17 ottobre 2007

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«Due le condizioni per far morire Eluana»

Secondo la Cassazione sono l’accertamento dell’impossibilità di un recupero di coscienza e della volontà della paziente di non ricevere l’attuale trattamento

DA ROMA PIER LUIGI FORNARI

Ci sarà un nuovo processo sul caso di Eluana Englaro, la giovane in coma dal 1992 a seguito di un incidente stradale. Lo ha comunicato ieri la Cassazione, con una nota redatta dal primo pre­sidente, Vincenzo Carbone. La deci­sione di Piazza Cavour ha annullato con rinvio il decreto con cui la Cor­te d’Appello di Milano, nel dicembre 2006, aveva respinto la richiesta del padre di Eluana di interrompere l’a­limentazione artificiale che tiene in vita la ragazza. Inoltre la Cassazio­ne, accogliendo i ricorsi di Beppino Englaro e del curatore speciale, non ha condiviso le conclusioni del so­stituto procuratore generale Giaco­mo Caliendo che, nella sua requisi­toria all’udienza del 4 ottobre scor­so, ne aveva sollecitato il rigetto.
Pur ammettendo la prevalenza del diritto alla vita e che idratazione e a­limentazione non costituiscono ac­canimento terapeutico, per la Su­prema Corte il giudice può autoriz­zarne l’interruzione nel caso si dia­no allo stesso tempo due circostan­ze: la condizione di stato vegetativo del paziente sia giudicata irreversi­bile «secondo standard scientifici in­ternazionalmente riconosciuti», e sia univocamente accertato, sulla base del vissuto del paziente, dei suoi convincimenti etici e religiosi, che egli non avrebbe prestato il suo con­senso alla continuazione del tratta­mento.
Ma già il primo vincolo imposto da Piazza Cavour risulta di improbabi­le verifica, perché, come constata Vincenzo Carpino presidente del­l’Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani (Aaroi), «non esistono criteri precisi per accertare con sicurezza quando si verifica u­na situazione di stato vegetativo ir­reversibile ». Appare di difficile deci­frazione anche la seconda condizio­ne richiesta: la volontà manifestata della ragazza sulla continuazione delle terapie quando era cosciente, che dovrà essere oggetto dell’accer­tamento da parte del giudice di rin­vio (ossia una diversa sezione della Corte d’Appello di Milano). Difficile anche perché nulla assicura che coincida con i suoi attuali desideri. Insomma la Cassazione afferma che la Corte d’Appello ha «omesso di ri­costruire la presunta volontà del pa­ziente », rimproverandole che «si è limitata» a osservare che i convinci­menti espressi da Eluana al padre ed alcuni testimoni «manifestatisi in un tempo lontano, quando ancora la ra­gazza era in piena salute, non pote­vano valere come manifestazione di volontà idonea, equiparabile a un dissenso in chiave attuale in ordine ai trattamenti praticati sul suo cor­po ». Eppure questa constatazione della Corte di Appello non sembra peccare di un limite casuale, deri­vante da scarso impegno; ma strut­turale, per lo scarto di tempo e di si­tuazione di per sé incolmabile.
Ma quello che più preoccupa è il fat­to che alcune parti della argomen­tazione dei giudici sembrano rite­nere sufficiente la volontà del pa­ziente per decidere un mortale di­stacco della spina. In base al pluralismo dei valori, che sarebbe al centro della nostra Costi­tuzione, la Cassazione afferma, in­fatti, che «deve escludersi che il di­ritto alla autodeterminazione tera­peutica del paziente incontri un li­mite allorché da esso consegua il sa­crificio del bene della vita». Per Piaz­za Cavour quando «il rifiuto» delle terapie «sia informato, autentico ed attuale non c’è possibilità di disat­tenderlo in nome di un dovere di cu­rarsi come principio di ordine pub­blico ». E tutto ciò non dovrebbe es­sere scambiato con un’ipotesi di eu­tanasia.
La Corte lamenta anche una «attua- le carenza di una specifica discipli­na legislativa», che fornisca indica­zioni da seguire nel caso di richiesta di sospensione di cure provenienti dal legale rappresentante di un ma­lato in coma e senza speranza di mi­glioramenti, esprimendo la neces­sità «anche in tale situazione» di vuo­to normativo, di dare una «imme­diata tutela» al «valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti».
Dalla lunghezza delle motivazioni traspare secondo Carlo Casini, pre­sidente del Movimento per la Vita «l’imbarazzo» dei giudici della Cas­sazione, visto che più volte è ripetu­ta l’affermazione del diritto alla vita in misura uguale «ad ogni essere u­mano anche se debole, malato, in­capace di intendere e volere o pros­simo alla morte». Inoltre dalla sen­tenza emerge la inutilità di una leg­ge sul testamento biologico, perché secondo i giudici già ora, infatti nul­la impedisce di formulare la volontà del malato, tant’è vero che la Cassa­zione chiede una indagine su tale volontà. «È dimostrato così» con­clude Casini «il carattere ideologico del testamento biologico volto ad a­prire una breccia in favore dell’eu­tanasia ».

© Copyright Avvenire, 17 ottobre 2007


Una sentenza che divide

Binetti (Dl): la morte sia naturale.Villetti (Rnp): ma quella non è vita. Burani (Fi): far leggi non spetta ai giudici

DA ROMA LUCA LIVERANI

La sentenza della Cassazione, possibilista sul­l’interruzione dell’alimentazione di Eluana Englaro, infiamma di nuovo il dibattito tra i le­gislatori. E spacca in modo trasversale schieramen­ti e partiti, dentro il Pd così come in Forza Italia.
«Alla vita va dato un rispetto assoluto – dice Paola Binetti (Dl) – perché come dice Socrate 'tutti gli uo­mini sono mortali'. Anche Eluana lo è, quindi è de­stinata a morire, ma di morte naturale. In attesa del­la decisione della magistratura nulla va fatto per ac- celerare la morte». Molti i commenti da Forza Italia. «Decisione allarmante – dice Domenico Di Virgilio – perché le due condizioni poste sono astratte e sog­gettive ». «Ambigua ed evasiva – chiosa Maria Bura­ni Procaccini – non spetta ai giudici varare le leggi». E Isabella Bertolini: «Si apre la strada alle strumen­talizzazioni dei paladini della cultura della morte».
È sempre da Forza Italia che arrivano anche i com­menti di chi preme per una legge «che privilegi la li­bera volontà dei soggetti e stabilisca quando c’è ac­canimento terapeutico», come chiede Chiara Mo­roni. Richiesta identica dall’altra parte dell’emici­clo: Silvana Mura (Idv) parla di «vuoto normativo da colmare in materia di testamento biologico e fine vita». Ed è sempre nel centrosinistra c’è chi è in di­saccordo con la Binetti: «Eluana deve morire di mor­te naturale?», chiede Roberto Villetti (Rnp). «Il pro­blema è che quella che si conduce deve essere una vita, e nel caso della ragazza purtroppo non lo è». «La legge sul testamento biologico sarebbe un atto di ci­viltà », commenta Tommaso Pellegrino ( Verdi). I­gnazio Marino (Ds) si chiede «a cosa serve il Parla­mento ». E aggiunge: nessun medico potrà mai dire che lo stato vegetativo non è irreversibile, ma «una vasta esperienza a livello mondiale» ne sostiene la «ragionevole irreversibilità».

© Copyright Avvenire, 17 ottobre 2007


Il geriatra Guizzetti: pericoloso il criterio della qualità della vita per stabilire la possibilità di sospendere cure adeguate

DA MILANO ENRICO NEGROTTI

«Sono persone vive, non vanno abbandonate»

« La mia principale preoccupazione è stabilire una rela­zione di cura con queste per­sone. Bisogna che non siano abbandonati, né lasciare che si sentano tali». Giovanni Bat­tista Guizzetti, medico geria­tra che dirige da 11 anni il re- parto Stati vegetativi dell’Isti­tuto Don Orione di Bergamo, vede implicazioni pericolose dalla sentenza della Cassazio­ne sul caso Englaro: «Mi in­quieta che venga stabilito co­me prioritario un criterio di va­lutazione della qualità della vi­ta per stabilire la sospensione di cure adeguate e la sopravvi­venza di una persona».

La Cassazione stabilisce che, a certe condizioni, è possibile «staccare la spina» alle perso­ne in stato vegetativo. Come si sente chi li cura tutti i gior­ni?

Prima di tutto vorrei puntua­lizzare che non si tratta di stac­care spine, ma di far morire u­na persona di fame e di sete. E con l’aggiunta di un po’ di morfina perché non soffra. Co­me è stato per Terri Schiavo. Credo sia un messaggio deva­stante. Con queste persone io e la mia équipe cerchiamo di stabilire una relazione di cura: anche se è ignoto il livello di e­motività dei nostri pazienti, ve­do che cambiano espressione quando li accudiamo. Mi pare che la sentenza contrasti an­che con i prin­cipi enunciati dal Comitato nazionale per la bioetica che aveva parlato di persone fra­gili ai cui biso­gni occorre dare risposta.

Si può stabili­re in modo certo che un paziente non re­cupererà mai la coscienza?

Non esistono esami strumen­tali sicuri per dare un verdetto definitivo, lo stato vegetativo rimane sempre una prognosi che si basa su principi proba­bilistici. È pressoché impossi­bile per un neurologo indica­re valori certi per indicare che non vi sarà mai per un pa­ziente il recu­pero della co­scienza: non basta nemme­no l’elettroen­cefalogram­ma. Detto questo si deve ammettere che, sulla base dell’esperienza, è noto che più passano gli anni e più le pos­sibilità di recupero della co­scienza si riducono: dopo 10 anni paiono inesistenti.

Cosa implica far riferimento al recupero della coscienza per ammettere un’eventuale sospensione dell’alimenta­zione?

Significa introdurre un chiaro riferimento alla qualità della vita: si mostra di non conside­rarle a pieno titolo persone con diritto alla vita. La mancanza della coscienza poi può essere estesa ad altri pazienti termi­nali, Alzheimer, Parkinson. E una volta stabilito un criterio di questo genere, potrebbe al­largarsi ad altre condizioni. U­na china molto scivolosa.

Come valuta il riferimento al­la volontà della persona e­spressa prima dell’incidente?

Un criterio discutibile, perché è diverso parlare da sani o da malati. Come dimostra il caso recentemente emerso dell’on­cologa Sylvie Menard, che era favorevole all’eutanasia e ha cambiato idea dopo essersi ammalata lei stessa. Peraltro credo che il punto cruciale do­vrebbe essere un altro.

Quale?

Mi sembra paradossale che ci si occupi tanto di consentire a qualcuno di terminare la vita, mentre tutti i giorni ricevo se­gnalazioni di familiari di pa­zienti in stato vegetativo che vengono dimessi dagli ospe­dali e non sanno letteralmen­te dove sbattere la testa per far assistere i loro congiunti.

I pubblici poteri (giuridico, po­­litico, sanitario) si vogliono oc­cupare di questa battaglia di civiltà (garantire la possibilità di cure) o solo di favorire una battaglia per far morire le per­sone, magari che sembrano un peso per i bilanci sanitari?

«I familiari spesso non sanno dove far assistere i loro parenti in stato vegetativo: garantire questo diritto mi sembra prioritario»

© Copyright Avvenire, 17 ottobre 2007

1 commento:

Anonimo ha detto...

"...mentre tutti i giorni ricevo se­gnalazioni di familiari di pa­zienti in stato vegetativo che vengono dimessi dagli ospe­dali e non sanno letteralmen­te dove sbattere la testa per far assistere i loro congiunti." purtroppo i media si occupano solo di chi vuole morire o di chi vuole la morte di qualcun'altro mai di chi si aggrappa alla vita anche qualitativamente pessima.