4 ottobre 2007
Card. Barragán: distinguere fra accanimento terapeutico ed eutanasia (attenzione ai titoli fuorvianti del Corriere!)
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Il cardinale e la morte di Wojtyla: rifiutò l'accanimento terapeutico
Lozano Barragán: il Papa non volle ritornare al Gemelli
Mario Pappagallo
MILANO — Accanimento terapeutico, testamento biologico, eutanasia? Cardinale Javier Lozano Barragán che ne pensa?
«No all'accanimento terapeutico, sempre che si definisca quali sono le cure sproporzionate. No netto all'eutanasia... ».
E il testamento biologico?
«Se vuol dire rinunciare all'accanimento terapeutico in quanto tale, non ho obiezioni morali. Ma nella pratica bisogna prendere in considerazione tante condizioni. Non dev'essere un pretesto per l'eutanasia, si deve poter cambiare decisione nel corso della vita, ci dev'essere un fiduciario superpartes (come un notaio per esempio).
Ma gli interrogativi aperti restano molti: chi può giudicare se le cure sono sproporzionate e inutili? Chi decide i confini dell'accanimento? Sono questioni troppo difficili da risolvere concretamente ed è per questo che la Conferenza episcopale italiana (la Cei, ndr) si è espressa contro. Perché, nella realtà, il testamento biologico rischia di trasformarsi in una scorciatoia per l'eutanasia».
Lei condivide questa posizione o si adegua? Il cardinale sorride e replica:
«Domanda furba e intelligente. Io mi attengo alla posizione della Cei, perché ci sono molti nodi ancora da sciogliere».
Il cardinale Lozano Barragán è a Milano per partecipare al convegno sull'«eutanasia in oncologia» organizzato dall'Istituto nazionale dei tumori di via Venezian. È il presidente del Pontificio consiglio per gli Operatori sanitari (per la Pastorale della Salute). Tradotto: il ministro della Salute del Vaticano. È arcivescovo di Zacatecas (Messico), ha 74 anni. Sudamericano?
«Nordamericano », precisa.
Cardinale, ma nel caso di papa Karol Wojtyla, chi ha deciso di non portarlo al Policlinico Gemelli quel 30 marzo 2005 (Giovanni Paolo II è morto la sera del 2 aprile 2005, ndr)?
«Lui. Chiese: "Se mi portate al Gemelli avete modo di guarirmi?". La risposta fu no. Allora replicò: "Resto qui, mi affido a Dio"».
E' un rifiuto all'accanimento terapeutico?
«Sì, nel senso di cure sproporzionate e inutili», dice Lozano Barragán.
Wojtyla forse, attaccato a una macchina, sarebbe sopravvissuto oltre il 2 aprile. Ma ai medici disse: «Al Gemelli mi possono fare cure per guarire? No? Allora, grazie ma io resto nel mio appartamento».
Lozano Barragán nel suo intervento al convegno ha ribadito che la «Chiesa cattolica è sempre contro la cultura della morte, che la vita umana non è negoziabile».
E l'antidoto alla richiesta di morire dei malati?
«Il calore umano e le cure palliative. Ho visto troppi malati morire soli», risponde il ministro della Salute del Vaticano.
E i malati al convegno sottolineano: «È importante far sentire un paziente terminale non un peso per la sanità e la famiglia, ma curarlo per permettergli di essere attivo fino alla fine». Su 40 mila malati oncologici ricoverati all'Istituto nazionale dei tumori negli ultimi 25 anni, solo quattro hanno chiesto di poter ricorrere all'eutanasia. Ma nessuno di questi, alla fine, l'ha affrontata davvero. A raccontarlo è stata l'oncologa Carla Ripamonti: «Di questi quattro, tre hanno cambiato idea non appena è stato possibile controllare meglio il loro dolore. Il quarto paziente invece ha tentato anche il suicidio, ma è stato salvato: soffriva però di una forte depressione, e aveva paura di perdere la vista a causa della sua malattia, e di dover così dipendere dagli altri».
Resta comunque la realtà dei numeri. Un recente sondaggio Ipso indica l'ultimo orientamento degli italiani: il 60% della popolazione «presunta sana» è favorevole all'eutanasia ed oltre l'80% ritiene che «il Parlamento debba discutere nuove norme di legge che prevedano l'eutanasia».
© Copyright Corriere della sera, 4 ottobre 2007
Come vede, caro Pappalardo, al di la' dei sondaggi, ai quali e' facile rispondere quando si e' in buona salute, c'e' il dato reale di chi vive o ha vissuto una situazione drammatica e rifiuta o ha rifiutato l'eutanasia per se' o per i familiari.
Ottima, quindi, la prudenza della Cei e del Parlamento...
Raffaella
LA MALATTIA
E alla fine pensò che non c'era spazio per un Papa attaccato a una macchina
Luigi Accattoli
CITTA' DEL VATICANO — «Sarebbe forse meglio che muoia se non posso compiere la missione affidatami»: così si sfoga papa Wojtyla con il vescovo Stanislaw Dziwisz, suo segretario, il giorno di Pasqua del 2005, dopo che si è affacciato alla finestra e ha tracciato sulla città e sul mondo una benedizione muta, non riuscendo a parlare. Era la domenica 27 marzo e sarebbe morto sei giorni dopo, il sabato 2 aprile. La crisi decisiva— con febbre a 39,6˚e collasso cardiocircolatorio— è ancora lontana, arriverà poco dopo le 11 di giovedì ma già il Papa ha chiaro in mente che non vuole una sopravvivenza assistita. «Non c'è spazio per un Papa emerito» aveva detto una volta e ora sta rendendosi conto che «non c'è spazio per un Papa attaccato a una macchina». La gravità della propria situazione medica l'aveva scoperta il 23 febbraio, quando una crisi di soffocamento aveva indotto i collaboratori a dargli l'Unzione degli infermi e aveva aiutato i medici a convincerlo della necessità di tornare al Gemelli, che aveva lasciato appena due settimane prima. E' il decimo ricovero da Papa: gli viene praticata una tracheotomia per l'inserimento di una cannula che porti aria ai polmoni. Per una decina di giorni continua ad alimentarsi per bocca, ma ci riesce sempre di meno e sempre più incerti si fanno i suoi progressi con gli esercizi di «fonazione»: cioè per imparare a parlare nonostante la cannula. Dovrebbe — secondo una previsione iniziale — lasciare l'ospedale il 10 marzo ma i medici sono costretti a tenerlo lì ancora per tre giorni essendo divenuta grave la difficoltà di deglutire e dunque di alimentarsi. Già in questa fase finale del ricovero devono ricorrere al sondino nasogastrico per alimentarlo. Porterà il sondino in continuità dal 21 marzo: glielo tolgono quando si affaccia. La notizia che lo sta usando viene data solo il 30 marzo, dopo un'ultima apparizione muta alla finestra. Il «brivido squassante» della crisi che lo porta alla morte, dovuta a un'infezione alle vie urinarie, arriva all'indomani.
© Copyright Corriere della sera, 4 ottobre 2007
Titolo fuorviante come quello dedicato all'intervista al cardinale Barragán.
R.
«Ero per l'eutanasia, ora ho il cancro E voglio vivere fino all'ultimo giorno»
La svolta dell'oncologa Ménard. Medici e religiosi: confronto all'Istituto dei tumori di Milano
Simona Ravizza
MILANO — «Ho il cancro», dice incredula a se stessa. «Ho il cancro proprio io che per trent'anni l'ho studiato per curare gli altri », si ripete ogni secondo. «Ho il cancro e so che sono destinata a morire», è il suo pensiero fisso. La diagnosi che un collega medico le comunica il 27 aprile 2005 risuona come un mantra nella testa di Sylvie Ménard per una settimana: lei, alla guida dell'Oncologia sperimentale dell'Istituto dei tumori di Milano, tra i fiori all'occhiello della sanità a livello italiano, proprio lei improvvisamente si trova a non essere più la ricercatrice dalle 300 pubblicazioni internazionali sulle terapie antitumorali, ma solo una donna di 60 anni, compiuti il 1˚luglio, con un tumore al midollo osseo. E per di più inguaribile. «Sono morta e rinata nello stesso tempo — confessa —. È come se nel mio cervello ci fosse stato un bypass cerebrale».
C'è una nuova Sylvie Ménard oggi. Dopo avere combattuto per tutta la sua carriera per riconoscere ai malati il diritto di morire con l'eutanasia, da due anni e mezzo — meglio da quel 27 aprile 2005 — il medico rivendica con forza il diritto di vivere.
«Adesso che per me la morte non è più un concetto virtuale non ho nessuna voglia di andarmene — dice la ricercatrice mentre mangia tagliatelle ai funghi durante la pausa del convegno sull'Eutanasia in oncologia in via Venezian —. Anche se concluderò la mia vita in un letto con le ossa che rischiano di sbriciolarsi, io ora voglio vivere fino in fondo la mia esistenza».
Appena le comunicano i risultati degli esami («Una forma gravissima di mieloma »), nonostante le sue conoscenze mediche, la Ménard prende in mano un testo scientifico. Lì legge un'altra sentenza choc: «Le statistiche dicono che nel mio caso la sopravvivenza media è di tre anni».
Da quel giorno, e per un bel po', Sylvie rinuncia al suo hobby di piantare fiori nel giardino di casa consapevole che non li avrebbe visti crescere. Iniziano i cicli di chemioterapia, le fanno due trapianti di midollo osseo. Le difficoltà dei pazienti che devono affrontare le liste d'attesa le sperimenta sulla sua pelle, mille dubbi l'assalgono nella scelta dell'ospedale dove farsi curare. «Alla fine ho deciso di restare qui all'Istituto dei tumori — spiega —. Posso avere le stesse terapie che avrei negli Stati Uniti senza fare affrontare a mio marito e a mio figlio un viaggio della speranza». Del periodo trascorso in una camera sterile di via Venezian la Ménard ricorda gli sguardi d'affetto degli amici al di là del vetro: «Perché mai dovrei rinunciare a queste emozioni? Sono stati, comunque, bei momenti».
Da settembre Sylvie Ménard, parigina d'origine, fa parte della «Consulta nazionale dei medici ammalati per la riforma della medicina», insediata da Livia Turco il 6 settembre. Il suo sogno è contribuire a rendere più umana l'assistenza. «Punto di partenza: il ministero della Salute deve mettere a disposizione su Internet una mappa con i centri d'eccellenza dove potersi rivolgersi a seconda del tipo di malattia, con l'elenco dei casi seguiti e delle apparecchiature a disposizione. I pazienti devono potere essere sicuri di avere le migliori cure possibili».
La ricercatrice pensa spesso anche alle parole di Sandro Bartoccioni, un pioniere della cardiochirurgia, ammalato di tumore e scomparso di recente: «La medicina oggi può e deve togliermi il dolore — dice il cardiochirurgo nel libro Dall'altra parte, scritto con altri due colleghi malati, Gianni Bonadonna e Francesco Sartori —. Se non lo fa, io mi ucciderò, ma non sarà un suicidio, sarà un'omissione di soccorso».
La convinzione della Ménard è la stessa: «Uno decide di morire se è solo e soffre come un cane — sottolinea —. È la sconfitta del sistema sanitario, impotente davanti alla sofferenza risolvibile con le cure palliative».
Alle 15 di ieri, camice bianco e capelli sbarazzini, il medico prende la parola nell'aula magna di via Venezian. La ascoltano colleghi di lavoro, ma anche compagni di malattia: «Io di eutanasia non voglio neppure sentire parlare —, dice con la voce ferma —. E del testamento biologico? Da sana l'avrei sottoscritto, oggi l'avrei dovuto stracciare». Da qualche tempo Sylvie Ménard è tornata a gettare semi nel suo giardino. Gli ultimi sono quelli di un albero.
© Copyright Corriere della sera, 4 ottobre 2007
Ecco un'esperienza di vita vissuta! Quante parole inutili si dicono, quanto sono importanti testimonianze come quella della dottoressa Ménard.
Raffaella
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