17 ottobre 2007

Accanimento terapeutico o eutanasia? Il caso di "Eluana Englaro" (2)


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Eutanasia, la Cassazione apre «Quando si può staccare la spina»

Nuovo processo per Eluana. «Accertare stato vegetativo e convinzioni etiche»

Alessandra Arachi

ROMA — La Corte d'appello di Milano dovrà fare un altro processo per Eluana Englaro, la ragazza di Lecco in coma da 15 anni. E l'Italia dovrà fare i conti con la sentenza della Cassazione che quel nuovo processo ha voluto. È scritto chiaro nel dispositivo della prima sezione civile: il paziente non ha il dovere di vivere. O se vogliamo: ha il diritto di sacrificare la sua vita. Con molti paletti, per carità. Ma è la prima volta che la Suprema Corte sancisce che morire può essere un diritto.
È successo ieri. E per spieg are la sentenza (la 21748/07) sono servite sessanta pagine ai giudici togati. Il caso che l'ha scatenata è quello di Eluana: vive da 15 anni in coma vegetativo e suo padre, Beppino, ha scalato tutti i gradi della legge per chiedere di staccare la spina ai macchinari che la tengono in vita. È arrivato in Cassazione, appunto.
Ed è qui che appena dieci giorni fa il procuratore generale si era sgolato in una arringa per chiedere il rigetto del ricorso di papà Beppino. Inutilmente, ha sancito la sentenza di ieri. Perché la Suprema Corte ha deciso che vada rifatto il processo di appello, e pure in una sezione diversa di quella che a Milano aveva deciso che quella spina non si poteva staccare.
Una sentenza coraggiosa. Ma anche molto molto precisa: il paziente, infatti, ha il diritto di morire soltanto se si verificano due requisiti, contemporaneamente. Ovvero: la sua condizione di stato vegetativo deve essere irreversibile, in base a un rigoroso apprezzamento clinico, e non ci deve essere alcun fondamento medico che lasci supporre la benché minima possibilità, sia pure flebile, di un qualche recupero di coscienza. E in più: l'istanza deve essere realmente espressiva della volontà del paziente, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti.
Ha detto anche un'altra cosa questa sentenza della Cassazione, che il ministro Livia Turco ha definito «innovativa ed equilibrata»: l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico non costituiscono, in sé, una forma di accanimento terapeutico. Sono, tuttavia, un trattamento sanitario. E dunque possono essere sospesi. Anche questa è una novità.
Farà discutere questa sentenza dove c'è pure una «bacchettata» al Parlamento: lamenta, infatti, un vuoto normativo in materia. Per questo la Suprema Corte si è sentita di dover dare un'immediata tutela. E per questo ieri si è immediatamente acceso il dibattito. Da una parte c'è chi da tempo va chiedendo una legge sul testamento biologico. I radicali, in prima linea, che ieri hanno fatto sentire la loro voce con Marco Cappato. Ma anche Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia: «Urge una normativa in materia di dichiarazione di anticipata volontà che possa dare piena attuazione all'articolo 27 della Costituzione». E anche Chiara Moroni, di Forza Italia, che ha parlato di «politica codarda», invocando una legge.
Dall'altra parte, nello stesso partito, c'è l'azzurra Maria Burani Procaccini che attacca la sentenza della Cassazione «ambigua e invasiva », insieme con Paola Binetti, senatrice del Partito democratico, che non esita: «Eluana deve morire di morte naturale. A mio parere nulla deve essere fatto per accelerare la morte».

© Copyright Corriere della sera, 17 ottobre 2007


LE REGOLE

I dubbi degli anestesisti: non esistono criteri precisi

ROMA — Non esistono criteri precisi «per accertare con sicurezza uno stato vegetativo irreversibile». Lo affermano gli anestesisti raccolti nell'associazione Aaroi (ospedalieri), presieduta da Vincenzo Carpino.
«Mancano parametri scientifici e quindi protocolli di riferimento — aggiunge il medico —. Parametri precisi esistono invece per stabilire la morte cerebrale, che è situazione ben diversa». Carpino auspica che agli anestesisti-rianimatori vengano indicate regole elaborate da una Commissione appositamente nominata, come è stato fatto in passato per la morte cerebrale «altrimenti andremo avanti a forza di sentenze».

© Copyright Corriere della sera, 17 ottobre 2007


«Parlava del campione di sci in coma Mi disse: non vorrei mai vivere così»

Il ricordo dell'amica. Il papà: giudici umani. Il neurologo: pronto a intervenire

Claudio Del Frate

DAL NOSTRO INVIATO
LECCO — Non una volta sola, ma «più e più volte» Eluana Englaro aveva chiesto di non essere tenuta in vita artificialmente se la vita con lei fosse stata crudele. Francesca Dall'Osso oggi avvocato con studio a Lecco dice proprio così: «Più e più volte». Lei può dirlo sicura perché Eluana è stata la sua compagna di banco al liceo e certe confidenze non si dimenticano. Quei suoi ricordi così nitidi Francesca li ha già messi a disposizione dei magistrati e li ribadisce adesso che la Cassazione ha rimesso in gioco il destino di Eluana. La Corte Suprema ha chiesto che vengano raccolti elementi «chiari univoci e convincenti» a proposito della volontà della ragazza. Ed ecco che proprio le testimonianze, già agli atti del processo, delle amiche di Eluana potrebbero diventare un elemento chiave. «Può sembrare strano che una ragazza di 18 anni pensi a certe cose — ricorda Francesca — ma Eluana era così: talmente amante della vita da non poter immaginare di rimanere inchiodata a un letto d'ospedale».
Non sono circostanze vaghe, quelle che riferisce Francesca Dall'Osso, ma episodi precisi: «Una vicenda che impressionò molto Eluana — sono ancora parole dell'amica — fu quella del campione di sci Leonardo David, in coma dopo una caduta in gara. "Io non vorrei mai sopravvivere così" mi disse una volta che parlammo di quella vicenda ». Un pensiero gettato lì in tempi lontani, dettato dall'emozione per un fatto di cronaca?
«No, quando un suo amico morì in un incidente con la moto, lei fu chiara: "Meno male che non è rimasto in coma", mi confidò».
Altri episodi sono contenuti nel fascicolo processuale; c'è quella volta, durante una lezione al liceo (in un istituto religioso di Lecco), in cui l'insegnante raccontò di una donna che, pur imprigionata dentro un polmone d'acciaio, diceva di essere felice. «Io non potrei mai essere felice così», commentò Eluana. «Mi sembrano manifestazioni di una volontà netta e che adesso la Corte d'Appello di Milano dovrà riconsiderare — commenta Franca Alessio, legale della famiglia Englaro — non credo sarà necessario aggiungere altre attività istruttorie».
«Io tutte le parole le ho già spese», è la reazione di Beppino Englaro, il papà di Eluana che da anni si batte perché alla figlia venga sospesa l'alimentazione artificiale. «Quello della Cassazione è stato un atto di umanità — dice — e ci riapre il cuore alla speranza. Per me Eluana è morta il 18 gennaio del '92, il giorno dell'incidente che l'ha ridotta come è adesso ». Le foto che ritraggono la figlia di Beppino sorridente sui campi di sci, mentre indossa un cappellino civettuolo, mentre guarda l'obiettivo fiera della sua bellezza di splendida diciottenne sono in ogni angolo di casa Englaro; ma Eluana è confinata in un lettino al terzo piano della clinica «Beato Telamoni» di Lecco. «Sta bene, per quanto possa stare bene un essere ridotto in quelle condizioni », dice Beppino. Eluana non reagisce più a nessuno stimolo: qualche volta apre o chiude gli occhi, ma i medici lo ritengono un gesto del tutto involontario e casuale. «Ogni tanto la solleviamo dal suo letto, la accomodiamo su una poltrona — dicono nei corridoi della clinica — ma ormai è difficile scorgere in quel corpo la bellezza che è stata ». Da quindici anni Eluana è precipitata in una notte senza risveglio «e la condizione di irreversibilità di quello stato è ormai certa», ha dichiarato ieri a Radio 24 il neurologo Carlo Alberto Defanti, che da anni segue il caso.

© Copyright Corriere della sera, 17 ottobre 2007


IL BIOETICISTA

«Sentenza sbagliata. Sospendere l'alimentazione? Atroce»

Margherita De Bac

ROMA — «Forse non si sono resi conto di avere avallato una pratica simbolicamente atroce. Sospendere idratazione e alimentazione significa far morire un paziente in coma fra grandi sofferenze. Tanto varrebbe ricorrere a un'iniezione letale», contesta Francesco D'Agostino.
Il presidente onorario del Comitato nazionale di Bioetica, docente di filosofia del diritto a Tor Vergata, fonda il ragionamento su un presupposto: «I giudici devono evitare elaborazioni di pensiero sull'accanimento terapeutico».

Perché?

«Non è competenza della Cassazione, ma del medico. Oltretutto utilizzano espressioni errate. Il coma irreversibile non esiste. Il coma è persistente, può durare anni, nessun neurologo onesto potrebbe diagnosticare l'irreversibilità. Non esistono standard scientifici».

La volontà espressa dal paziente in vita può costituire una prova per interrompere i trattamenti sanitari?

«Come è possibile che per questioni di vita o di morte possano valere testimonianze orali, e per giunta lontane, come in questo caso? Lo stesso principio dovrebbe allora essere utilizzato per il testamento patrimoniale, non soltanto per quello biologico».

Per quale altra ragione i giudici dovrebbero tenersi alla larga da queste materie?

«Non spetta a loro definire che cos'è l'eutanasia e quando c'è accanimento terapeutico. La sentenza calata nella realtà pone molti problemi. Vedrà quanti ricorsi. Credo che abbiano voluto intervenire anche per spingere il Parlamento a fare una legge sul testamento biologico ».

Non trova invece che un precedente del genere sia d'aiuto ai medici?

«C'è grande confusione. Se il medico si accanisce, e avviene spesso, agisce contro la deontologia o per tenersi al riparo da denunce».

Idratazione e alimentazione vengono nella sentenza equiparate al resto delle cure e quindi suscettibili di interruzione. Spieghi perché non è così.

«Sono pratiche banali, che possono essere applicate anche a casa, non è un atto medico. Nutrire un paziente in coma non significa insistere con cure sproporzionate ».

© Copyright Corriere della sera, 17 ottobre 2007

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