8 ottobre 2007

Mons. Ravasi: lascio una Milano che inizia ad abbandonare il suo passato e la sua identità


Vedi anche:

Il pittore Pisani omaggia il Papa dipingendo ai suoi piedi un gatto :-)

Il giurista Böckenförde: conoscere il Cristianesimo per superare l'ignoranza sulle altre religioni e per conservare la nostra cultura

Il Papa a Napoli: programma provvisorio (da Korazym)

Rosso Malpelo: evidentemente Ezio Mauro dà per scontato che i Cattolici non reagiscano mai!

Il Rosario è un mezzo donato dalla Vergine per contemplare Gesù e, meditandone la vita, amarlo e seguirlo sempre più fedelmente

I politici sedicenti cattolici abbiano più rispetto per il Papa!

Cromosoma artificiale: la parola al Card. Tonini ed a Mons. Sgreccia

Frankenstein in azione: creato un cromosoma artificiale

La missione di Mons. Ravasi e il Pontificato "rivoluzionario" di Benedetto XVI

Don Paolo Pezzi, nuovo arcivescovo di Mosca

Il discorso del Papa sulla legge morale naturale: lo speciale di Avvenire

Card. Ratzinger: uno Stato ha le proprie radici culturali e religiose che rimangono per esso in un certo modo costitutive...

Chiesa e pedofilia: il Papa pretende massimo rigore nella scelta dei candidati al sacerdozio

SPECIALE: IL MOTU PROPRIO "SUMMORUM PONTIFICUM"

CONSIGLIO DI LETTURA: IL SITO DI FRANCESCO

Gianfranco Ravasi addio milano ex bella

L’INTERVISTA

Gianfranco Ravasi addio milano ex bella

MAURO ANSELMO - FOTO DI MAKI GALIMBERTI

Intervista Il sacerdote più letto e stimato dai laici lascia, dopo 18 anni, la presidenza della Biblioteca Ambrosiana. E parla della sua città. Per elogiarne la generosità, ma per bocciarne la pigrizia. E il mondo della moda.

Nello studio di Gianfranco Ravasi non c’è aria di trasloco. Tutto è in ordine, i libri sono al loro posto, l’atmosfera resta quella di un rigore intellettuale pacato che, come i tesori custoditi in questi locali della Biblioteca Ambrosiana, non si cura dei capricci del destino e delle alterne vicende degli uomini. Dopo 18 anni vissuti come prefetto della massima istituzione culturale della Chiesa milanese, circondato da codici e pergamene rarissime, capolavori della pittura e opere inestimabili come il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci, monsignor Ravasi lascia Milano.
Papa Benedetto XVI lo ha nominato presidente del Pontificio consiglio della cultura, delicatissimo incarico sul fronte della sfida fra Cattolicesimo e mondo contemporaneo. E il 29 settembre Ravasi sarà anche consacrato dal Papa arcivescovo dell’arcidiocesi africana di Villamagna di Proconsolare, antico centro romano vicino a Cartagine, nell’antica Africa cristiana.
Monsignore è in partenza per Roma. Lascia la Milano intellettuale nella quale è maturata la sua attività di biblista di fama internazionale le cui opere occupano interi scaffali delle librerie laiche e cattoliche. Si allontana dalla metropoli dei fermenti culturali nei quali si è formato il suo profilo di seguitissimo collaboratore di quotidiani e riviste (Sole 24 Ore, Avvenire, Famiglia cristiana, Jesus), di docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, di conduttore televisivo (Le frontiere dello spirito su Canale 5), di brillante saggista, autore del recente Le porte del peccato. I sette vizi capitali (Mondadori).
Lascia la Milano delle amicizie e dei sodalizi culturali, le frequentazioni intellettuali, gli Amici del venerdì, il gruppo che si riunisce una volta al mese e del quale fanno parte i bei nomi della Milano che conta. Lascia gli appuntamenti musicali, le conferenze, gli ammiratori che esibiscono come un vanto la partecipazione alla messa «perché c’è Ravasi che fa l’omelia».
Come sarà l’addio di monsignore? Sentimentale e forse velato dal rimpianto? Difficile dirlo. Da umanista di lungo corso che ha meditato la filosofia antica, Ravasi sa che le sterzate della sorte sono imprevedibili e che, come scrive Seneca, il filosofo spesso citato nei suoi libri, «nessun bene giova a chi ce l’ha, se l’animo di chi lo possiede non è rassegnato a perderlo».
Anche la partenza è un evento culturale. E a discuterne con monsignore si finisce per imbattersi in qualche sorpresa.

Che cosa lascia a malincuore a Milano?

Lascio due realtà diverse. Da una parte, un tessuto fittissimo di conoscenze e amicizie che ho avuto modo di ricostruire in questi giorni, leggendo gli 8 mila messaggi fra lettere, email e telegrammi che mi sono arrivati. Pensi, 5 mila sono stati spediti dai milanesi. A dimostrare quale sia stato il legame di dialogo con questa città. La seconda cosa che lascio a malincuore è invece più curiosa e ha a che fare con le mie passeggiate. Ho sempre avuto il piacere di andare in giro per Milano, lungo un itinerario che, con gli anni, ho quasi codificato: il Duomo, quindi il percorso che conduce ai Giardini, dove qualche volta incrociavo l’amico Indro Montanelli, poi il Castello, il Parco e infine il rientro attraverso le viuzze che conducono all’Ambrosiana.

Un percorso dello spirito?

In un certo senso sì. Un itinerario che mi era molto caro. In quell’intrecciarsi di architetture storiche, di colori, di incontri con le persone trovavo il momento ideale della giornata nel quale, in un perfetto stato di astrazione mentale, riuscivo a pensare alle recensioni, agli articoli, a elaborare nuove riflessioni.

Che cosa lascia, invece, volentieri a Milano?

La sensazione di abbandono che la città comincia ad avere del suo passato e della sua identità. Ma lascio volentieri anche il brutto e le brutture. La Milano inquinata, sporca, a tratti sfregiata non tanto dagli esterni quanto dagli stessi cittadini. La Milano grigia delle periferie trascurate, della maleducazione aggressiva esibita come un vanto.

Alda Merini nella poesia «Milano» scrive: Milano è diventata una belva/ non è più la nostra città/ adesso è una grassa signora/ piena di inutili orpelli.

Con Merini sono amico. Quando la ascolto al telefono mi rendo conto di come sia diventata una poetessa orale: basterebbe scrivere le cose che dice per comporre una raccolta di poesie. Alda sente che Milano l’ha tradita: negli schiamazzi brutali di Porta Ticinese, nell’aggressione commerciale che ha cambiato i Navigli, nell’esibizione di una stupidità sempre più volgare e inarrestabile. Devo dire che quest’ultimo aspetto lo noto anch’io. Anzi, mi fa venire in mente un ricordo: la visita alla casa di uno scrittore purtroppo dimenticato, Riccardo Bacchelli, in via Borgonuovo. Ero stato con lui l’intero pomeriggio per la registrazione di un programma televisivo sulla figura di Giobbe. E, quando mi accompagnò alla porta, mi disse una frase che non ho più dimenticato: reverendo, ricordi una cosa, gli stupidi impressionano, non fosse altro che per il numero.

Sono così tanti gli stupidi?

«La stupidità» diceva Ernest Renan «è l’unica cosa al mondo che possa dare l’idea di eternità».

Lei ha scritto un libro intitolato «Ritorno alle virtù». Quali attribuirebbe a Milano?

I vecchi milanesi coltivavano la temperanza: erano risparmiatori, attenti a conservare e a non sciupare.

E i milanesi di oggi?

Mi auguro che conservino la carità. Milano è ancora una città generosa: lo so per esperienza personale grazie alle persone, anche importanti, che mi hanno dato una mano a risolvere situazioni difficili. E poi basterebbe ricordare l’attività della Caritas, il volontariato, l’eccellente lavoro che svolge l’Accademia della carità di don Virginio Colmegna per dimostrare quanto sia forte ed estesa la trama della solidarietà.

Fra i sette vizi capitali, quale assegnerebbe a Milano?

La mia risposta le sembrerà paradossale: la pigrizia. Milano, tradizionalmente, è tutto fuorché una città pigra. Ma la pigrizia di cui parlo io è qualcosa di diverso dall’immagine consueta che ci fa pensare all’indolenza di un Oblomov, il protagonista dell’omonimo romanzo dello scrittore russo Ivan Aleksandrovic Goncˇarov, o all’abulia del protagonista della Coscienza di Zeno di Italo Svevo. La pigrizia che vedo a Milano (e non solo a Milano, purtroppo) è qualcosa di peggio: una specie di malattia dello spirito, un’epidemia di svogliatezza psicologica e mentale diffusa soprattutto fra i giovani, che finisce per manifestarsi essenzialmente come esibizione del vuoto.

Un esempio?

Le tribù del sabato pomeriggio in piazza Duomo. Giovani tutti uguali che si muovono in branco, si trascinano stancamente e spesso sguaiatamente, percorrono più volte avanti e indietro la stessa strada, senza essere sfiorati dall’idea che il Duomo o Palazzo Reale possano meritare almeno una visita.

Che cosa farà con gli Amici del venerdì?

A ottobre darò le dimissioni. E lo dico con molto dispiacere, perché quel gruppo resta per me un’esperienza indimenticabile sia sul piano umano che nell’acquisizione di nuove conoscenze. Fra i 30 aderenti ho trovato amici veri. Alcuni dei quali sono stati tanto lontani da me nella loro visione del mondo, quanto vicini nell’affetto. Le parlo di Umberto Veronesi, Sergio Romano, Ferruccio de Bortoli, Cesare Romiti. Ho imparato molto di più durante il pranzo che si svolgeva nei nostri incontri che non in ore di pedanti conferenze. Penso a quanto mi hanno insegnato il maestro Riccardo Chailly sulla musica, il professor Francesco Rocco sulla medicina o il numero due di Microsoft, Umberto Paolucci, sulle potenzialità del virtuale. Ricorderò tutti gli Amici del venerdì con grande nostalgia.

Milano capitale, ma di che cosa: della cultura, della moda o dell’effimero?

Se devo essere sincero, mi pare che Milano sia più capitale dell’effimero e della moda che della cultura. Ricordo che una delle mie letture da studente era un saggio intitolato Symbolique du vêtement, simbologia del vestito. L’abito è la persona, l’espressione di una civiltà. Anch’io, diventando arcivescovo, indosserò le vesti da cerimonia, preziose per il loro significato simbolico: tant’è vero che nella nostra lingua si usa la parola investitura per indicare l’ingresso ufficiale in una carica. «La moda è l’autoritratto di una società» dice Ennio Flaiano in Diario notturno. Ma che moda è quella di oggi? Un tempo il gusto dei ricchi si imponeva con la discrezione. Oggi tutto è sopra le righe, esteticamente discutibile e proiettato in una dimensione che sta al confine fra insulsaggine e vuoto. Ho letto che lo studioso Gilles Lipovetsky, autore una ventina di anni fa di un libro sulla moda intitolato L’impero dell’effimero, ha usato durante un seminario la definizione di «pornochic» per indicare il lusso di oggi. Mi sembra una definizione azzeccata. Essere oggi una capitale della moda, di questa moda, non mi sembra un gran risultato.

Che cosa manca a Milano per essere una capitale della cultura?

Mancano i colpi d’ala del passato. La vita culturale è vivace e ricca di proposte, i sistemi universitari, Politecnico, Università Cattolica, Statale, sono di buona qualità. Ma la grande tradizione non sembra ancora avere trovato eredi adeguati al compito. Ricordo i tempi in cui Mondadori e Rizzoli facevano passare davanti al Duomo i grandi nomi della letteratura internazionale: venivano gli inglesi, i tedeschi, i francesi, non mancava un solo nome della cultura nordamericana. Era un’altra vitalità, un altro clima. Ora vedo una città che vive di rendita. Ieri lo spessore, oggi il torpore: mi sembra che Milano riposi placidamente su un’amaca, mossa in modo poco percettibile dalla lieve brezza che deriva dalla sua tradizione.

E la Scala?

Resta la presenza fondamentale, il punto di forza. Anche se non ha ancora ridefinito la propria identità dopo l’era di Riccardo Muti.

Monsignore, Verdi o Puccini?

E se le rispondessi Rossini? Sfrenato, gioioso, abbagliante. In realtà la mia passione è la musica barocca, Bach, Vivaldi, Händel, Mozart, Haydn. E tuttavia mi ritengo un curioso: pur ascoltando i Concerti brandeburghesi, cerco di capire anche Bob Dylan.

Bob Dylan e non Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, i cantautori milanesi?

Per Gaber ho un grande rimpianto: la moglie Ombretta Colli mi aveva invitato a incontrarlo prima della scomparsa ma è mancato il tempo. Gaber mi interessava. Quella Ballata del Cerutti, uno dei suoi primi testi, dove Gino fa rima con Giambellino, è un gioiello di atmosfere e di racconto dove si incontra la Milano degli anni Sessanta. Ho conosciuto Roberto Vecchioni, uomo di grande cultura e finezza, mentre di Jannacci ricordo una canzone da balera, Per un basin, per un bacio, in dialetto milanese, allegra, accompagnata dalla fisarmonica, un altro gioiellino.

Jannacci ha anche cantato spesso la celebre «Ma mi».

E come no, con testo di Giorgio Strehler: «Serum in quatter col Padula / el Rodolfo el Gaina e poeu mi/ ...». Mi piace molto anche la versione di Ornella Vanoni. Devo confessare tuttavia che fra i cantautori trovo molto suggestivo Fabrizio De André: Il testamento di Tito e La buona novella sono opere di poesia.

De André è anche un autore scomodo: nel suo «Girotondo», allo scoppiare della guerra, dice: «Buon Dio è già scappato, dove non si sa/ Buon Dio se n’è andato, chissà quando ritornerà».

Canta il silenzio di Dio, un tema profondo che ha tormentato pensatori come Pascal, scrittori come Dostoevskij, registi come Ingmar Bergman.

Monsignore, l’hanno nominata arcivescovo della diocesi africana di Villamagna...

Oggi è un modesto centro archeologico che si trova alla periferia di Cartagine e che prima o poi andrò a visitare. Devo dire che, contrariamente alla tradizione per cui, nella Chiesa, i titoli vengono assegnati e non c’è possibilità di scelta, in questo caso mi è stata data questa possibilità. E io ho scelto Villamagna per una ragione simbolica: Cartagine mi rimanda idealmente all’orizzonte agostiniano. Sant’Agostino è stato uno dei grandi amori della mia giovinezza e rappresenta per me qualcosa di significativo. È l’uomo del confronto culturale, l’intellettuale che ha incrociato il Cristianesimo con la possente architettura del pensiero greco.

È vero che è stato Massimo Cacciari a suggerirle il motto episcopale, la parola d’ordine per il suo nuovo incarico?

È stato proprio lui a suggerirmelo, scherzando, durante una tavola rotonda: se mai diventerai vescovo, mi disse, ricordati San Paolo: «Praedica Verbum», un versetto tratto dalla Lettera a Timoteo: annuncia la parola.

Perché proprio questo motto?

Credo che Cacciari sia convinto che vivendo tutti noi in un mondo in cui la parola è ormai diventata chiacchiera vuota, vaniloquio inutile, sia necessario tornare alle parole vere. E in primo luogo alla Parola con la maiuscola, alla Bibbia, che nonostante tutto resta sempre il grande codice. È inutile sbeffeggiarlo o irriderlo come oggi tentano di fare certi libercoli...

Si riferisce al matematico Piergiorgio Odifreddi o al filosofo francese Michel Onfray?

Il riferimento lo lascio a lei. A volte nel leggere certe pubblicazioni si ha l’impressione di tornare all’abc spiegato ai bambini. Accedere al testo biblico senza avere in dotazione una robusta attrezzatura storica, letteraria, linguistica e teologica significa non andare oltre l’interpretazione letterale. E questo non ha senso. È inutile ironizzare sul linguaggio biblico quando si sa che il testo va decifrato, studiato, scavato in profondità. In superficie, insegna la tradizione rabbinica, trovi pietre. Ma è dentro le pietre che scopri il fuoco.

Monsignore, lei andrà a presiedere il Pontificio consiglio per la cultura. E fra gli interlocutori avrà, come avversari, gli ultrà del neoilluminismo che combattono e irridono la fede cristiana. E come compagni di strada i teocon, armati di scudo e di spada come i vecchi crociati pronti a fare a fettine i nemici. Che cosa farà?

Terrò conto dell’insegnamento di un grande pensatore di origine ebraica che scriveva in greco, Filone di Alessandria. «Il sapiente» diceva «è colui che sta sulla frontiera: con i piedi al di qua, sul suo territorio, e con lo sguardo rivolto dall’altra parte». È un richiamo a essere fedeli alla propria identità, ma nello stesso tempo un invito al confronto con le idee e con gli uomini che stanno oltre il confine.

Che cosa porterà a Roma?

Tanti libri, naturalmente. E una speranza: la possibilità di tornare a Milano per ritrovarmi ancora come a casa mia. Nel primo canto dell’Odissea, Ulisse sogna di tornare per vedere il fumo che esce dai comignoli delle case nella sua isola, al tramonto. Milano è la mia Itaca.

© Copyright Panorama n. 40/2007

Nessun commento: