12 ottobre 2007

La cultura cattolica impari a rapportarsi con la forza della corrente ratzingeriana


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Maurizio Crippa

Milano. “Ho dovuto far fuori il sapere per fare posto alla fede”. E’ la frase di Kant, nella “Critica della Ragion pura”, che formula il paradigma dominante da due secoli, e tutt’oggi vincente, per quel che concerne il modo di intendere il rapporto
tra la ragione e la fede. Si può anche credere in un Dio trascendente, ma ciò non abbia a che fare con la conoscenza del mondo, né tantomeno con il suo governo.
“Quando il Papa cita Kant, non lo fa per una sorta di omaggio, o per il retaggio della filosofia tedesca, come qualcuno pensa, ma lo fa esattamente per portare la sua sfida a quella frase, per porre il suo invito di dialogo a questo livello: chi decide che per accedere alla fede, per fare posto a Dio, si debba far fuori la ragione? La sfida è sulla natura della ragione”.
E’ quanto spiega Costantino Esposito, ordinario di Storia della filosofia a Bari, nonché uno dei filosofi più ascoltati nella gerarchia cattolica (sua una relazione al Convegno ecclesiale di Verona dello scorso anno che scosse parecchie tranquille convinzioni dell’establishment cultural-ecclesiastico italiano). Mentre i libri di teologia fanno furore nelle librerie persino italiane, anche se “non c’è un editore che sappia rinunciare alla tentazione di pubblicare il suo libro contro Dio”, come ci spiega un attento conoscitore della materia, appare sempre più urgente andare al nocciolo della questione, rimettere Dio al centro del dibattito culturale. Rivedere i termini, insomma, della “Grande separazione”, come l’ha chiamata il filosofo americano Mark Lilla.

Le mosse di Benedetto XVI in questa direzione appaiono sempre più marcate; sono meticolose e precise, non solo in quello che dice ma anche negli atti di governo. Dopo la nomina di un “intellettuale” come monsignor Gianfranco Ravasi al Pontificio Consiglio per la cultura, è in arrivo un nuovo segretario anche per la strategica Congregazione per l’educazione cattolica, nella persona di monsignor Antonio Martinez Camino: strategica perché da essa dipenderanno gli indirizzi delle università ecclesiastiche e delle facoltà pontificie, dove si forma il nerbo del pensiero cattolico.

E’ pronto il pensiero laico contemporaneo ad accettare il livello di questa sfida “kantiana”? Il professor Gian Enrico Rusconi, autore lo scorso anno di un libro polemico, “Non abusare di Dio. Per un’etica laica”, è tornato di recente in argomento con un saggio per la rivista Reset, in cui, dopo aver preso atto che “il processo storico di secolarizzazione, che ha portato alla progressiva irrilevanza pubblica dei sentimenti religiosi, ha toccato i suoi limiti”, riprende il filo del cruciale dibattito sulla laicità tra “quei tre tedeschi”, ovvero il filosofo Jürgen Habermas, Joseph Ratzinger, per il tramite del costituzionalista cattolico Böckenförde.

Ripercorrendo la questione, a un certo punto Rusconi annota, lievemente polemico: “Il mondo cattolico ha dato molta pubblicità alle tesi habermasiane sulla legittimità dell’acceso dei credenti al ‘discorso pubblico’, senza prendere nota delle condizioni impegnative che il filosofo stesso ha elencato per questo accesso”. Insomma esistono paletti precisi, indica Rusconi sulla scorta di Habermas. Anzi addirittura “richieste non lievi” come ad esempio il “riconoscimento della autonomia e della autosufficienza del sapere secolare e del monopolio degli esperti scientifici nei loro ambiti di competenza”. Dunque la riproposizione aggiornata del paradigma di separazione tra ciò che pertiene alla ragione e il recinto entro cui è esercitabile il discorso di fede.
Nel suo “I senza Dio. Figure e momenti dell’ateismo”, il filosofo Remo Bodei ha ripercorso i nuclei fondanti della storia dell’ateismo inteso come avvio per la vera libertà umana, risposta alla indifferenza di Dio per il mondo e infine reazione al problema
del male. E si domandava, incalzando il profeta Geremia: “Davvero è maledetto l’uomo che non confida in Dio?”. L’attuale “condizione spirituale post-secolare” (Rusconi) appare però profondamente diversa.
Non solo per una certa pochezza teoretica e pamphlettistica dell’ateismo militante, ma anche perché il “nichilismo del pensiero contemporaneo non è più la tragica passione per una verità perduta com’è stato un tempo”, annota il professor Esposito, “ma è piuttosto un elemento fisiologico, endemico”. Così questo tempo senza dramma e senza ribellione è diventato paradossalmente “un’epoca satura di regole, di valori. Perché il problema non è la mancanza di valori, che anzi sono anche adatti per farne materia di ‘dibattito’, ma è che sono valori senza carne, perché la cultura laica di oggi teorizza l’impossibilità dell’esperienza della verità”.

Ornaghi, Esposito e De Monticelli
L’altra faccia del problema è dunque se la cultura cattolica contemporanea ha il coraggio necessario per buttarsi nel cuore d una mischia alle radici del pensiero, ora che la sfida “ateologica” si fa più pressante, accompagnata dal totalitarismo scientista.
Le linee portanti di questa sfida le aveva delineate, l’11 maggio scorso, il cardinale Camillo Ruini in un suo magistrale discorso tenuto a un pubblico squisitamente laico, quello della Fiera del Libro di Torino.
Per meglio “discernere il tempo che stiamo vivendo”, Ruini citava un libro del 1972 in cui “l’allora professore” (ora cardinale) Walter Kasper, “parlava del nostro tempo come di ‘un secondo illuminismo’, cioè di uno ‘svelamento dell’illuminismo a se stesso’, cioè di una ‘metacritica’ della critica illuministica che si esercita riguardo ad entrambe le grandi rivendicazioni dell’illuminismo, la ragione e la libertà”. Ancora una volta dunque, e in anticipo di qualche decennio, il tema della ragione illuminista che Benedetto XVI ha messo in gioco a Ratisbona, incrociandolo con il tema del Logos del pensiero greco-cristiano.
Dal bivio della cultura laica contemporanea di fronte a quello stallo della ragione illuminista, proseguiva Ruini nel suo intervento (disponibile in integrale sul sito di Sandro Magister), è derivata anche la necessità per la teologia cattolica di riproporsi al centro di un dibattito che riguarda “le aspirazioni che l’uomo continua a portare dentro di sé… una risposta alle domande sul senso della propria vita e sull’origine della realtà”. E ancora, “l’emergere della nuova ‘questione antropologica’ e delle
connesse problematiche”, cui nel quindicennio ruiniano la chiesa ha tentato di rispondere con il suo “progetto culturale orientato in senso cristiano”.
Se in pochi scommettono ancora oggi sul futuro dell’ateismo come sistema dogmatico, la cultura cattolica – avverte Costantino Esposito – uscendo nel mare aperto del dibattito pubblico deve evitare alcune trappole.
O meglio, due “sponde insufficienti” a contenere la forza della corrente ratzingeriana: “Da un lato, l’idea che cultura cattolica sia innanzitutto un archivio da conservare, al limite da dissepellire e tirare a lucido. Ma, comunque sia, sempre un glorioso passato”. L’altra sponda insufficiente è la strategia di accettare di essere ciò che la cultura laicista e nichilista chiederebbe al cristianesimo di essere: un serbatoio di utopia, un sistema di valori che permetta ancora di “sognare” mondi migliori. C’è un pensiero laico che oggi “accetta il cristianesimo ma solo come una grande narrazione, per il suo aspetto di simbolo, la sua capacità di sintetizzare immagini universali.
O per il suo surplus spirituale. Ma in fondo è un modo che de presentifica il cristianesimo, lo lascia sempre a lato”.

Mentre invece “la porta che il Papa chiede di aprire alla cultura laica è quella della ragione e dell’io. Cioè della conoscenza”.

Tema che affascina Roberta De Monticelli, docente di Filosofia della persona alla università Vita-Salute del San Raffaele: come dire un’istituzione culturale strategica, nel suo essere sul confine del rapporto tra pensiero religioso e cultura laica. De Monticelli parte proprio da Gianfranco Ravasi, cita la lezione tenuta al Festival della filosofia di Modena: “Commentava l’Ecclesiaste, mostrando come si possa sentire anche la polvere in cui si disfano i palazzi e le umane imprese come un’estrema epifania di Dio”. Spiega: “In fondo è tutta qui, e certamente non negli articoli di una dottrina della fede, la differenza fra l’uomo non indifferente al divino, e quello che lo è. Ravasi ha citato uno dei ‘Canti ultimi’ di padre Turoldo: ‘Fratello ateo, nobilmente pensoso/ alla ricerca di un Dio che io non so darti,/ attraversiamo insieme il deserto…/ oltre la foresta delle fedi….”. Così parla un uomo di fede profonda, un poeta. Eppure proprio così potrebbe parlare anche la filosofia oggi. Così io interpreto la ricerca di filosofia – o di ragione e di senso. A noi che aveva chiamati ad animare questa università, don Verzé disse: ‘Non ho bisogno di credenti, ma di pensanti’”.

Ci sono però sensibilità diverse nell’approccio al gran tema ratzingeriano, e De Monticelli opta per la prudenza: “Non nominare il nome di Dio invano mi sembra, fra i comandamenti, proprio quello diretto più specificamente all’intellettuale: in particolare al filosofo, e ancora più severamente al politico”.

Conclude: “Io temo le sfide, che mi ricordano le spade piuttosto che la luce. Ma ben venga la sfida dell’attuale Pontefice a rimettere il Logos al centro della riflessione sull’uomo”.

Così, mentre c’è anche chi critica che oggi la vera dimensione religiosa trascurata sia la dimensione dell’interiorità, dello spirituale, c’è anche chi come il professor Lorenzo Ornaghi, rettore dell’università Cattolica, la maggior agenzia culturale della chiesa italiana, ha una visione chiara della reale posta in gioco: “Ci siamo tirati dietro per troppo tempo un dubbio”, spiega, se nel mondo contemporaneo la cultura cattolica dovesse solo ‘sopravvivere’, conservarsi, insomma restare in un atteggiamento passivo.
O dovesse anche ‘dare’, offrire qualcosa alla società. Con Papa Ratzinger questo dubbio si è sciolto: si è capito che si deve ‘dare’, cioè iniziare un dialogo aperto e forte
.


E soprattutto, che questo dialogo deve andare alla sostanza delle cose, al ‘canone’, ai temi classici del pensiero. A ciò di cui la cultura di oggi ha bisogno”. E’ anche questo il senso, aggiunge Ornaghi, del “progetto culturale” ruiniano, che ora deve trovare slancio proprio su questi “fondamentali”. “L’ateismo che mi preoccupa di più è quello camuffato, lo chiamerei
una sorta di conformismo
. A questa cultura bisogna rispondere, con un livello intellettuale alto. Ma ben venga anche il confronto con la cultura di massa: una cosa che Ravasi sa fare molto bene”. (1. continua)

© Copyright Il Foglio, 12 ottobre 2007

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