18 aprile 2007

I cardinali descrivono la personalita' di Papa Benedetto


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«Io, ma non più io»

del cardinale Angelo Scola
patriarca di Venezia


«Essendo un uomo di formazione teorica e non pratica, sapevo anche che non basta amare la teologia per essere un buon sacerdote, ma vi è la necessità di essere disponibile sempre verso i giovani, gli anziani, gli ammalati, i poveri; la necessità di essere semplice con i semplici. La teologia è bella, ma anche la semplicità della parola e della vita cristiana è necessaria. E così mi domandavo: sarò in grado di vivere tutto questo e di non essere unilaterale, solo un teologo, eccetera? Ma il Signore mi ha aiutato e, soprattutto, la compagnia degli amici, di buoni sacerdoti e di maestri, mi ha aiutato».
Così, con disarmante semplicità, papa Benedetto ha dato voce all’interrogativo circa la sua vera fisionomia che in forma più o meno esplicita circolava tra parecchi dopo la sua elezione a successore di Pietro. E lo ha fatto – è bello ricordarlo – in un dialogo a cuore aperto con i giovani della sua diocesi, Roma, in occasione della XXI Giornata mondiale della gioventù, il 6 aprile 2006. Il Papa ha voluto condividere con loro e con noi il proprio personale percorso di fede. Un percorso di feconda umiltà, fatto di grazia e di libertà, di certezza e di realistico timore, di slancio e di abbandono.
E di questo cammino il Santo Padre ha voluto anche mostrare le pietre miliari.
Innanzitutto la grazia che è lo stesso Signore Gesù. Il primato di Cristo, cioè dell’amore incarnato di Dio nella vita del cristiano, ci è stato richiamato con grande forza dall’enciclica Deus caritas est. Cardine dell’insegnamento del Papa è il formidabile passaggio del primo paragrafo: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
Da qui, quasi con naturalezza, lo sviluppo operato nel suo intervento di Verona: «“Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo». Una novità che è frutto del dono dello Spirito, che non è quindi possibile produrre da noi. È un dato – in senso forte – da accogliere. Come per il Papa del Totus tuus così anche per Benedetto XVI, che con occhi sgranati e il cuore lieto saliva, fanciullo, al santuario di Altötting, la Vergine Maria rappresenta la figura compiuta della sua personalità e della sua esistenza. Nell’annunciazione l’Immacolata pronuncia quel fiat che dispiegherà tutta la sua forza nello stabat del Calvario e troverà pieno compimento nel mistero dell’Assunzione. Maria, infatti, dice fino in fondo cosa significa cooperare assentendo, come recita il canone quarto del decreto sulla giustificazione del Concilio di Trento. Questo è l’orizzonte proprio del sensus fidei del popolo cattolico, genuinamente espresso dall’esperienza della Chiesa bavarese. Nell’appartenenza pienamente consapevole a questa porzione significativa di popolo santo di Dio ha preso forma la vocazione e la missione di papa Ratzinger.
Ma il Papa aggiunge una seconda indicazione. Preziosa perché illumina la modalità attraverso la quale la grazia sacramentale diventa incontro persuasivo e affascinante per la libertà di noi uomini: «La compagnia degli amici, di buoni sacerdoti e di maestri, mi ha aiutato». La vita della comunità cristiana, infatti, è garanzia della strada. Una compagnia che dice il volto della Chiesa e investe «i grandi ambiti nei quali si articola l’esperienza umana» (discorso al Convegno di Verona).
Tutti siamo rimasti colpiti dalla profondità con cui il Santo Padre in quest’ultimo anno ha voluto rispondere alla domanda oggi più che mai decisiva. Il suo grande amico Hans Urs von Balthasar la formulava in questi termini: «Chi è la Chiesa?». Papa Benedetto sta ripercorrendo la vicenda umana e cristiana degli apostoli e dei discepoli del Signore. Pietro, Giovanni, Matteo, Paolo, Stefano, le donne… I primi anelli di un’ininterrotta catena di testimoni, storicamente ben documentabile, che giunge a coinvolgere anche noi. In essa si esprime la natura sacramentale della traditio della Chiesa.
La grazia che è Gesù Cristo, vissuta nella compagnia della Chiesa: ecco i doni che il Papa non cessa di testimoniare alla nostra libertà.

Trenta giorni


Le vie della Provvidenza

del cardinale Angelo Sodano
decano del Collegio cardinalizio, segretario di Stato emerito


«Mi chiamo Paolo, ma il mio nome è Pietro», dichiarava il papa Paolo VI parlando a Ginevra di fronte ai membri del Consiglio ecumenico delle Chiese, il 10 giugno 1969.
«Mi chiamo Benedetto, ma il mio nome è Pietro», potrebbe ripetere ora il papa Benedetto XVI.
Dall’umile pescatore di Galilea a oggi sono passati 265 sommi pontefici, tutti con caratteristiche proprie, ma egualmente protesi a compiere la missione loro affidata dal Signore, quella, cioè, di essere il fondamento visibile della Sua Chiesa.
In questi duemila anni di storia, abbiamo potuto contemplare l’opera della provvidenza di Dio, che sempre ha vegliato sulla Santa Chiesa. «L’uomo si agita e Dio lo conduce», ci ricorda un antico proverbio. E ciò è tanto più vero se analizziamo la storia della comunità cristiana e, in particolare, quella del pontificato romano.
È infatti la Provvidenza che ha ispirato Pietro a lasciare Gerusalemme e a recarsi prima ad Antiochia e poi a Roma. È la Provvidenza che sempre ha vegliato su questa Chiesa, suscitando generosi continuatori dell’opera dell’apostolo Pietro. Questi era stato scelto direttamente da Cristo, che poi lasciò ai successori dell’apostolo di stabilire, con la loro autorità primaziale, le modalità concrete della scelta dei loro successori.
Le procedure dell’elezione del vescovo di Roma variarono, quindi, con il passare del tempo, ma i documenti storici ci parlano dello sforzo costante dei successori di Pietro per difendere la libertà della Chiesa nei confronti delle pressioni dei poteri civili e per rivendicare la legittimità delle scelte operate di fronte ai contestatori dell’autorità pontificia che talora sorgevano in alcune comunità cristiane.

Uno sguardo alla storia

Già verso la fine del 251, san Cipriano, vescovo di Cartagine, era chiamato a difendere il papa Cornelio da coloro che ne contestavano la legittimità, dimostrando come la sua elezione fosse avvenuta secondo la procedura regolare allora in vigore. «Cornelio è stato consacrato vescovo dal giudizio di Dio e di Cristo», affermava san Cipriano, «attraverso la testimonianza pressoché unanime del clero, con il suffragio del popolo presente, il consenso dei sacerdoti anziani e delle persone di riguardo, senza che nessuno prima di lui fosse stato eletto per occupare la sede vacante alla morte di papa Fabiano».
All’inizio del secondo millennio cristiano avvenne poi la nota svolta decisiva, al fine di evitare tutta una serie di ingerenze esterne e di divisioni interne nella scelta del vescovo di Roma. La storia ci dice che fu il papa Niccolò II a riservare unicamente al Collegio dei cardinali, come rappresentanti del clero di Roma, il diritto di eleggere il vescovo di questa sede. E tale è la procedura che dal 1060 a oggi, pur con diverse modifiche, è stata seguita per la scelta del successore di Pietro.

Il voto dei cardinali

Riuniti in conclave, i cardinali invocano la luce dello Spirito Santo e, dopo matura riflessione, eleggono colui che, in quel momento storico, ritengono davanti a Dio come il più idoneo a continuare la missione del vescovo di Roma.
Impegnativo è, al riguardo, il giuramento che ogni elettore deve pronunziare prima del suo voto. Come appare dal regolamento attuale del conclave (Ordo rituum Conclavis), pubblicato nel 2000, il testo di tale giuramento è molto solenne: «Chiamo a testimone Cristo Signore, il Quale mi giudicherà, che il mio voto è dato a colui che, secondo Dio, ritengo debba essere eletto». Vorrei anzi citare, per i cultori del latino, il testo originale del giuramento: «Testor Christum Dominum… me eum eligere, quem, secundum Deum, iudico eligi debere».

Nel conclave del 2005 è toccato poi a me, come sottodecano del Collegio cardinalizio, di chiedere il consenso all’eletto. Ricordo bene la commozione con cui gli rivolsi, in latino, la domanda di rito: «Accetti la tua elezione, fatta canonicamente, a sommo pontefice?».
Un senso di gaudio interiore pervase tutti noi non appena il neoeletto pronunciò il suo “fiat”. Gli chiesi poi: «Con quale nome vuoi essere chiamato?». E chiara fu la sua risposta: «Vocabor Benedictus XVI», «Mi chiamerò Benedetto XVI».


Un arcano disegno

Da quel momento era lui il successore di Pietro, il vescovo scelto dalla Provvidenza a presiedere nella carità la Chiesa di Roma. Del resto, è ciò che subito gli dissi, come sottodecano, a nome dei presenti: «Beatissimo Padre, in quest’ora solenne, in cui, per un arcano disegno della Divina Provvidenza, sei stato eletto alla Cattedra di Pietro, prima di elevare unanimi le nostre preghiere a Dio e di ringraziarLo per la tua elezione, conviene ricordare le parole con cui il nostro Signore Gesù Cristo promise a Pietro e ai suoi successori il primato del ministero apostolico e dell’amore».
Tutti ascoltammo allora la lettura del Vangelo secondo Matteo, al capitolo 16, 13-19, e poi, dopo aver compiuto atto di ossequio e obbedienza al nuovo Papa, iniziammo il canto del Te Deum, lieti di essere stati strumenti della Provvidenza Divina nel dare alla Chiesa un nuovo pastore.

Una gioiosa accoglienza

Certo, ogni pontefice è diverso dagli altri, così come differenti erano i dodici apostoli scelti da Gesù. Ma subito i cristiani, pur con il dolore per la perdita di un papa che amavano, hanno sempre accolto con gioia il suo successore.
Ciò è successo anche a me, fin da quando, nel 1939, come studente di prima ginnasio nel seminario di Asti, sentii il rettore che ci comunicava la morte del compianto Pio XI. Anch’io avevo imparato ad amarlo, sentendone parlare con ammirazione in famiglia e in parrocchia. Avevo appena dodici anni, ma conservavo già nel mio libro di preghiere l’immaginetta del Papa. Per me, non era Achille Ratti che se ne andava, ma era semplicemente il Papa.
Con grande allegria, venti giorni dopo, precisamente il 2 marzo di quel medesimo 1939, sentii però la notizia dell’elezione del cardinale Eugenio Pacelli a sommo pontefice con il nome di Pio XII.
Così mi accadde anche alla scomparsa di quest’ultimo, il 9 ottobre 1958. Giunto a Roma per entrare al servizio della Santa Sede, un grande senso di smarrimento invase allora me e molti di fronte a quell’evento. Ben presto, però, già il 28 ottobre, il Collegio cardinalizio, ispirato dalla Provvidenza Divina, ci aveva dato la grazia dell’elezione a nuovo pontefice di Angelo Giuseppe Roncalli, il beato Giovanni XXIII.
Simili sentimenti, allorquando prestavo il mio servizio nella nunziatura apostolica a Quito, in Ecuador, pervasero il mio animo alla scomparsa del papa Roncalli e per l’elezione di Paolo VI.
Con gli stessi sentimenti vissi poi le vicende della scomparsa del papa Paolo VI e di Giovanni Paolo I, come pure l’elezione del compianto Giovanni Paolo II, mentre ero in servizio della Santa Sede a Santiago del Cile.
Ripensando a quegli eventi, dolorosi e poi lieti, mi commuovo ancor oggi, ricordando il grande senso di fede del nostro popolo cristiano, sparso nelle varie parti del mondo. È quel sensus fidei che lo Spirito Santo sa suscitare nella comunità ecclesiale, in ogni momento della sua storia.

L’azione dello Spirito

Così è stato pure per l’elezione del papa Benedetto XVI. Da quel giorno, egli non è più Joseph della Baviera, ma è Pietro della Galilea!
In realtà, il popolo cristiano ben sa che, nella Chiesa, opera sempre lo Spirito Santo, che la vivifica e la guida nel cammino attraverso i secoli. L’apostolo Pietro, nella sua prima lettera, dice che i cristiani della diaspora amavano Cristo «senza averlo visto» (1Pt 1, 8). Altrettanto potremmo dire oggi di tanti fedeli sparsi per il mondo che amano il Papa, anche se non l’hanno mai visto.
Il grande teologo Henri de Lubac, nel suo noto libro Méditations sur l’Église, già deplorava che molti studiosi del pontificato romano ne percepivano soltanto la grandezza umana. Certo, il papato è una realtà unica anche nella storia della nostra civiltà. I fedeli, però, alla luce della fede, sanno anche andare all’essenziale: sanno che ogni papa è stato suscitato dalla Provvidenza Divina come pietra visibile dell’unità della Chiesa e, pertanto, lo venerano e lo seguono con amore.

Il nuovo Papa

Con tale atteggiamento, i discepoli di Cristo hanno accolto, due anni fa, Benedetto XVI. Come a un padre, essi si stringono intorno a lui, particolarmente in questo momento in cui egli celebra il suo ottantesimo genetliaco.
Jean Guitton, nel suo noto libro Dialoghi con Paolo VI, confidava già ai suoi lettori che di tutte le dignità di un papa la più impressionante per lui era quella della paternità, che irradia, di fronte al mondo, forza e serenità. Egli, poi, annotava come non sia necessario che tutti i figli conoscano il padre perché egli sia padre! In realtà, tale paternità spirituale ha costituito un aspetto caratteristico degli ultimi sommi pontefici, soprattutto del papa Giovanni Paolo II di venerata memoria, che tanto si è prodigato verso l’umanità sofferente, come pure per favorire la pace e il progresso dei popoli.
Ed è questo pure un aspetto dell’attuale Successore di Pietro. Il suo “potere”, infatti, è diverso da quello delle autorità di questo mondo, è un’autorità di un padre, un’autorità che crea unità ed edifica nella carità.

Un interrogativo per tutti

Questo è, in sintesi, l’atteggiamento dei credenti di fronte al pontificato romano. Ma l’esistenza di tale istituzione può anche costituire uno stimolo alla riflessione da parte dei non credenti.
E nessuno, infatti, può negare l’esistenza di tale realtà, come nessuno può negare l’esistenza delle Alpi o dei Carpazi nel cuore dell’Europa. La permanenza, poi, della Chiesa cattolica nel corso di duemila anni di storia non può non porre degli interrogativi a ogni studioso delle vicende umane. Le risposte possono essere varie, ma per il credente v’è una certezza che sovrasta tutte le altre: la Chiesa cresce sempre più nel corso dei secoli e resiste a tutte le prove, perché è sostenuta dalla Provvidenza Divina, che ne guida le sorti.
Anzi, questa Chiesa crede fermamente di durare fino alla fine della storia umana. Per il credente, il segreto è costituito dalla promessa fatta da Cristo ai suoi discepoli e tramandataci da san Matteo, con le ultime parole del suo Vangelo (Mt 28, 20): «Io sarò sempre con voi, fino alla consumazione dei secoli».

Trenta giorni.


Un innamorato della verità che viene da Dio al servizio della Chiesa

del cardinale Alfonso López Trujillo
presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia



Gli ottant’anni del Papa, vissuti sotto lo sguardo amorevole di Dio, suscitano l’impressione dello scorrere di un fiume, con varie e successive chiamate nel kairós, il tempo provvidenziale di Dio.
Leggendo i tratti della sua vita, che egli stesso ha raccontato e sui quali ha riflettuto con semplicità e spontaneità, nonostante vari momenti e diverse circostanze difficili, si comprende come la sua esistenza e la sua fede siano stati un grande dono di Dio nella sua famiglia.
Le successive chiamate, nel dialogo con il Signore, appaiono come tappe e percorsi diversi e complementari che acquistano una nuova luce nella sua attuale missione di successore di Pietro.
La sua fanciullezza e la sua gioventù sono sbocciate nella vocazione cristiana con la chiamata al sacerdozio, nel generoso e convinto servizio al Signore. In quel tempo di preghiera e di studio è emerso l’appassionato amore per la verità come sacerdote e teologo, in una compatta integrazione. Il credente e il sacerdote, con grandissime doti di professore e pensatore, si uniscono in un’armonica realtà. I suoi numerosi libri sono come una grande strada aperta per le tante persone che ne hanno tratto arricchimento, per la loro profondità e chiarezza. Non si tratta di un freddo esercizio accademico, ma di un invito a immergersi nella verità, attraverso la vicinanza del sacerdote e poi del vescovo. I suoi scritti non si leggono senza un’intima persuasione: la voglia di diventare più convinti, più cristiani, con un carisma simile a quello di Romano Guardini, cioè rendere accessibili e meno complessi temi non facili. È già comune parlare di fare teologia in ginocchio, pregando. E in questo il cardinale Ratzinger è sempre stato un maestro di straordinario spessore.
Ricordo che durante il viaggio apostolico di Giovanni Paolo II in Colombia, in occasione del quale ho avuto l’onore di far parte del seguito, il servo di Dio approfittava del viaggio in aereo e in elicottero per leggere un libro del suo grande collaboratore. Per tanti anni questa è stata una impressionante empatia, che certamente favoriva un dialogo fecondo nella Chiesa.
Vorrei soffermarmi sui primi due anni del pontificato di Benedetto XVI, nella missione che egli accettò sebbene il suo piano fosse quello di tornare allo studio orante, dopo aver messo a disposizione i suoi molteplici talenti come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Il Catechismo della Chiesa cattolica sarebbe sufficiente per dimostrare quanto grande sia stata la sua dedizione.
Molti sarebbero gli aspetti da considerare, ma mi soffermerò soltanto su uno.
Già all’inizio della sua missione come Pastore universale, Benedetto XVI aveva detto di non avere un programma speciale, come di solito promettono i politici, i governanti, eccetera. Essere successore di Pietro, principio visibile di comunione, alla guida della Chiesa, va al cuore stesso del suo servizio, che svolge serenamente, fermamente, con le energie e il coraggio che gli vengono da Dio. È un testimone della verità, che semina fedelmente con grande speranza. È questa la diffusa esperienza di tanta gente che, nonostante le sfide di oggi, sente nei suoi interventi e nei suoi vari messaggi, la chiara trasmissione della fede. Questa lo spinge, con la profondità del teologo, al servizio di un magistero che dà nuove energie evangelizzatrici alla Chiesa, liberandola dalle tentazioni di un secolarismo disumanizzante allontanato da Dio. Colpisce molto questo suo servizio, in armoniosa continuità con i suoi predecessori, ma con un personale sigillo creativo, riguardo in particolare alla famiglia e alla vita, che sono come una proclamazione del Vangelo e stupore per la sua bellezza, nella sua necessaria difesa per amore dell’umanità, il suo bene nel tempo, nella storia e anche escatologico. Chiediamo al Signore che ci conservi a lungo questo Pontefice che ci offre il pane dell’Eucaristia e della fede con la chiarezza e la sapienza di un catechista.
La Poliglotta Vaticana prepara un libro a cura del Pontificio Consiglio per la famiglia sul magistero relativo al Vangelo della famiglia e della vita in questi due primi anni del fecondo pontificato del Santo Padre. Tutto con “parresía”, coraggio, decisione evangelica.
Si illudono coloro che immaginano che i suoi insegnamenti siano un’opinione, soggetta a varie e, a volte, curiose interpretazioni, e che possano diventare un parere da accogliere facoltativamente. Diverse volte il Pontefice ha ripetuto che ci sono valori non negoziabili, specialmente per ciò che riguarda la famiglia e la vita, e non solo per i credenti, ma anche per coloro che, attraverso la ragione, hanno accesso alla verità sull’uomo, una verità che la fede approfondisce dando motivi di certezza e di speranza. Non ci sono diversi magisteri della Chiesa e ciò che il Papa proclama con amore di pastore è la via sicura, che non va relativizzata. È un fatto che si constata in tutti i suoi interventi che egli pronuncia mosso dallo Spirito e che non costituiscono una indebita ingerenza nel mondo politico.
Il cuore del Papa, come servitore, è sempre stato aperto a Dio, dal quale viene la certezza della fede. Il Pontefice è anche attento al dialogo con il mondo, con le diverse religioni, con rispetto e fedeltà a ciò che esige l’identità cristiana. Ha stimolato l’ardente desiderio di un vero ecumenismo. Nella Chiesa di Gesù Cristo c’è la ricchezza della comunione tra i pastori, che riconoscono e ammirano il Papa come roccia della fede, nella sua piena dedizione al gregge a lui affidato, che guida con amore. E mi pare l’essenza del servizio petrino (cfr. Lc 22, 32). Egli ha accolto con gratitudine, per esempio, le proposizioni del Sinodo, nell’esortazione apostolica Sacramentum caritatis, che sottolinea il ruolo centrale della famiglia, fondata sul matrimonio, comunità di vita e amore, santuario della vita, con decisione, fermezza e anche dolcezza, aspetti che provengono da una profonda antropologia umana e cristiana. I brani dedicati a una precisa coerenza eucaristica che esige la grave responsabilità sociale, soprattutto di politici e legislatori sui valori fondamentali, sono un vero servizio a loro e alla società.

Trenta giorni


Cinque preghiere per il Papa

del cardinale Francis Arinze
prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti


Una settimana dopo Pasqua, e più precisamente il 16 aprile 2007, il nostro Santo Padre, il papa Benedetto XVI, celebrerà il suo ottantesimo compleanno. Tre giorni dopo inizierà il suo terzo anno di pontificato. La rivista 30Giorni mi ha chiesto di esprimere i miei omaggi al nostro Santo Padre per questa sua duplice e felice occasione. Lo farò sotto forma di cinque espressioni di apprezzamento e di cinque preghiere o auguri.
Ammiro il papa Benedetto XVI perché Gesù Cristo è al centro del suo ministero, della sua proclamazione, dei suoi discorsi, delle sue omelie. Egli ci ricorda continuamente che la nostra fede è un incontro non con un’idea ma con Gesù Cristo. La nostra religione è una sequela del Figlio di Dio che ha preso la natura umana per amore nostro e per la nostra salvezza.
Il papa Benedetto XVI adempie il ministero petrino con profondità, chiarezza e con straordinario amore. Si pensi alle udienze generali del mercoledì o all’Angelus domenicale. Le persone vi partecipano in numero sempre crescente. Gli incontri di Colonia (agosto 2005), Polonia (maggio 2006), Valencia (luglio 2006) e Baviera (settembre 2006) sono stati caratterizzati da autentiche folle di fedeli riunite attorno al loro Pastore. La gente quando partecipa agli incontri con il Santo Padre sa di ricevere la parola di vita: essa ascolta, è felice e sente il bisogno di ritornare.
Ammiro il nostro Santo Padre anche perché associa attorno a sé il collegio dei vescovi. Nella sua omelia del 20 aprile 2005, il giorno dopo la sua elezione alla sede di Pietro, ha detto: «A voi, signori cardinali, con animo grato per la fiducia dimostratami, chiedo di sostenermi con la preghiera e con la costante, attiva e sapiente collaborazione. Chiedo anche a tutti i fratelli nell’episcopato di essermi accanto con la preghiera e col consiglio, perché possa essere veramente il servus servorum Dei» (L’Osservatore Romano, giovedì 21 aprile 2005, p. 9). I vescovi hanno visto questo spirito operare specialmente durante le loro visite ad limina. È stato per me un onore e una gioia consegnare al Santo Padre le questioni della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti che richiedono le sue direttive e decisioni, ascoltarlo, rispondere alle sue domande, presentare delle proposte e ricevere le sue istruzioni.
Analoghi sentimenti sorgono quando si partecipa agli incontri da lui presieduti.
Un quarto motivo di apprezzamento del nostro Papa è per le sue maniere gentili, per la sua disponibilità di ascolto e, al tempo stesso, per la sua capacità di esprimere con chiarezza le sue idee. Nell’omelia della messa solenne di inizio del suo ministero, il 24 aprile 2005, egli ha detto: «Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia» (L’Osservatore Romano, lunedì 25 aprile 2005, p. 4).
Un quinto motivo di stima che mi è gradito esprimere al Santo Padre è per il modo bello con cui presiede le celebrazioni liturgiche, specialmente il sacrificio eucaristico, per la sua ars celebrandi, per lo spirito di preghiera e per il raccoglimento che caratterizza i suoi movimenti, per le sue profonde omelie: tutto ciò nutre la fede e aiuta a edificare la Chiesa.
Dal momento che il Santo Padre celebra il suo ottantesimo compleanno e inizia il terzo anno del suo pontificato, intendo formulare cinque preghiere per lui o piuttosto esprimere cinque auguri.
Possa il Santo Padre avere sempre la gioia di sapere che egli prega e lavora in unità e comunione con i suoi fratelli vescovi: «Con tutti quelli che custodiscono la fede cattolica trasmessa dagli Apostoli» (Messale Romano, Preghiera eucaristica I). Possa, perciò, l’evangelizzazione progredire efficacemente.
Possa egli vedere sempre più santità nella Chiesa tra i laici, le persone consacrate e i chierici.
L’ecumenismo sta a cuore a papa Benedetto XVI. Soltanto nei mesi di novembre e dicembre 2006 ha ricevuto in Vaticano l’arcivescovo di Canterbury, l’arcivescovo ortodosso di Atene e di tutta la Grecia, ha visitato a Istanbul il patriarca ecumenico e il patriarca apostolico armeno di Istanbul e Turchia e ha ricevuto nella nunziatura apostolica in Turchia il metropolita siro-ortodosso. Possa il Signore far sì che il giorno in cui i cristiani torneranno a unirsi non sia lontano.
Il dialogo interreligioso e interculturale ha ricevuto grande attenzione da parte del Santo Padre. Possa egli avere la gioia di osservare sempre maggiori progressi in questi sforzi e in queste iniziative.
Molte persone al mondo soffrono a causa di tensioni, discordie, ingiustizie, violenze e guerre. Il Santo Padre è Vicario di Cristo che è il «Principe della pace» (Is 9, 6) ed è egli stesso «nostra pace» (Ef 2, 14): possa papa Benedetto avere la gioia di vedere più giustizia, riconciliazione e pace in tutto il mondo, soprattutto nella Terra Santa, santificata dalla presenza terrena del Verbo di Dio incarnato.
In occasione dell’ottantesimo compleanno del santo padre papa Benedetto XVI e del suo secondo anniversario come successore di san Pietro, auguro a lui gioia e pace, e prego che il Signore lo benedica e continui a benedire il suo ministero petrino, a preservarlo e a proteggerlo.

Trenta giorni


Pietro, siamo con te

del cardinale Alexandre do Nascimento
arcivescovo emerito di Luanda


Un momento di conforto fu per me il gesto compiuto dal segretario del cardinale Ratzinger, quando, all’aeroporto di Portela (Lisbona), pochi anni fa, avendomi visto un po’ in disparte, informò sua eminenza della mia presenza. Mi sembrò pronto a venirmi incontro. Confuso, mi affrettai a raggiungerlo io, e dopo il saluto ebbi con lui qualche scambio di vedute. Dirò in tutta verità che non mi sono stupito di questo suo atteggiamento di non comune semplicità: un contegno si direbbe innanzitutto di riserbo, ma che immediatamente suscita simpatia. Ci sono infatti delle persone dotate che rassomigliano alle belle fontane di Roma: zampillano, bisbigliando, acqua fresca, buona, pronta a dissetarci. Bisogna però che chi passa si avvicini.
Quante volte ho visto il cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede che attraversava piazza di San Pietro! Il suo passaggio non disturbava nessuno, non destava particolare attenzione: i bambini correvano dietro le colombe, sotto lo sguardo delle mamme o delle nonne.
Sì, questa mitezza e questa discrezione furono notate già nel lontano 1965, durante il Concilio: il giovane teologo che accompagnava il cardinale Frings era tra i periti più in vista. Yves Congar non nascose l’apporto positivo che veniva dall’atteggiamento costruttivo di Ratzinger in mezzo alle tensioni, che non mancano mai là dove si trovano degli uomini… Padre Congar scrisse allora queste significative parole: «Per fortuna c’è Ratzinger. Lui è ragionevole, modesto, disinteressato, qualcuno di fatto servizievole…» (Mon journal du Concile, I, Editions du Cerf, Parigi 2002, p. 355).
L’ho conosciuto prima che diventasse Papa e qualche volta ci siamo rivolti la parola e abbiamo lavorato insieme nelle adunanze di qualche Congregazione romana. Naturalmente da parte mia c’era quel dovuto riserbo: non ignoravo infatti il suo imponente cursus honorum accademico, né la sua competenza riconosciuta, non solo nella sua Germania. Ebbe, tra gli altri prestigiosi incarichi, anche quello di membro dell’Institut de France, nel quale prese il posto di Sacharov. Nell’occasione di quella nomina, il cardinale parlò del suo grande interesse per la letteratura francese, non soltanto per i classici (questo va da sé) ma anche per gli autori più recenti, nostri coetanei, quelli che possiamo considerare, senza troppa presunzione, nostri fratelli maggiori. Infatti, nel periodo compreso tra il 1930 e il 1970, la Francia ebbe una schiera di autori che sono il suo giusto vanto, ma che, in molti casi, sono anche il vanto del cattolicesimo. Solo per fare qualche nome: Paul Claudel, Jacques Maritain, François Mauriac, Georges Bernanos, Emmanuel Mounier.
Da uomo di studio e di riflessione, il professor Ratzinger è per necessità una persona che ha un bisogno vitale di silenzio e di solitudine. Ha bisogno di questo spazio interiore innanzitutto perché esso sia riempito dalla preghiera, dal dialogo con Dio, che è il primo che deve essere servito: la Sua presenza nel cuore umano costituisce quel milieu divin di cui parlava Teilhard de Chardin, senza il quale l’anima si sente un pesce fuor d’acqua. È nota la passione di Joseph Ratzinger per la liturgia, passione che viene dai tempi della giovinezza; per questo è stato sempre riconoscente al professor Joseph Pascher e trasse profitto dal movimento liturgico che ebbe in Romano Guardini una guida luminosa seguita anche fuori dalla Germania.
Ma naturalmente questo silenzio e siffatta solitudine sono riempiti anche dal dialogo fecondo con i grandi pensatori del passato: i loro scritti spesso sono uno stimolo e possiamo in essi trovare punti di vista prolifici, e qualche volta la spinta per l’inizio di un’opera originale. La Provvidenza, con tutto questo e anche con eventi storici, dentro e fuori del suo Paese, ha preparato per noi il nostro Santo Padre.
Diventato Papa, Ratzinger si immerse in una solitudine, se possibile, ancora più grande… Paolo VI fece una confidenza a Jean Guiton su questa esperienza: la paternità universale, propria del successore di Pietro, ha le sue esigenze uniche, honor, senz’altro. Ma forse più onus, che solo un grande amore personale a Cristo può sorreggere.
Tutto questo è avvolto nel mistero della vocazione al primato apostolico. Per cui questo individuo è preso nel suo essere irripetibile, unico: nelle sue umane radici, biologiche e culturali; nel suo passato vissuto e anche ereditato. In questo caso anche l’argilla, parte integrante dell’essere umano, viene coinvolta sotto lo sguardo penetrante, trionfante di Colui che sceglie: «Signore, tu sai tutto». E… Tu puoi tutto!
Mi stupisce sempre quel brano degli Atti degli Apostoli (12, 6-18): che differenza tra Pietro che si intimidisce dinanzi a una giovane portinaia (Gv 18, 17) e Pietro che si trova in carcere: «… piantonato da due soldati e legato con due catene stava dormendo, mentre davanti alla porta le sentinelle custodivano il carcere» (At 12, 6). L’apostolo si è arreso totalmente al suo maestro, che lui ama profondamente: di questo ha piena coscienza, inequivoca, tanto che si appella alla testimonianza del Signore: «Tu sai che ti amo» (Gv 21, 17).
Nel viaggio apostolico in Polonia (maggio 2006) il Santo Padre ha dovuto affrontare questo dato immutabile delle sue radici umane. Quando visitò Auschwitz, nella allocuzione dichiarò: «Io sono oggi qui come figlio del popolo tedesco». Disse cose accorate, sofferte. Leggendole si sente qualcosa degli accenti di estremo agone tra l’amore che qualche grande antico profeta nutre per il suo Signore e il suo dirompente mistero…
Ratzinger esclama a Birkenau: «Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?». Dostoevskij, dinanzi il mistero della sofferenza dei bambini, si ribella, rigetta la giustificazione che il Signore ci fornirà al suo tempo (Fratelli Karamazov). Naturalmente questa non è la linea del Papa. La storia non è finita con la morte del Signore (il crimine più grande dell’umanità). Anzi, è venuta un’era migliore: «Felix culpa!...». Questo buio nella storia di persone o di popoli sottolinea quanto il Signore prende sul serio la libertà creata. Ma a Lui è riservata l’ultima parola, perché sa sempre ricavare un bene maggiore dal male. Il “quando” è segreto Suo, ed esige da noi creature fede e umiltà.

Trenta giorni

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