28 maggio 2008

Il dibattito sull'eutanasia in Francia: "La compassione non ha la licenza di uccidere" (Osservatore Romano)


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Il dibattito sull'eutanasia in Francia

La compassione non ha la licenza di uccidere

di Ferdinando Cancelli

In Francia si è riaperto recentemente il dibattito sull'eutanasia, ancora una volta sull'onda del pubblico coinvolgimento causato da un caso umano prima che clinico. Chantal Sébire, una donna affetta da una forma tumorale deturpante del volto, dopo aver ripetutamente chiesto di essere aiutata a morire giudicando indegna la propria condizione, si è tolta la vita con dosi letali di sedativi.
Già nel 2003 il caso di Vincent Humbert, ventunenne affetto da una tetraplegia da trauma cranico, aveva scosso l'opinione pubblica francese. Il giovane, appoggiato dalla madre, aveva a lungo reclamato pubblicamente, anche con un libro, il proprio "diritto a morire" divenendo il simbolo di una corrente di pensiero pro eutanasia sia in vita sia, ancor più, dopo la morte, avvenuta in seguito alla decisione dei medici rianimatori di sospendere i mezzi di sostegno vitale posti in atto dopo che la madre, proprio nel giorno di pubblicazione del libro, aveva somministrato al figlio un'alta dose di farmaci sedativi con l'intento di ucciderlo. Oggi come allora diverse associazioni favorevoli all'eutanasia o al suicidio assistito, prima fra tutte l'Association pour le droit de mourir dans la dignité, vorrebbero cavalcare l'onda mediatica della spettacolarizzazione del dolore per affermare l'assenza di dignità in persone affette da malattie inguaribili in fase avanzata e per vedere riconosciuto il "diritto alla dolce morte"; ma oggi come allora l'effetto conseguente, almeno in Francia, sembra essere esattamente quello contrario. Fu proprio in seguito al caso di Vincent Humbert e alla presa di coscienza che investì il mondo politico di allora che iniziò l'approfondito iter legislativo che portò alla legge del 22 maggio 2005, nota dal nome del parlamentare Jean Leonetti come "legge Leonetti". Quest'ultima ha segnato, pur non priva di punti deboli e di passaggi che andrebbero ulteriormente approfonditi, un passo in avanti nella definizione del ruolo delle cure palliative che, evitando sia l'accanimento terapeutico che l'eutanasia, rappresentano ad oggi la miglior garanzia di accompagnamento al malato inguaribile e alla sua famiglia. Emerge peraltro da un rapporto sullo stato delle cure palliative in Francia, della psicologa Marie de Hennezel nel dicembre 2007, a quattro anni dall'uscita della legge, che i ritardi sono ancora molti e "bisogna riconoscere che ad oggi molti medici non conoscono le buone pratiche cliniche proprie della fase finale della vita. Molti fra questi - continua la de Hennezel - ignorano quanto la legge permette loro di fare e insistono nel pensare che l'estrema soluzione per alleviare la sofferenza nelle fasi terminali consista nell'abbreviare la vita del malato".
Alla risposta che il governo e con esso parte della società francese diedero nel 2005 ai delicati problemi etici di fine vita si può comparare quanto oggi sta emergendo di fronte al caso di Chantal Sébire. In un comunicato stampa del 20 marzo 2008 la Société française d'accompagnement et de soins palliatifs, l'associazione che raduna la stragrande maggioranza degli operatori sanitari francesi nel campo delle cure palliative, e altre sei grandi associazioni mediche, ricordano che "nel contesto attuale nel quale si mescolano la tragicità di una situazione di vita - riferendosi a Chantal Sébire (n.d.a.) - la chiamata in causa della giustizia e dei pubblici poteri e la messa in discussione della legge sui diritti dei malati e sulla fine della vita" sono da ribadire con forza due principi: "trattare il dolore ed alleviare la sofferenza resta una priorità assoluta" e "far morire non può essere una soluzione", nemmeno quando la morte è desiderata dalla persona stessa. Il comunicato termina "riaffermando con forza che, qualunque siano le scelte che la società potrà fare nel futuro, dare la morte non è in alcuna maniera un atto di competenza medica e che i professionisti della sanità non si assumeranno tale competenza".
In parallelo a questa chiarissima presa di posizione da parte di associazioni laiche di professionisti, e quasi negli stessi giorni nei quali Benedetto xvi all'assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia ha ribadito che "con crescente insistenza si giunge persino a proporre l'eutanasia come soluzione per risolvere situazioni difficili", l'arcivescovo di Parigi cardinale André Vingt-Trois, presidente della Conferenza episcopale francese, nel discorso di apertura dell'assemblea generale della stessa Conferenza episcopale pronunziato il primo aprile, ha denunciato la "recente campagna orchestrata, ancora una volta, a partire dal dramma personale d'una persona gravemente malata per fare passare nell'opinione pubblica l'urgenza di legalizzare il permesso di disporre della propria vita. In realtà - prosegue apertamente il cardinale - si tratterebbe ancora una volta del permesso di disporre della vita del proprio prossimo, del permesso di uccidere". Dopo aver sottolineato come la marea emozionale sia stata ancora una volta scatenata a detrimento di una chiara e serena valutazione della situazione specifica, il cardinale afferma che "subdolamente il lavoro ammirevole delle équipe di cure palliative è stato screditato e svalutato agli occhi dell'opinione pubblica; vergognosamente, in migliaia di persone gravemente malate, o negli ultimi anni di vita, è stato instillato il sospetto di non avere il coraggio della "dignità"; in modo fraudolento l'istanza di rimandare alla società la decisione della propria morte è stata presentata come un progresso umano (...) La passione per la morte ha sostituito la compassione per la vita".
Sono parole di condanna dalle quali però si può trarre anche un appello alla speranza. Di fronte all'evidenza che, per dirla con Lucien Israel, "l'uomo occidentale non è più mentalmente, spiritualmente, in grado di assistere coloro che ama e che ha amato, di chiudere loro gli occhi e di baciare una fronte disertata dalla vita", piace pensare che siano ancora in tanti ad avere compassione per la vita, ad avere la forza e la lucidità per passare dall'emozione alla ragione, a tenere davanti agli occhi gli esempi non rari di quanti, per servire la vita, hanno speso tutte le loro umane energie. Fra questi, il servo di Dio Jerôme Lejeune ci ricorda che sempre ci troveremo "a scegliere tra due modi di vedere gli uomini: quello di Giuda o quello dell'Innocente che ha detto "Ciò che avete fatto al più piccolo degli esseri lo avete fatto a me". A noi la scelta.

(©L'Osservatore Romano - 28 maggio 2008)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Buon giorno a voi.Leggo in quest’articolo che Lucien Israel, medico, laico e non credente, che ha scritto un libro contro l’eutanasia ha detto: "l'uomo occidentale non è più mentalmente, spiritualmente, in grado di assistere coloro che ama e che ha amato, di chiudere loro gli occhi e di baciare una fronte disertata dalla vita". In altri termini, oggi spesso si smette di amare le persone perché sono malate. Ma in questo caso, allora, dall’inizio non si trattava di amore per l’altro, ma solo di amore per sé stessi. Forse Israel vuole dire proprio questo: “l’uomo occidentale sta diventando incapace d’amare”. In una prospettiva di fede, possiamo quindi dire che sta diventando incapace di Dio.