del dialogo interreligioso, la divina Provvidenza ha concesso di compiere, quasi alla fine del viaggio, un gesto inizialmente non previsto, e rivelatosi assai significativo: la visita alla celebre Moschea Blu di Istanbul. Santo Padre, conservo gelosamente scolpiti nella memoria i pochi istanti di raccoglimento in quel luogo di preghiera durante i quali – ne sono convinto – lei si è rivolto all’unico Signore del cielo e della terra, Padre misericordioso dell’intera umanità, a invocare benedizioni anche sul colloquio con il gran rabbino di Turchia. All’orizzonte della memoria si affaccia Efeso, e dunque il “cerchio” più interno del viaggio, a contatto diretto con la comunità cattolica. Nel giardino antistante il santuario, un pellegrinaggio commovente di fedeli venuti dalla vicina città di Izmir, da altre parti della Turchia e anche dall’estero per partecipare alla santa messa, mi ha fatto risuonare nel cuore, in tutta la loro forza e verità, le parole: «Dove c’è Pietro ivi è la Chiesa». Presso la “Casa di Maria” ci siamo sentiti davvero “a casa”, e in quel clima di armonia si è alzata la preghiera per la pace in Terra Santa e nel mondo intero. Il “cerchio” intermedio si è realizzato in occasione della festa di sant’Andrea, il 30 novembre. Sulle orme di Paolo VI, che incontrò il patriarca Atenagora, e di Giovanni Paolo II, che fu accolto dal successore di Atenagora, Dimitrios I, ho visto lei, Santo Padre, rinnovare con sua santità Bartolomeo I questo gesto di grande valore simbolico, per confermare l’impegno reciproco di proseguire sulla strada verso il ristabilimento della piena comunione tra cattolici e ortodossi. Il ritorno al “cerchio” più interno, e cioè l’incontro con la comunità cattolica presente in ogni sua componente nella Cattedrale latina dello Spirito Santo, a Istanbul, ha sigillato questo pellegrinaggio. Ci aiuti Iddio onnipotente e misericordioso a costruire ponti di amicizia e di fraterna collaborazione fra i popoli e le nazioni, fra le culture e le religioni, come la Santità Vostra non cessa di testimoniare in ogni occasione.
In questo clima di ricordo gioioso e grato, nel grande coro di attestazioni di affetto e di riconoscenza, di gioia e di fedeltà, le giungano i miei auguri più cordiali nella felice ricorrenza del suo ottantesimo genetliaco, unitamente al grazie dal più profondo del cuore per il suo prezioso ministero pastorale per il bene di tutta la Santa Chiesa di Dio. Possa ella continuare la sua opera di pace e di riconciliazione fra i popoli, di dialogo e di incontro tra le culture e le religioni. Grazie per l’affabile testimonianza e l’amabilità che ci rincuora ogni giorno! Il Signore le conceda di guidare sapientemente la Chiesa e di continuare a trasmetterci quella forza di cui abbiamo costantemente bisogno per rendere ragione davanti agli uomini, con dolcezza e rispetto, della speranza che è in noi (cfr. 1Pt 3, 15). Santo Padre, con il cuore colmo di gratitudine e di filiale riconoscenza, le rinnovo le mie espressioni augurali, che ora si fanno preghiera: la Trinità Santissima la illumini e la benedica; la Vergine Maria, Madre della Chiesa, la accompagni e le faccia sentire sempre la dolcezza della sua materna consolazione. Ad multos annos, Santità!

Trenta giorni


Fede e cultura per la vita e la persona umana

del cardinale Fiorenzo Angelini
presidente emerito del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari


Quando ascoltai l’omelia tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger, decano del Sacro Collegio, in occasione delle esequie in suffragio di sua santità Giovanni Paolo II, ebbi forte la sensazione che sarebbe stato lui a succedergli in un compito che, più tardi, a elezione avvenuta, egli stesso avrebbe definito «inaudito».
In realtà, quanto a me, non si trattava di una sensazione semplicemente emotiva, ma oggettivamente motivata, poiché nelle sue parole, nel suo retroterra spirituale e culturale e nella sua faticosamente contenuta commozione per la scomparsa di papa Wojtyla si intravedeva il confermarsi del provvidenziale disegno della continuità del magistero e del ministero petrino.
L’insistenza sull’evangelico «seguimi», ripetuto – nella suddetta omelia – per ben otto volte, mi sembrò trasferire quasi visivamente in colui che lo proferiva davanti alla salma dell’indimenticabile Pontefice, l’immagine del passaggio del testimone nella guida della Chiesa.
Ho parlato di disegno provvidenziale, poiché l’elezione di Benedetto XVI ha quasi automaticamente cancellato lo stereotipo caro alla stampa frettolosa che per anni aveva definito Joseph Ratzinger come il “guardiano” della fede, con tutte le ambiguità che siffatta definizione comporta.
Il conclave, guidato dall’ispirazione dello Spirito, non dava alla Chiesa un “guardiano” della fede, ma un Pastore che il Signore aveva a lungo preparato, tanto che, a cose avvenute, l’elezione a pontefice di Joseph Ratzinger parve tanto naturale da apparire persino ovvia. Ma le cose di Dio non sono mai così semplici e la loro lettura non può mai essere affidata a calcoli meramente umani.
Chi, per ragioni di studio e di formazione teologica ed ecclesiologica, ricorda le prime e subito affermate pubblicazioni curate dal professor Joseph Ratzinger quando insegnava Teologia dogmatica e fondamentale nella Scuola superiore di Filosofia e Teologia a Frisinga e otteneva la docenza a Bonn, sa che le sue posizioni sia dottrinali sia pastorali erano aperte e coraggiose. Anzi, secondo un linguaggio improprio che prese piede, anche negli ambienti cattolici, negli anni del preconcilio, si sarebbe detto che gli scritti del professor Ratzinger non mancavano di un taglio progressista. Comunque, grazie alla sua crescente notorietà sia a livello nazionale che internazionale, dal 1962 al 1965 egli prese parte e diede un notevole contributo come “esperto” al Concilio Vaticano II, assistendo in qualità di consultore teologico il cardinale Joseph Frings, arcivescovo di Colonia.

Il punto fermo del Concilio

Il Concilio che colse il professor Ratzinger nel mezzo del cammino della sua vita premiò le sue posizioni coraggiose, ma rigorosamente equilibrate, tanto da rimanere il punto di riferimento costante del suo impegno come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e del suo programma di pontefice. Un impegno e un programma nel segno di una continuità non statica, ma quotidianamente in cammino. Lui che aveva guardato al Concilio come a un irrinunciabile traguardo di rinnovamento della Chiesa, scoprì nei suoi documenti che il traguardo era stato raggiunto in termini di più aperta visione ecclesiologica. Ciò che a Concilio ultimato occorreva compiere altro non era, quindi, che dare attuazione alle direttive del Concilio. Questo pensiero e questa aspirazione non lo hanno più abbandonato. Sue opere come Introduzione al cristianesimo (1968), Dogma e predicazione (1973), Rapporto sulla fede (1985), Il sale della terra (1996), per citarne soltanto alcune, si collocano tutte su questa linea di assoluta fedeltà al Concilio. Ecco perché, nel suo primo messaggio al termine della concelebrazione eucaristica con i cardinali elettori nella Cappella Sistina il 20 aprile 2005, dopo aver ricordato che Giovanni Paolo II indicava il Concilio come “bussola” con cui orientarsi nel vasto oceano del terzo millennio (cfr. Lettera apostolica Novo millennio ineunte, 57-58), Benedetto XVI ha detto: «Anch’io, pertanto, nell’accingermi al servizio che è proprio del successore di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del Concilio Vaticano II, sulla scia dei miei predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa». Non solo, ma ha aggiunto che i documenti conciliari, con i loro insegnamenti, «si rivelano particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata».
Anche per Benedetto XVI il Concilio rimane la “bussola” di orientamento per la Chiesa, e la prova di questa sua scrupolosa aderenza alla dottrina e agli indirizzi pastorali del Vaticano II la offre il fatto che, dal giorno della sua elezione a oggi, Benedetto XVI, colpito dall’ondata di relativismo e di indifferenza che ha investito la stessa società cristiana a tutti i livelli, non si stanca di chiamare in causa quella sorta di nervo scoperto della cultura moderna e contemporanea che è l’incapacità di guardare con oggettiva serenità al delicato, ma ineliminabile, problema del rapporto tra fede e cultura, tra scienza e fede, in una parola tra religione e ragione.

Il rapporto religione e ragione

Vorrei, infatti, subito sottolineare che i richiami dottrinali non solo della prima enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est, ma delle sue allocuzioni agli esponenti di diverse Conferenze episcopali, ai responsabili degli Istituti religiosi maschili e femminili, ai fedeli laici di diversi gruppi e associazioni, affrontano appunto il tema e il problema del rapporto tra fede e cultura, tra religione e ragione.
Quando ho letto, nella versione originale e con le note autografe del Santo Padre, il testo della conferenza, anzi, della lezione da lui tenuta all’Università di Regensburg il 12 settembre 2006, dedicata al rapporto essenziale tra fede e ragione, mi è parso di riascoltare la splendida enciclica Fides et ratio (14 settembre 1998) che Giovanni Paolo II aveva dedicato al medesimo argomento. Come non avvertire – per esempio – la piena consonanza tra le due seguenti enunciazioni nel linguaggio dei due pontefici sul rapporto tra fede e ragione?
Scriveva Giovanni Paolo II nella Fides et ratio: «Sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l’una di fronte all’altra. La ragione, privata dell’apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggiore incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia innanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere» (Fides et ratio, n. 48).
Ha detto Benedetto XVI a Regensburg: «[...] la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 – certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro e impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos [cioè come ragione, ndr] e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore, come dice Paolo, sorpassa la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr. Ef 3, 19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo, loghikè latreía – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr. Rm 12, 1)».
L’enciclica di Giovanni Paolo II si apriva con le parole: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità». Non si vola verso la verità con una sola ala, né con la sola fede né con la sola ragione. Spetta alla teologia, e segnatamente alla «teologia fondamentale», come precisa il n. 67 della Fides et ratio, «mostrare l’intima compatibilità tra la fede e la sua esigenza essenziale di esplicitarsi mediante una ragione che sia in grado di dare in piena libertà il suo assenso».
A sua volta Benedetto XVI ribadisce: «Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture».
Perciò il Papa con fermezza e rigore parla di «patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più».
Queste patologie, oggi, hanno soprattutto il nome di integralismo e di fondamentalismo, mentre la mens sana comporta una ragione che di fronte agli interrogativi fondamentali della vita si apra alla religione e una religiosità che dalla ragione attinga quelle motivazioni umano-scientifiche che rendano la nostra pietas un rationabile obsequium.
La conclusione della conferenza di Regensburg è illuminante là dove afferma: «L’Occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza, è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente».
I «sentieri laterali» di cui parlava Giovanni Paolo II e le «patologie» richiamate da Benedetto XVI avviano il percorso della ragione verso quel relativismo che la ragione lasciata a sé stessa e non illuminata dalla fede pretende garante della libertà che, invece, approda all’arbitrio che cancella quella “proposta universale”, condizione irrinunciabile per la promozione e la difesa dei diritti umani fondamentali incentrati nel diritto alla vita e nell’affermazione della dignità e sacralità della persona umana. Il relativismo che, in teoria, pretende di difendere i diritti di tutti, in realtà mina alle fondamenta i diritti irrinunciabili di ciascuno.

L’amore, nucleo dell’incontro tra fede e cultura

Il Papa è pienamente consapevole che l’incontro tra religione e ragione, tra fede e cultura si trasforma in proposta e in risposta agli interrogativi fondamentali della vita soltanto se a saldare il rapporto religione-ragione e a renderlo operante in maniera efficace è l’amore nella sua duplice dimensione di amore di Dio e di amore del prossimo.
Nella società di oggi, anzi nel mondo di oggi, l’assenza di dialogo tra fede e ragione, oltre che portare allo scontro reciproco, ha moltiplicato i “deserti” dell’esistenza che sono in realtà “deserti” di amore. Ne parlò il Papa nell’omelia della messa di imposizione del pallio e di consegna dell’anello del pescatore per l’inizio del ministero petrino. Sono parole di una chiarezza e profondità straordinarie, premessa di quella “proposta universale” che Benedetto XVI volle ricordare anche ai duecento capi di Stato e di governo presenti. «La santa inquietudine di Cristo», disse il Papa, «deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo».
Ecco perché «la Chiesa nel suo insieme, e i pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori del deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita». Non c’è alternativa, poiché Dio che è amore, per amore ha salvato il mondo attraverso il sacrificio del Figlio. «Il Dio», dice il Papa, «che è divenuto agnello ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso, non dai crocifissori».
Ma amare significa dare alle anime «il nutrimento della verità»; e se l’amore è vero ed è amore per tutto l’uomo e per tutti gli uomini, esso è la prima verità da difendere e da promuovere. Una verità che per essere veramente una valida proposta universale non è opinabile e, quindi, neppure negoziabile.
Benedetto XVI, tuttavia, non si ferma agli enunciati di indole generale; la sua catechesi scende alle applicazioni pratiche con grande concretezza; cura i particolari con l’acribia del suo mai dismesso rigore di professore, come dimostra la seconda parte dell’enciclica Deus caritas est e, in modo particolare, il suo accorato messaggio per la Giornata mondiale della pace 2007, continuazione logica del suo messaggio per la Giornata mondiale del 2006 che titolò “Nella verità, la pace”. Non si costruisce la pace senza difendere la vita, il cui valore è sintesi e nucleo di tutti i diritti fondamentali dell’uomo. La bella definizione pontificia di “pace”, «persona umana, cuore della pace», va alla radice del problema della pace, la quale non è soltanto assenza di conflitti, ma incontro degli uni con gli altri, incontro della vita con la vita.
Personalmente sono convinto che l’assunto “fede e cultura al servizio della vita e della persona umana” sia un’esaustiva chiave di lettura dell’intera parabola conciliare, dal discorso di apertura del Concilio da parte del beato Giovanni XXIII al messaggio agli uomini di cultura e di scienza di Paolo VI, ai ripetuti richiami al Concilio di Giovanni Paolo II fino ai recentissimi interventi di Benedetto XVI. Una chiave di lettura che riporta alle parole di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6).

Trenta giorni


Un lungo cammino nella fedeltà e nel servizio alla Chiesa

del cardinale Jean-Claude Turcotte
arcivescovo di Montréal


Ho avuto il privilegio di incontrare sua santità il papa Benedetto XVI diverse volte, prima e dopo la sua elezione a pontefice.
La sua accoglienza è stata sempre semplice e cordiale. Le diverse questioni che abbiamo affrontato hanno determinato uno scambio franco e diretto che ha consentito di esprimere punti di vista che sono stati ben recepiti. Ogni volta sono uscito arricchito da questi incontri, arricchito dalla luce delle conoscenze di quest’uomo che sa illuminare le questioni più difficili con la saggezza che promana dai suoi giudizi.
Sono riconoscente al Signore di poter mettere la mia persona al suo servizio nei compiti che mi ha affidato, e di assisterlo nel governo della Chiesa.
La celebrazione del suo ottantesimo compleanno è per me l’occasione per rallegrarmi con lui del lungo cammino percorso attraverso gli anni nella fedeltà e nel servizio alla Chiesa, e per rendere grazie al Signore per avercelo dato come pastore.
In unione con la Chiesa di Montréal, gli ribadisco il mio affetto e la mia ammirazione e gli porgo i miei auguri più sinceri. Chiedo al Signore di colmarlo delle sue benedizioni e di dargli la salute, l’audacia, la serenità e il coraggio richiesti dall’esercizio del suo ministero di comunione.

Trenta giorni

Nessun commento: