7 ottobre 2007
La missione di Mons. Ravasi e il Pontificato "rivoluzionario" di Benedetto XVI
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Ecco perché a Ravasi il Papa chiederà molto più di un “Consiglio”: uno strumento per la sua sfida ai rottweiler dell’ateismo
di Maurizio Crippa
Arriverà il 15 ottobre, nella nuova sede del Pontificio Consiglio della Cultura appena inaugurata all’inizio di via della Conciliazione, nel traffico di Roma che si infila nel cuore pulsante del Vaticano, infinitamente lontano dai ritmi sonnacchiosi della vecchia sede di piazza di San Calisto.
La sfida è grande, anche se in fondo si riconduce sempre a una frase che ama, quella della Lettera di San Pietro che sintetizza per la prima volta, e una volta per tutte, il senso della parola “cultura” per i cristiani: “Sappiate rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi, con dolcezza, rispetto, retta coscienza” (I Pt., 3, 15-
16). Ma la sfida resta grande lo stesso, di fronte al ritorno in armi dell’ateismo fideista e ideologizzato – sia nelle versioni pop dei Ken Follett sia in quelle sublimi e speculative del neoscientismo – che si propone come alternativa secca a ogni “dialogo di verità”, come invece piace a Benedetto XVI. Cosa può succedere, adesso che un dotto biblista come Gianfranco Ravasi, un intellettuale enciclopedico dalla memoria prodigiosa, un conferenziere smagato con i mezzi della grande comunicazione, un organizzatore culturale che ha retto per anni, tirandola a lucido, la Biblioteca Ambrosiana di Milano, è stato scelto da Benedetto XVI per guidare quello che era un dicastero vaticano di seconda linea, e che potrebbe trasformarsi nel potente “ministero della Cultura” della Santa Sede?
Bisogna partire da un po’ più lontano. Da Parigi. Più precisamente dal discorso all’Unesco che Giovanni Paolo II tenne nel 1980, un intervento che ha segnato una svolta profonda nel rapporto tra la chiesa e il “fratello ateo, nobilmente pensoso”, per dirla con un verso di David Maria Turoldo assai caro al nuovo vescovo monsignor Ravasi. In quel discorso, Giovanni Paolo II affermò che “l’uomo vive di una vita veramente umana grazie alla cultura”. Disse che se la chiesa aveva un posto di diritto in un’organizzazione umana come quella, non è per caso, o pro-forma, ma in ragione del “legame organico e costitutivo che esiste fra la religione in generale e il cristianesimo in particolare da una parte, e la cultura dall’altra”.
Senza mediazioni, senza timori reverenziali, Wojtyla indicava la cultura come il terreno “intrinseco”, il livello dell’umana ricerca che necessariamente non può escludere Dio. Non che l’idea fosse inedita, ma l’aggiustamento era anche storicamente importante.
Il Papa polacco raccoglieva l’eredità di Paolo VI e del Concilio. Dall’ecclesiologia a cerchi concentrici del Vaticano II erano nati nei decenni precendenti tre decisivi segretariati: quello per icristiani separati, quello per i non cristiani, quello per i non credenti. In stretta relazione a questo, Paolo VI nell’intento di dare un ordine al rapporto tra chiesa e mondo, nella bufera ecclesiale di quegli anni, aveva cercato di potenziare proprio attraverso la cultura un dialogo con “il mondo” in cui l’apertura non fosse semplicemente un “rompete le righe”.
Giovanni Paolo II aveva creato, nel 1982, il Pontificio Consiglio per la Cultura. E fu più tardi una sua intuizione, con il Motu proprio Inde a Pontificatus del 1993, quella di fondere il Pontificio Consiglio per la Cultura con il Pontificio Consiglio per il Dialogo con i non credenti, che Montini aveva fondato nel 1965, e di formare un unico organismo, l’attuale Pontificio Consiglio della Cultura.
La cultura diventava dunque il terreno privilegiato del dialogo con chi non crede, con il “nobile fratello ateo”.
Fin qui l’intuizione, che consentì al Papa polacco quelle sue giocate d’anticipo sulla storia, quelle sue grandi aperture sulla scienza o la storia che contribuirono a spezzare il cerchio allora soffocante dell’ideologia atea (marxismo e non solo) e di rimettere
nello scorcio del secolo il tema di Dio al centro del dibattito culturale.
Dire che gli esiti pratici dell’intuizione non sono stati sempre corrispondenti alle attese non è mancare di rispetto a Paul Poupard, il cardinale francese che Wojtyla chiamò a dirigere un organismo che, nel tempo, è passato un po’ al rango di un ministero
senza portafoglio. Formalmente, il Pontificio Consiglio della Cultura ha l’incarico di coadiuvare “il Sommo Pontefice nell’esercizio del Suo supremo Ufficio pastorale per il bene e il servizio della chiesa universale e delle chiese particolari, in ciò che concerne l'incontro tra il messaggio salvifico del Vangelo e le culture, lo studio dei gravi fenomeni di frattura fra Vangelo e culture, di indifferenza religiosa e di non credenza; le relazioni della chiesa e della Santa Sede con il mondo della cultura”. Nonche di promuovere “il dialogo con le varie culture del nostro tempo, affinché la civiltà dell’uomo si apra sempre di più al Vangelo, e i cultori delle scienze, delle lettere e delle arti si sentano riconosciuti dalla chiesa come persone al servizio del vero, del buono e del bello”. Ma c’erano muri ancora da sfondare, c’era un concetto di dialogo che ancora andava precisato.
Oggi la situazione storica registra nuove prospettive. Al grande Papa comunicatore è succeduto un Papa di grande linearità e dottrina, che ama prendere in mano in prima persona, con disponibilità e rigore, il confronto sui grandi “a priori” culturali, con mosse persino provocatorie nella scelta dei suoi interlocutori intellettuali, si chiamino Habermas, si chiamino addirittura Flores D’Arcais. Un Papa che per formazione e temperamento fa del confronto sul piano della ragione il terreno di un possibile dialogo con chiunque. Anche nel rapporto con le altre religioni, è noto come abbia indicato che il terreno sia più la cultura che non la teologia: dove c’è invece poco da mediare o scambiare, e molti rischi invece di un travisante “dialogo delle verità”, come ce ne fossero più d’una.
Al grande solco tracciato venticinque anni prima all’Unesco dal suo predecessore, Benedetto XVI ha aggiunto due altre linee, in due direzioni precise.
Una è quella del discorso di Ratisbona, nel suo delineare un modo di intendere il rapporto tra la ragione e la fede, laicamente, senza paura, fino all’invito a prendere sul serio l’illuminismo: un’apertura paragonabile a quella che il primo cristianesimo ebbe per la cultura ellenistica, nel nome di un Logos comune a tutti. Poi, quasi come un’esemplificazione, anzi forse una personale testimonianza, il Papa ha affrontato il dialogo con Jürgen Habermas, filosofo laico.
In agenda: dal relativismo e dal suo esito nichilista fino allo scientismo che si pretende unica misura del mondo e del conoscere.
Fede, ragione e libertà sono i punti su cui ruota la battaglia culturale di Ratzinger al mondo contemporaneo.
Quale compiti svolge il ministero della Cultura del Papa? Il profilo ufficiale del Consiglio ne elenca ben dodici, dal “promuovere l’incontro tra il messaggio salvifico del Vangelo e le culture del nostro tempo” al “dialogare con le conferenze episcopali”, i terminali locali della chiesa universale, dallo “stabilire il dialogo con coloro che non credono in Dio” ad “accogliere a Roma i rappresentanti della cultura”. Sottotraccia, il suo compito è di essere docile interprete del pensiero della chiesa e del Papa.
Nei corridoi vaticani si mormora che non c’era molta soddisfazione per come il Consiglio ha operato fino ad oggi. Forse anche
a causa di una struttura esigua: con il presidente Poupard hanno lavorato una quindicina di persone, dal domenicano francese e segretario Bernard Ardura (che potrebbe lasciare con Poupard), ai tecnici compresi.
Non molto davvero. Si sa che Ratzinger, come succede spesso, ha deciso da solo la nomina di monsignor Ravasi, confermando in ciò alcune delle sue predilezioni.
La prima, quella di fidarsi solo di professori: un altro, Giovanni Maria Vian, l’ha appena scelto per guidare l’Osservatore Romano.
E uno studioso e canonista è anche monsignor Guido Marini, il nuovo cerimoniere.
Ma molti indizi lasciano intendere che cercasse anche una personalità dinamica, estranea a ritmi e meccanismi della curia, di lucido impianto mentale e dottrinale, che avesse in portafoglio pure una buona conoscenza del mondo dei media. Di certo, alcuni giudizi vagamente irridenti che hanno accompagnato
la nomina di Ravasi, come quello di essere “una replica del cardinal Tonini”, un forte conversatore televisivo insomma, e poco più, oltre a essere dettati da (comprensibile) invidia curiale, hanno forse costituito agli occhi del Papa altrettanti motivi di validità.
Il cardinale Giacomo Biffi era solito raccontare un aneddoto istruttivo dei suoi anni di apprendistato. Quando il cardinale di Milano Giovanni Colombo decise di incaricarlo come Vicario per la Cultura, lui cercò di opporre un rifiuto giustificandosi: “Ma io non so che cosa è la cultura”. Colombo però smontò l’obiezione: “Non preoccuparti, non lo sanno nemmeno loro”. L’aneddoto ambrosiano ha una sua illuminante pertinenza.
Da un lato, inquadra il problema centrale e drammatico che la chiesa cattolica ha avuto, soprattutto negli scorsi decenni, a individuare il contenuto di una propria cultura, e di sapersi fare cultura senza disperdere la sua ricchissima tradizione. Dall’altro,
consente di mettere a fuoco un aspetto importante del profilo del nuovo presidente del Pontificio Consiglio. Ravasi vanta qualche somiglianza con Ratzinger, come quella di essere raffinato intellettuale. Ma è anche un bibliofilo che trasporterà a Roma qualche migliaio dei suoi volumi, mentre gli altri quindicimila o più rimarranno a Milano o depositati nella casa dei genitori, in
Brianza. Lombardo di Merate, nato nel 1942, seminarista solo dopo il ginnasio – anche se ad Andrea Tornielli del Giornale ha raccontato di essere stato colpito dal problema della Trascendenza a soli quattro anni, sentendo in lontananza il fischio di un treno – è dotato di straordinaria memoria, dorme poche ore per notte e scrive i suoi dotti testi a mano, con una calligrafia ordinata che di solito non richiede successive correzioni.
Ottimo biblista, anche se suscita una certa invidia nei colleghi accademici, che storcono il naso davanti al suo talento di divulgatore, Ravasi è innanzitutto un sacerdote
ambrosiano, che però non è mai stato parte dell’entourage martiniano e ha viceversa estimatori tra teologi esigenti come Inos
Biffi per il suo solido profilo dottrinale, che non dev’essere mai dispiaciuto nemmeno a Ratzinger. Per dieci anni, a partire dal 1985, è stato membro della Commissione teologica internazionale e ha lavorato col prefetto della Dottrina della fede, che nel 2002, a Milano, volle proprio Ravasi a presentare un suo importante libro sulla liturgia. E’ stato prefetto della Biblioteca Ambrosiana – da cui Benedetto XVI ha chiamato anche Cesare Pasini come nuovo prefetto della Biblioteca Vaticana, l’altra grande istituzione culturale della cristianità – la stessa che ha dato alla chiesa anche un Papa umanista come Achille Ratti. C’è indubbiamente un’idea della cultura anche come patrimonio di tradizione, di bellezza da valorizzare, nella sua chiamata a Roma. All’Ambrosiana ha svolto un lavoro eccellente anche sotto il profilo organizzativo, mescolando capacità di manager a un’intensa, per certi versi sbalorditiva, attività pubblicistica e di conferenziere. Non un conservatore, anzi una personalità con fama di apertura e attitudine al dialogo ampiamente riconosciutamnel mondo laico.
Ravasi è senza dubbio uno che comunica, aggiornato e con un tocco soavemente mondano; ma nemmeno disdegna la bacchettatura garbata e la polemica. Ma lo fa “apprezzando” i Dan Brown, i Follett, e sapendosi muovere, raro per un sacerdote, negli arcana della pop culture. E’ anche uno che dice: “E’ ovvio che l’evoluzionismo esiste, non si possono ignorare i risultati della scienza”. Ma parla pure dei limiti ottocenteschi della scienza attuale, e usa circonvoluzioni come “ambiti molto più complessi, mutevoli e multiformi”, che mandano in visibilio l’interlocutore laico.
Secondo molti, comunque, è l’uomo che può essere adatto in questo momento difficile ma “propizio” del rapporto tra la chiesa e il mondo. Oggi che è soprattutto il mondo laico a mancare di maestri (il rottweiler Dawkins? l’ateista Odifreddi?).
Ravasi è fra quelli che avvertono l’urgenza di non tacere di fronte a questa temperie ateista. Anche se non è uno che picchia duro: “Purtroppo oggi ci troviamo di fronte a una certa cultura laica che analizza il fenomeno cristiano con la categoria dello sberleffo”, ha detto in una recente intervista.
“Non ci si confronta più, viviamo in una specie di deserto.
Il cristianesimo ha sempre bisogno di essere inculturato, di essere espressivo, di comunicarsi. E anche di confrontarsi con la cultura contemporanea, senza timori o subalternità. Il pensiero cristiano è straordinario: basta citare il concetto di persona e di libertà e paragonarlo al concetto di uomo di altre culture e religioni per rendersene conto”.
Cosa farà Ravasi? Sono in molti a scommettere che, dopo un periodo di assestamento non brevissimo, ma normale per i ritmi dei Sacri Palazzi, metterà mano alla macchina ministeriale, dandole nuovo impulso.
Si è sbilanciato pure a parlare di Internet e di blog. Il Papa questo gli chiede, e non è casuale che lo stesso ribaltone stia investendo, negli stessi giorni, anche un organo come l’Osservatore Romano. Serve anche gioco di squadra.
Poupard, non proprio un carattere facile, ha sempre avuto un pessimo rapporto con l’Osservatore, dove del resto ha regnato per vent’anni un’altra personalità spigolosa come Mario Agnes. Si dice che con Vian abbiano avuto solo un breve incontro, a margine della ordinazione vescovile di Ravasi. Ma si sono piaciuti. “Cosa vuol dire fare cultura al servizio della chiesa?”, gli ha chiesto il vaticanista Aldo Maria Valli. Risposta: “Da un lato riscoprire la molteplicità che sta al di fuori della chiesa cercando di stabilire un contatto, un dialogo, una comunicazione; dall’altro riuscire a essere anche profondamentemente capaci di trasmettere ciò che la visione cristiana, questo grande sistema di cultura e di pensiero che ha attraversato venti secoli, può dire ancora all’uomo di oggi”. Per il resto, dopo una sorta di intervento programmatico sul Sole 24 Ore (ancora la scorsa domenica era presente un suo articolo), non sa e non dice. Ci si può sbilanciare a prevedere che potrà dare qualche scossone salutare.
Parlerà molto, è un chiacchierino che conosce i media e non li teme, che ama Ermanno Olmi e Alda Merini.
La vera domanda è quanto saprà incarnare il pensiero di Papa Benedetto.
Di certo, l’importanza del ruolo affidatogli è volutamente maggiore di quella del predecessore. Al compito del Consiglio della
Cultura, Ravasi assommerà le competenze per l’archeologia sacra e per i Beni culturali.
Insomma si delineano, per la prima volta, le competenze di un vero “ministero” della Cultura, dotato di autonomia, visibilità, ruolo, operatività. Questa è una parte cruciale di ciò che Ratzinger intende ottenere all’interno della chiesa. E in questo, il problema di un buon ministro sarà essenzialmente quello di saper ben operare “ad intra”, in settori – anche solo quello archeologico, per esempio – lasciati finora dal Vaticano in secondo piano. E che invece sono, nella visione di Ratzinger, un aspetto essenziale per definire la cultura della chiesa: qualcosa che ha a che vedere con la Tradizione, con il rapporto con la storia, con le famose radici culturali dell’occidente.
Ma c’è l’altro aspetto, quello della comunicazione “ad extra”, che rappresenta forse la parte più interessante, da un punto di vista laico, di quello che il ministro del Papa sarà chiamato a fare. “Ho sempre avuto la percezione che il cristianesimo, oltre al suo dato teologico, sia anche uno straordinario ‘sistema’ culturale e rappresenti la possibilità di un orizzonte di risposta alle domande ultime anche per coloro che non professano la nostra fede”, ha risposto Ravasi in un’intervista. Quello che secondo alcuni è da dissipare è il sospetto di un suo eccessivo “culturalismo”. Ama la parola pacata, preferisce parlare di “duetto” anziché le sfide che gli si pongono davanti, lui che alla parola sfida preferisce la parola “opportunità”? Lui cui molti non perdonano un certo intellettualismo, come quando sul Sole 24 Ore spiegò che Gesù “non è risorto, si è innalzato” (“quello era il titolo, che non ho deciso io e che non riassumeva bene il testo”, ha però chiarito, un po’ irritato che non tutti colgano al volo le sue sottili elaborazioni: “Lì spiegavo che la resurrezione di Cristo non è stata la semplice rianimazione di un cadavere, ma qualcosa di più grande. Oltre al risorgere del corpo c’è stata la glorificazione, l’esaltazione, l’innalzamento: termini usati dall’evangelista Giovanni e da san Paolo per descrivere quel mistero diventato lo snodo centrale della storia umana”).
Per rispondere, bisogna tornare a scandagliare altre due linee molto precise del pontificato bavarese. Innanzitutto, una concezione della cultura non solo come “dialogo” e apertura, cerchio che si allarga alla ricerca dei “lontani”. Ma anche come “testimonianza” e “dialogo nella verità”. Oggi la chiesa manca di testimoni, ha ripetuto spesso Ratzinger. E il martire è, propriamente colui che ricorda: uno che è attendibile.
Inoltre, c’è l’orizzonte amplissimo della missione della chiesa, che il Papa della vecchia Europa, il Papa delle radici giudaico cristiane, il Papa poco viaggiatore, il Papa della liberalità rispetto all’uso del rito latino, ha però fortemente presente. E basterebbe analizzare il peso specifico che hanno, negli interventi finora effettuati, la Lettera alla chiesa cinese o il viaggio in America latina. La scristianizzazione, la secolarizzazione – e soprattutto, oggi, la loro crisi ideologica – sono di certo un fatto interessante per l’occidente. Ma il Papa sa bene che in Asia, in Africa per certuni versi anche in America del nord la religione non se n’è mai andata dal panorama della vita degli uomini.
Non c’è lì il problema del ritorno della religione. E in quei continenti – magna pars – il cattolicesimo gode di una stima crescente proprio grazie alla specificità della sua ragione, all’universale e particolare che nel cattolicesimo sono correlativi. San Tommaso diceva: “Ogni verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo”. Per questo il Papa insiste su un dialogo che sia culturale e non teologico, “interreligioso”. E per questo il dicastero della Cultura diventa strategico, come potrebbe esserlo rimettere al centro del dibattito non il confronto tra fedi, ma la filosofia della religione. Comunicare questa visione sarà il gran compito di Ravasi. “Vorrei che, pur con tutto lo stile necessario per i testi di un dicastero vaticano, si cercasse di farsi capire di più”, ha detto lui: “La cultura è dialogo, ascolto, capacità di entrare in sintonia”.
Certi aspetti di sintonia si intravvedono in certe affermazioni: “L’occhio dell’uomo deve essere purificato perché è deturpato da troppe immagini di brutture e di bruttezze.
Comprese certe nuove chiese. Compresa una certa trasandatezza nella liturgia, purtroppo.
Un bambino del Trecento andava in piazza dei Miracoli a Pisa e vedeva delle bellezze. Oggi un ragazzo dei quartieri periferici delle nostre città finisce per essere così rassegnato al brutto che quando vede un monumento lo sfregia”. O sulla scienza: “La scienza viene talvolta presentata come in opposizione alla fede. Mi piacerebbe creare un ufficio apposito nel pontificio consiglio per la Cultura dedicato proprio allo studio e all’approfondimento delle grandi sfide della scienza”.
© Copyright Il Foglio, 6 ottobre 2007
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