10 aprile 2007

Papa Ratzinger visto dai vaticanisti


Famiglia Cristiana ha intervistato alcuni vaticanisti allo scopo di tracciare un bilancio dei primi due anni di Pontificato di Benedetto XVI. Osservo che non c'e' nulla di nuovo: le analisi sono quasi completamente sovrapponibili a quelle dello scorso anno. E' un vero peccato perche' si e' persa un'occasione per tracciare meglio la figura di Papa Benedetto da parte di chi lo conosce (per lavoro) o almeno dovrebbe conoscerlo.
Noto che, a due anni di distanza, non si lesina il continuo paragone con il predecessore. E' chiaro che c'e' una grande continuita' (come potrebbe essere diverso?), ma e' anche vero che c'e' una certa discontinuita' nella continuita'.
Mi sarebbe piaciuto leggere un bel commento sul rapporto con gli Ortodossi (non sminuiamo cio' che e' accaduto in questi due anni!), avrei voluto sentire una sorta di mea culpa dei mass media (e quindi anche dei vaticanisti), che spesso semplificano i messaggi del Papa, quando non li distorcono (Ratisbona e' li', come un marchio scolpito nel marmo della stampa). In poche parole avrei desiderato leggere analisi che prescindessero dal passato e guardassero al futuro.
Comprendo che sia piu' facile parlare per paragoni, ma a noi fedeli non basta piu'...
Nessuno, per esempio, ci ha spiegato perche', a suo avviso, i cattolici sono tanto interessati agli Angelus ed alle catechesi del mercoledi'. Ormai non si puo' piu' invocare "l'effetto traino" o la curiosita'. Che cosa, allora, ci spinge verso la figura di questo Pontefice cosi' carismatico e cosi' poco compreso dai media?
Questi sono i commenti che mi piacerebbe leggere.
Detto questo, devo pero' riconoscere ad alcuni vaticanisti una grande intelligenza ed una simpatia per Papa Benedetto che mi sorprende. Con un grande sforzo, che spero apprezzerete, non diro' con quale o quali commenti sono d'accordo :-))

Raffaella


PAPA
DUE ANNI DI PONTIFICATO NEL BILANCIO DEI VATICANISTI


UN PAPA DA ASCOLTARE PIÙ CHE DA "VEDERE"

Per il Papa teologo la priorità è che Dio torni a essere la notizia centrale nella vita quotidiana degli uomini.

MARCO TOSATTI
La Stampa

È davvero un’eredità pesante, quella che Giovanni Paolo II ha lasciato sulle spalle di Benedetto XVI; e forse solo ora il gentile teologo bavarese chiamato a succedergli realizza l’ampiezza e la profondità della sfida. In realtà questo secondo anniversario si chiude in un momento non particolarmente favorevole, in particolare da un punto di vista di rapporti interconfessionali. È stata rimandata la prevista visita in Vaticano di Al Tantawii, il leader dell’Università islamica Al Azhar del Cairo, in quella che sembra una "coda" della crisi di Ratisbona; durante la visita del presidente russo Putin il tema dei rapporti fra Santa Sede e Patriarcato di Mosca non è stato minimamente affrontato, e le relazioni fra la prima e la terza Roma restano a dir poco altalenanti, a dispetto di tutta la buona volontà messa in campo dagli uomini di Benedetto XVI, e dal Papa stesso; e per l’ennesima volta da parte israeliana non ci si è seduti al tavolo della trattativa per risolvere la questione dello status della Chiesa cattolica in Israele, e anche se gli uomini della Segreteria di Stato sono abituati a sperare contro ogni speranza, la loro controparte mette a dura prova l’ottimismo più cieco.

Dall’Italia e dall’Europa di consolazioni al Pontefice non ne sono venute molte, anche se almeno nella Penisola la battaglia per evitare la nascita di una figura giuridica analoga al matrimonio ha creato intorno alla Chiesa molte critiche, ma anche molti consensi, e non solo in campo confessionale. L’impressione è però che papa Ratzinger mantenga una grande serenità, e lavori, in maniera attenta e oscura, a quella che sembra sia la sua preoccupazione maggiore: mettere a capo delle diocesi di tutto il mondo persone di fede, preparate e capaci. È lo studio delle "ponenze", cioè delle candidature diocesane, una delle attività a cui si dedica con maggiore impegno, conscio della sua importanza fondamentale per la Chiesa.


SALVATORE MAZZA
Avvenire

Amore a Dio e alla Chiesa, unità dei cristiani, difesa della famiglia e della vita, dialogo tra i credenti di tutte le religioni. Che la successione a Wojtyla fosse destinata a essere un’impresa lo sapevano tutti. Una certezza che gli straordinari giorni d’inizio aprile del 2005, dalla morte alle esequie di Giovanni Paolo II, avevano reso più acuta. Il "fardello" è toccato a lui, il meno probabile nel novero dei "papabili"; di sicuro, quello che per tante buone ragioni, età in primis, meno era convinto che alla fine sarebbe toccato proprio a lui.

E invece… Ecco, non è possibile pensare ai primi due anni di Pontificato di Benedetto XVI senza partire dalla considerazione dell’eredità wojtylana, sterminata e impegnativa. Difficile già da maneggiare, si diceva nei giorni precedenti il Conclave, figuriamoci da gestire, far crescere, rilanciare. Papa Ratzinger, davvero con l’umiltà dell’operaio della vigna, se l’è presa sulle spalle. E ha continuato la semina.

Si è fatto catechista. Catechista vero, quasi dando alle parole un senso nuovo – la sua enciclica Deus caritas est in questo senso, è un piccolo capolavoro –, invitando i credenti a tornare sempre alle radici della propria fede per cercare in essa le risposte, anche quelle più "scomode", alle sfide del mondo. Con lo stesso linguaggio, semplice e affascinante, ha cercato il colloquio con la cultura, con gli altri cristiani, e le diverse religioni. E riuscendo sempre, a ben vedere, anche nei momenti più critici come dopo Ratisbona, a segnare piccoli passi in avanti.


LUIGI ACCATTOLI
Corriere della Sera

L’intento di papa Benedetto è di continuità con Giovanni Paolo accompagnata da piccoli aggiustamenti ottenuti per riduzione delle attività papali e concentrazione sul più importante. Segnalo cinque aggiustamenti: riduzione dei messaggi al mondo e delle attività di governo della Chiesa, sobrietà nella predicazione morale (specie in quella sessuale), concentrazione sui "valori non negoziabili" e sulla figura di Gesù.

La riduzione dei messaggi al mondo comporta un calo di attenzione ai temi della giustizia, della pace, dell’ecologia e dei diritti umani. Parlando meno del "servizio all’uomo" e più insistentemente della difesa della vita e della famiglia il Papa teologo sta rendendo più forte – o meglio percepibile all’esterno – il conflitto Chiesa-mondo e la tendenza a marcare l’identità cattolica.

Il Papa riceve di meno le autorità statali e i diplomatici e dedica il tempo così risparmiato agli incontri con i vescovi, alla preparazione di catechesi e omelie a forte contenuto biblico e teologico, alla stesura di una grande opera sulla figura di Gesù.

Egli riconduce l’immagine papale al rigore magisteriale della tradizione, riducendo l’estroversione comunicativa che aveva tanto caratterizzato Giovanni Paolo II, ma senza rinunciare alla libertà personale che il Papa polacco si era conquistato. Rivendica con la stessa decisione del suo predecessore il diritto a essere sé stesso e pubblica l’opera su Gesù firmandosi come "Joseph Ratzinger-Benedetto XVI".


ROBERTO MONTEFORTE
L’Unità

All’Angelus o all’udienza del mercoledì folle di fedeli scandiscono il suo nome. Sarà il Papa dei "concetti" ma, va riconosciuto, Benedetto XVI è arrivato al cuore del suo mondo. Pare proprio che la sua dolcezza, il rigore del suo messaggio abbiano conquistato. È il pastore che offre conforto e identità al suo gregge. Che vuole riportare rigore teologico e ordine nella sua Chiesa. Ma con uno sguardo rivolto all’indietro, al Concilio Vaticano II e oltre. Impregnato di nostalgia per la sacralità del canto gregoriano e della Messa in latino. Si è misurato con l’eredità di Karol Wojtyla. Una gestione attenta e solitaria quella di papa Benedetto, ora mitigata dal nuovo segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Va avanti la riforma di curia. Apre alla Chiesa dell’America latina e dell’Asia. Ma la priorità assoluta pare essere il confronto con la modernità. Con l’obiettivo di ridare identità morale all’Europa, continente smarrito, cuore del cristianesimo. Un passaggio essenziale per reggere il confronto planetario con l’islam. Da qui la polemica martellante verso il relativismo etico che ha finito per rendere più difficile il dialogo con il mondo laico. Sconta il rischio delle incomprensioni, il Papa teologo. Come con quel discorso di Ratisbona che ha infiammato il mondo islamico.

Eppure un "gesto" inatteso come la preghiera nella moschea Blu di Istanbul ha spento quell’incendio. Una Chiesa che si erge come l’unica depositaria della tavola dei valori naturali rischia di allontanare invece di avvicinare proprio chi spera di averla vicina nei drammi della vita, con misericordia, carità e compassione. Che sappia dare speranza e denunci le ingiustizie che offendono l’uomo. Brucia ancora quel portone di una chiesa sbarrato alla salma di Piergiorgio Welby.


MARINA RICCI
Tg5

Le pietre miliari di questi due anni di Pontificato, in assoluta continuità con il precedente, sono l’enciclica Deus caritas est e il discorso di Ratisbona. Benedetto XVI è un autentico figlio della Vecchia Europa, di cui ama la storia, compresa la classicità precristiana, perché riconosce in essa l’esempio più eclatante della feconda azione vivificatrice dell’avvenimento cristiano, che ha salvato le conquiste dell’uomo greco e romano, la razionalità e la moralità, innestandole sul tronco vivo di Cristo. Il Papa vede allo stesso tempo che proprio sul suolo europeo, fecondato per secoli dal Verbo cristiano, si affacciano oggi, nel modo più minaccioso, i pericoli per l’umanità intera, innanzitutto il rifiuto cattivo di Dio e, per sua conseguenza, la devastazione dell’umano, la dissoluzione della sua socialità naturale (dalle sane relazioni familiari alla pace tra i popoli), l’uso faustiano delle biotecnologie, la dissennata gestione della creazione.

È sempre sul terreno europeo che Benedetto XVI si sta prodigando con un’azione profonda e spesso poco visibile – ma presto ne vedremo i frutti – alla ricomposizione dell’unità dei cristiani. Infine Benedetto XVI si sente leale interlocutore anche di quegli spiriti europei privi della dimensione religiosa nel loro orizzonte. A essi propone di dialogare a tutto campo, esigendo niente più che una comune, aperta ricerca della verità. Per tutte queste ragioni Benedetto XVI – saggio cultore della tradizione, profetico ammonitore di rischi futuri, fermo pastore nel presente – sa parlare all’umanità intera, non solo a quella europea. In Italia, disperdere questa occasione di dialogo nella ristrettezza di polemiche ripetitive e ormai stantie sulle presunte ingerenze della Chiesa e sui costumi sessuali degli italiani è davvero un gran peccato.


FRANCA GIANSOLDATI
Il Messaggero

Se ai tempi di Giovanni Paolo la folla arrivava in Vaticano per "vedere" il Papa, adesso si riversa a San Pietro soprattutto per "sentire" Benedetto XVI. Al centro della sua missione il Papa teologo ha collocato la predicazione. Usa il suo ragionare cristallino e lineare per fare riscoprire all’uomo contemporaneo distratto e disorientato la chiave di una felicità vera, non effimera.

La risposta della gente non s’è fatta attendere. Sin dall’inizio è accorsa sempre più numerosa ad ascoltare catechesi, Angelus, omelie. Lui, il Papa tedesco, mite e schivo, persino goffo e impacciato nei gesti, riesce a sprigionare con la parola una grande forza. Cattura l’attenzione.

Benedetto XVI è il Papa del ragionamento. Parla all’intelletto per arrivare al cuore dell’interlocutore. Una delle parole che usa con maggior frequenza soprattutto quando improvvisa a braccio è "gioia’’. La "cioia" della fede, come la pronuncia col suo accento marcatamente tedesco, la bellezza del cristianesimo sono i fili coi quali intesse i suoi interventi e coi quali ha ricamato la sua prima enciclica: Deus caritas est, "Dio è amore". L’attuale Pontificato è marcato dalla predicazione più che dall’azione di governo che Benedetto XVI sembra voler esercitare con una certa parsimonia. Pochi viaggi, limitate uscite pubbliche, scarse iniziative diplomatiche sulla scena internazionale.

Nel privato ha mantenuto, nel limite del possibile, i ritmi dell’intellettuale di un tempo, le ore per lo studio e la scrittura, le passeggiate nei giardini. Ogni decisione, dalle nomine ai progetti di lavoro, è meditata a lungo. Chi si aspettava una rivoluzione in curia appare deluso. Ma ciò che interessa a papa Ratzinger è un’altra rivoluzione. Nei cuori.


CARLO DI CICCO
Agenzia Asca

È stato da subito un pontificato autorevole e non autoritario. E non era facile fondare questa impressione con alle spalle un Pontificato così lungo e popolare come quello di papa Wojtyla e la fama, per vero immeritata, di essere uomo intransigente e antimoderno.

In realtà egli si è mostrato con canoni totalmente diversi rispetto alle attese: è apparso un Papa mite, e non autoritario. Si pensi alla paziente tessitura per operare i necessari cambiamenti di curia o al rispettoso dialogo con i vescovi nel sinodo ma anche nelle visite ad limina e negli incontri occasionali. Si pensi al rapporto libero con i media che hanno faticato a capirlo, ma verso i quali non ha mai mostrato asprezza o ritorsione. Benedetto XVI è apparso infatti più un fratello che un padre. Egli intende il suo ruolo principalmente come un servizio alla fede e all’unità delle Chiese e si definisce sempre "successore di Pietro", in prima fila nell’amore a Cristo. Papa Ratzinger ha ricondotto il papato a ruolo di animazione e non di centralità della fede: il centro è e deve restare il Dio di Gesù Cristo che è Dio d’amore. Le più belle parole e le più profonde meditazioni Benedetto XVI le ha riservate a Dio. Sembrerebbe ovvio, una "non notizia" per un Papa. E invece egli, nel tempo della comunicazione, sta adoperandosi fortemente perché Dio torni la notizia centrale nella vita della gente e negli intrecci quotidiani della politica e dell’economia. È una proposta che va suggerendo, non imponendo, poiché nello spirito conciliare papa Ratzinger non gioca al dialogo ma lo ritiene la via maestra del consenso alla verità. L’identità cristiana è identità aperta al dialogo, non cultura dell’assedio.


MARCO POLITI
La Repubblica

Forse è troppo presto per tracciare un bilancio, seppur provvisorio, dei due anni di Pontificato ratzingeriano. Tutto appare ancora in transizione. Finora Benedetto XVI ha prodotto principalmente un’enciclica – molto pregnante – sulla centralità dell’amore nella fede cristiana, un documento di gran rigore spirituale sull’Eucaristia, molti importanti discorsi. Mancano atti di governo, che segnino uno spostamento in avanti nella situazione del cattolicesimo nel mondo contemporaneo. Sul piano esterno non riesce a partire il negoziato con la Cina, e il dialogo con gli Ortodossi procede secondo i ritmi lenti delle commissioni di teologi. Probabilmente è necessario, ma l’impressione è di una navigazione estremamente lenta.

Sul piano interno prevale il rinvio rispetto all’esigenza di prendere di petto la questione dei sacerdoti assolutamente insufficienti rispetto al popolo cattolico nel mondo, il nodo dei divorziati risposati, il problema della validità del matrimonio sacramentale. Suscita interrogativi l’imminente equiparazione della Messa post-conciliare con il rito di Pio V: non si tratta del latino, ma di due visioni diverse.

Accenni di novità emergono in tema di collegialità con una maggiore corresponsabilizzazione del Collegio cardinalizio e la possibile riforma del sinodo dei vescovi. Manca, rispetto all’era Wojtyla, il tema dell’autocritica – oggi cancellato – e della pari dignità (cosa diversa dalla pari verità) delle religioni abramitiche. E affiora molto spesso una visione della società contemporanea come prevalentemente nemica del cristianesimo. Eppure l’idea dello stato d’assedio non ha mai portato fortuna al cattolicesimo.


ALDO MARIA VALLI
Tg3

Al centro del magistero di Benedetto XVI c’è una domanda: chi è l’uomo? La risposta, contenuta soprattutto nella Deus caritas est, è che l’uomo è una creatura voluta da Dio per amore, un amore che è chiamato a sua volta a ricambiare e diffondere. Ma la vera "battaglia" ingaggiata dal Papa riguarda la ragione umana. Per Ratzinger, infatti, lo spazio della razionalità non si esaurisce con ciò che è sperimentabile ma comprende anche la sfera trascendente. L’indagine su sé stesso e sul significato del proprio essere porta a fare i conti con l’ipotesi Dio, che il Papa chiede di non eliminare a priori ma di indagare in virtù di quella razionalità che è pienamente umana quando non è mutilata dalla pretesa positivistica.

È un discorso che il Papa ha svolto soprattutto nella lezione tenuta a Ratisbona. Interpretato in chiave antiislamica per via della citazione riguardante Maometto, il pensiero del Papa in realtà è rivolto alla cultura occidentale e in particolare europea, che a suo giudizio ha colpevolmente abbandonato l’ipotesi Dio con drammatiche conseguenze sul piano morale. Per Benedetto, infatti, eliminare Dio dall’orizzonte conoscitivo vuol dire rendere l’uomo schiavo di sé stesso, perché quando ha come unica misura l’uomo, la libertà è falsa e apre la porta all’uso strumentale dell’uomo.

Gli incessanti appelli di Benedetto per il rispetto della vita dal concepimento alla morte naturale, per la difesa della famiglia fondata sul matrimonio e per la libertà religiosa vanno inquadrati all’interno di questa cornice, che comporta un dialogo serrato con la cultura secolarizzata. Il contrasto a tratti è aspro, ma il Papa non vuole annacquarlo. Intervenendo nel dibattito pubblico, ha detto a più riprese, la Chiesa non difende interessi propri ma l’identità della persona in quanto creata a immagine di Dio. Comunque la si pensi, c’è da riflettere. Per tutti.


RAFFAELE LUISE
Giornale Radio Rai

A due anni dall’inizio del suo Pontificato, i giudizi su Benedetto XVI sono ancora quanto mai divergenti, e questo ricorda quanto accadde nei primi anni di Giovanni Paolo II, quando si parlava della "schizofrenia" del Papa polacco, da una parte visto come restauratore all’interno della Chiesa e nella dottrina, e dall’altra quale progressista nel suo Magistero verso il mondo.

Anche su papa Benedetto ci si è divisi. Da una parte si sottolinea l’aspetto spirituale del pastore proteso a rilanciare l’identità e la forza spirituale del cristianesimo, riportato vigorosamente al suo centro che è Cristo con l’annuncio dell’amore. Da qui la bellisssima enciclica Deus caritas est che rimane l’intervento magisteriale più forte e denso di futuro di papa Benedetto. E io personalmente desidero sottolineare questo aspetto del Pontificato di Ratzinger che mi colpisce con particolare forza, perché il cristianesimo ha bisogno di tornare al suo centro per affrontare le sfide esigenti e irrinunciabili del dialogo intereligioso e con il mondo. Ma proprio su questo punto si sottolinea, dai più, il pessimismo che sembra caratterizzare in Ratzinger l’impostazione del rapporto tra Chiesa e mondo.

Fa inoltre problema il ripetuto accento posto da papa Benedetto sui temi etici sensibili, e sui cosiddetti valori "non negoziabili". Una formulazione "curiosa" quest’ultima per una Esortazione apostolica post-sinodale come quella sull’Eucaristia. E lascia, inoltre, perplessi quel reiterato sottolineare l’incontro del Vangelo con la filosofia greca del logos. Come se, come ebbe a dire una volta Raimon Panikkar a Paolo VI, per essere cristiani si debba necessariamente essere spiritualmente semiti e intellettualmente greci. Una formulazione nella quale è difficile si possano riconoscere i due terzi delle culture umane, soprattutto in Asia, in Africa e anche in America latina, che rimane il luogo di massima espressione e creatività del cristianesimo.

Ecco, io credo, che tra questi due aspetti del Pontificato ci siano un’articolazione e un dinamismo destinati a svilupparsi nel tempo e a cui dobbiamo guardare con attenzione. Il pontificato, già così ricco e con i chiaroscuri che ho cercato di sintetizzare, è solo ai suoi inizi e l’augurio sincero, da giornalista e da cattolico, è che sempre più si affermi l’aspetto spirituale di questo Papa predicatore, che accanto al prezioso carisma intellettuale che gli conoscevamo da cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha saputo mostrare un’altrettanto preziosa ricchezza di spiritualità e di interiorità orante, che spesso sa farsi mistica.


ANDREA TORNIELLI
Il Giornale

Nell’intraprendere «il suo ministero il nuovo Papa sa che il suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo». Sta in queste parole, pronunciate nella Sistina all’indomani dell’elezione, una delle chiavi di lettura per comprendere lo stile semplice e misurato di Benedetto XVI.

Joseph Ratzinger è stato considerato dai suoi elettori l’«antidoto» migliore contro il relativismo che caratterizza l’Occidente, e certo la difesa dei valori «non negoziabili» lo vede impegnato in prima linea. Ma il cuore del suo messaggio, che passa attraverso le omelie, le catechesi del mercoledì, i discorsi a braccio durante gli incontri (indimenticabile quello con i bambini della Prima Comunione) è la proposta del cristianesimo come bellezza e gioia, un’esperienza semplice, un’amicizia che accompagna la vita quotidiana. Non è un caso che nelle prime righe dell’enciclica abbia voluto ripetere che il cristianesimo è innanzitutto un avvenimento di grazia: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». È stato detto, confrontandolo con il predecessore, che Benedetto XVI comunica meno con i gesti e più con la parola. Ciò che è accaduto nella moschea Blu di Istanbul mi sembra debba far riformulare anche questo giudizio.


LUCIO BRUNELLI
Tg2

Ricordo l’impressione di quei primi giorni. Il maglioncino nero, da vecchio parroco in pensione, che spuntava sotto le maniche dell’abito pontificale. Quella tunica bianca così vistosamente corta, l’aria un po’ goffa nei movimenti. Eppure proprio questa spontanea noncuranza dell’immagine me lo faceva apparire simpatico. Meravigliosamente controcorrente. E poi i primi discorsi. Così densi, mai banali. Si tornava – noi cronisti – a leggere e a studiare. Non bastava più solo guardare. L’attenzione dal cantante tornava alla canzone. Già, ma quale canzone?

Vedo due "anime" convivere in questo inizio di Pontificato. Una è l’anima di un cattolicesimo di minoranza ma battagliero, impegnato in una sorta di "scontro finale" per l’egemonia culturale dell’Occidente. Un cattolicesimo che inevitabilmente parla in prima battuta all’establishment intellettuale e politico, ma ai "lontani" può dare l’impressione che la Chiesa voglia ottenere per legge quello che non riesce a ottenere più con la predicazione.

L’altra anima è quella di un cristianesimo dell’essenziale, tutto puntato sul fascino di Cristo e sulla ricchezza di una tradizione con troppa polvere addosso. Una Chiesa umile, consapevole che l’uomo di oggi percepisce la fede e la morale cattolica come "qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere". E dunque desiderosa unicamente di testimoniare – per grazia ricevuta – la verità, la ragionevolezza esistenziale, il piacere e la gioia (anzi la "cioia") dell’essere cristiani. Queste due anime forse sono inseparabili nella concezione del teologo Ratzinger e forse non è giusto separarle. Eppure credo che sia la seconda l’anima più vera.


FABIO ZAVATTARO
Tg1

La parola-chiave del Pontificato di Benedetto XVI è: "Seguimi". L’ha usata, Benedetto, per accompagnare papa Wojtyla nelle esequie segnate dal vento che sfoglia le pagine del Vangelo. E "Seguimi" è la parola che ben si addice all’umile operaio nella vigna del Signore.

Così il suo essere Papa è continuità con il suo predecessore, del quale era stato per vent’anni stretto collaboratore, e insieme compimento del cammino avviato da Karol Wojtyla: spetterà a lui, dunque, condurre a sintesi le tante aperture wojtyliane, a lui che è l’ultimo Papa ad aver vissuto direttamente il Concilio Vaticano II. Un Papa che guarda al Vecchio Continente perché è convinto che in queste terre si consuma una battaglia decisiva per il futuro della Chiesa: Wojtyla l’aveva chiamata la nuova evangelizzazione. Lui, papa Benedetto, parla di dialogo, necessario e urgente, tra fede e ragione. Innanzitutto per risvegliare l’Occidente, perché riscopra quelle radici cristiane che hanno fatto crescere l’Europa.

Dialogo con le altre fedi, perché insieme portino al mondo il messaggio di pace e di riconciliazione. Dialogo con l’islam, che lo ha portato a entrare nella moschea di Istanbul dopo le parole pronunciate, e male interpretate, di Ratisbona, una visita che si sintetizza in una frase che rimane scolpita nella memoria: «Sostando qualche minuto in raccoglimento in quel luogo di preghiera, mi sono rivolto all’unico Signore del cielo e della terra, Padre misericordioso dell’intera umanità».

E in quel "Seguimi" c’è anche quello che Benedetto XVI chiede alla Chiesa.


ANTONIO PELAYO
Stampa estera di Italia

È il Papa che non avrebbe dovuto essere eletto, dice il titolo alquanto provocatorio di un libro pubblicato in Francia da Jean-Marie Guenois, vaticanista del quotidiano cattolico La Croix. Il cardinale Ratzinger aveva dichiarato la sua volontà di ritirarsi in Baviera per studiare al momento della pensione. Ma già prima la testardaggine di Wojtyla glielo aveva impedito, mantenendolo sine die sul fronte della Congregazione per la dottrina della fede. Chi sa se questo non fosse stato un modo da parte del Papa polacco per indicare in qualche modo il suo delfino…

In ogni caso, da due anni alla guida della Chiesa c’è un "lavoratore delle vigna del Signore", dotato di straordinaria intelligenza, di una preparazione teologica senza pari e di una bontà che è diventata la sua caratteristica più visibile. Per afflizione dei sui detrattori Raztinger è molto lontano dall’essere un Papa "martello degli eretici", che qualcuno aveva annunciato. Così come è svanita l’idea che fosse un Papa freddo, incapace di suscitare nella gente affetto e vicinanza. Lo dimostrano le cifre dei pellegrini a Roma, quelle nei suoi viaggi. In due anni ci ha sorpreso, come quando ha pregato nella moschea di Istanbul o quando ha ricevuto Hans Küng.

Succedere a Giovanni Paolo II è una responsabilità che nessuno si sarebbe voluto assumere. Lo ha fatto chi è stato per oltre 20 anni suo collaboratore perfetto. Ed è la ragione per cui tutti dobbiamo ringraziare la Provvidenza.


GIOVANNA CHIRRI
Ansa

In confessionale in una San Pietro gremita di giovani che vogliono confessarsi. In preghiera nella moschea Blu di Istanbul, a riannodare il dialogo con l’islam dopo i fraintendimenti di Ratisbona. Sono due immagini forti del Pontificato, eppure dopo due anni dall’elezione quello attuale resta un "Papa da leggere e ascoltare" più che da guardare: il Papa delle parole dense di senso, dei discorsi mai banali, e anche per questo esposto a letture sbagliate, superficiali quando non deliberatamente distorsive.

Con la Deus caritas est ha tracciato la rotta: l’amore di Dio che dà identità all’uomo e lo spinge all’amore per gli altri, che diventa solidarietà e giustizia. Pochi viaggi perché, ha spiegato, è anziano e deve fare i conti con le sue forze. Ma ben scelti: Colonia per la Gmg, Polonia dove ha tagliato il cordone ombelicale con Wojtyla, Valencia per tendere la mano alle famiglie, la Baviera alle radici della propria vita e al centro di una società secolarizzata. La Turchia per l’abbraccio con gli ortodossi e dove ha saputo ricucire con l’islam.

Ma il Papa teologo ha fatto molto anche per scegliere con cura la classe dirigente della Chiesa nel mondo, e intanto si è costituito uno staff di fiducia che condivide le sue priorità pastorali.

Come accadde al primo Wojtyla, i media non lo capiscono molto, ma col tempo il suo stile e le sue parole potrebbero essere accolte dall’opinione pubblica, come già lo sono da chi è disposto a considerarle senza pregiudizi.


Famiglia Cristiana n. 15

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