7 luglio 2008

Rémi Brague: Gesù mostra il volto di Dio. "E voi chi dite che io sia?" La domanda ai discepoli il primo sondaggio d'opinione


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Gesù mostra il volto di Dio

Rémi Brague: «La domanda ai discepoli il primo sondaggio d'opinione» Le risposte nel corso dei secoli: dal «dolce sognatore» al «non violento»

Anticipiamo un intervento del filosofo Rémi Brague che sarà pubblicato sul prossimo numero di «Vita e Pensiero», rivista dell'Università Cattolica.

di Rémi Brague

«Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,13-17; Mc 8,27-30; Lc 9,18-22). Siamo di fronte a una specie di sondaggio di opinione, forse il primo della storia. Chi lo promuove pone due domande, un po' strane.
La prima domanda è ancora relativamente normale: "Che cosa dice di me la gente?".
Un politico può commissionare un sondaggio sulla propria immagine presso i suoi potenziali elettori. Neppure le risposte sono molto sorprendenti. Il politico che si preoccupa della propria immagine può sentirsi rispondere attraverso nomi propri, utilizzati con l'articolo indeterminativo per indicare dei tipi umani: un Richelieu, un Napoleone, un De Gaulle.
La seconda domanda è più bizzarra. Gesù si volta verso i sondaggisti e chiede loro qualcosa di più personale, persino intimo. È raro che domandiamo agli altri chi siamo. Di solito avviene il contrario: chiediamo chi sono loro, aspettandoci in risposta un nome o una professione. Se è il caso, chiederemo ai nostri cari chi siamo per loro, intendendo dire: cosa rappresentiamo per loro, che valore abbiamo ai loro occhi.
Quando nasce un grande movimento storico
La domanda assume contorni più sorprendenti se pensiamo che è posta dal fondatore di una religione. Gesù è l'unico a chiedere ad altri chi sia esattamente. Ci si aspetterebbe, da parte sua, una coscienza di sé, magari un'autostima illimitata. È necessaria a chiunque debba lanciare un grande movimento storico: non ci si può permettere di dubitare di sé quando si voglia cambiare davvero l'ordine stabilito. Maometto, Lutero, Lenin avevano quest'eccezionale fiducia in sé e non sembra abbiano dubitato a lungo della propria missione religiosa o politica.
Con la domanda «Chi dite che io sia?», il verbo «dire» assume una colorazione nuova. A questo punto nessuno può più ripararsi dietro le statistiche; ciascuno deve esprimere un'opinione personale. Cambia il soggetto del discorso.
All'inizio il soggetto che parlava era una collettività vaga: «si» impersonale, «la gente». Ora questo soggetto diventa una persona alla quale ci si può rivolgere con un «tu» o un «voi». Quello che diceva il soggetto impersonale era una chiacchiera. Ora ciascuno è costretto a una confessione che lo impegna. Sollecitati, intimati a parlare, i discepoli tacciono. Tranne uno, come vedremo. Tranne uno, la cui confessione di fede costituisce l'apice, al plurale.
La risposta è data da uno solo, Pietro: «Tu sei il messia». Questi non pretende di esprimere l'opinione del gruppo, e neanche di avere un'opinione che sia individuale in rapporto a quella degli altri. Gesù si congratula con Pietro per la risposta. Si congratula con la persona che parla ma, curiosamente, non approva esplicitamente il contenuto della risposta.
Non dice: «Risposta esatta!». E tantomeno: «Ma sì, sono proprio il messia!».
Perché? Il termine «messia» apparteneva al vocabolario dell'epoca. Tutti sapevano che si aspettava il messia. Tutti sapevano soprattutto cosa ci si aspettava dal messia: che facesse qualcosa. C'era un incarico: liberare Israele. Gesù non precisa subito in che modo inatteso correggerà quell'immagine e realizzerà quell'esigenza. Noi lo sappiamo. E i discepoli, Pietro per primo, si faranno presto impartire al riguardo una severa lezione. Gesù comincia da qualcosa di più semplice: sposta l'origine di ciò che dice Pietro.
Questi non parla da sé, ma per conto di Dio. Allora l'elogio che Gesù fa di Pietro prende una piega paradossale, forse persino ironica. Pietro ha parlato bene, ma non è stato davvero lui a parlare. Gesù non ritira forse subito quello che ha appena dato?
Com'è possibile congratularsi con qualcuno di parlare per conto di un altro? Per noi, infatti, non parlare per sé indica una mancanza di sincerità
.
Ma, in effetti, Dio non sa che farsene della nostra «sincerità», della nostra «autenticità». Ci offre di meglio, come vedremo. Ascoltiamo per il momento un altro evangelista, Giovanni. Gesù dice appunto di non parlare per sé, ma a partire dal Padre. Meglio ancora, caratterizza il diavolo in questo modo: «Ogni volta che dice menzogna, parla del suo, poiché è mentitore e il padre della menzogna» (Gv 8,44). L'essere sincero per eccellenza è Satana. È mentitore proprio perché parla da sé e rifiuta quello che dice qualunque altra fonte che non sia egli stesso. Dunque ciò che dice Pietro non viene da lui ma dal Padre. Gesù riprende l'espressione con la quale Pietro aveva qualificato il messia: «Figlio di Dio». Essa aveva un senso un po' vago, e designava il re orientale che si credeva Dio avrebbe generato il giorno in cui fosse salito sul trono, come canta il Salmo (2, 7).
Nel nostro racconto, l'espressione «Figlio di Dio» riceve un senso nuovo, come vedremo.
Tale sapere, nessuno capisce da dove venga. Neanche Pietro lo sa. È Gesù a dirglielo. Il Padre non si manifesta inviando una «voce celeste» (bath qol ) tonante. Il Talmud è pieno di storielle nelle quali una voce venuta dal cielo si esprime a favore o contro l'opinione di un rabbino. E nel Vangelo di Giovanni è una voce celeste a dire: «Io l'ho glorificato e lo glorificherò ancora», voce che per alcuni è di tuono, mentre per altri è la voce di un angelo (12,28-29).

La parola di Pietro viene dal Padre

Gesù dice che la parola di Pietro viene dal Padre. Come lo sa? Afferma così, implicitamente, di godere di un'intimità tutta particolare con Colui che talvolta chiama «padre» e talvolta con un nomignolo infantile che sembra sia stata una delle sue parole più peculiari, abba , «papà». Sapremo più tardi che tale intimità tra Gesù e il padre è una persona: lo Spirito Santo, comune al Padre e al Figlio. A ispirare Pietro è lo Spirito stesso del Padre e del Figlio. Il suggeritore non è altri che il Soffio divino.
Traiamo la prima lezione: non fermiamoci né al silenzio degli apostoli né alla confessione di Pietro. Non sostituiamo la perplessità degli apostoli con il nostro rumoroso entusiasmo
. Non fermiamoci neanche al primato di Pietro, o a quello del suo successore, e al suo discorso autorizzato. Ci preme infatti colui che dà a Pietro il suo potere, a lui come a noi, al di là dell'autorità dell'apostolo. Ci è offerto di più. Non si tratta solo di esprimere un'opinione, tantomeno uno zelo.
Non si tratta neppure di rifugiarci dietro un'autorità e la sua ortodossia, bensì di entrare nell'intimità di ciò che unisce Gesù al Padre.
Dunque non dobbiamo domandarci quale immagine o quale idea ci facciamo di Gesù. Tutto questo, dobbiamo riceverlo dal Padre.
Sventurato colui che si fa da sé un'idea di Cristo. Perché? Perché persino di Cristo ci si può fare un idolo. Quasi tutto può diventare un idolo: un oggetto di legno o di metallo, certo; ma anche una forza naturale come la sessualità, un simbolo sociale come il denaro, un'idea come il progresso. Basta che qualcosa mi rimandi l'immagine del mio desiderio. L'idolo riceve la sua natura di idolo dallo sguardo idolatrico, e tale sguardo può volgersi su qualunque cosa e chiunque, compreso Gesù.
Nelle nostre scatole abbiamo tutta una collezione di immagini di Gesù di questo tipo. E nulla dimostra che sia completa. Nessuna è completamente falsa, tutte dicono qualcosa di Gesù. Ma sono contraddittorie: il dolce sognatore di Renan o il non violento di Tolstoj – o un rivoluzionario, oppure un filosofo profondo – ma anche un semplice, quasi un idiota; o ancora un ariano dagli occhi azzurri, isolato in mezzo a semiti dal naso adunco – ma anche un predicatore popolare che non avrebbe portato nulla di nuovo nell'ebraismo dell'epoca e sarebbe stato tradito da san Paolo. Queste immagini hanno un punto in comune: assomigliano tutte a chi le propone, tanto da confondersi con esso. Non tanto con la sua realtà, spesso un po' penosa, quanto con ciò che sognava di essere.
Ma torniamo al nostro racconto. Subito dopo, Gesù proibisce ai suoi discepoli di annunciare che egli è il messia, come peraltro ha appena confermato. Eppure la dignità messianica di Gesù diventerà più tardi il contenuto centrale dell'annuncio cristiano: «Gesù è il Cristo», annuncio che in un certo senso sta per intero nel trattino di «Gesù-Cristo», che concentra la frase: «Gesù, che è il Cristo». Che Gesù sia il messia, i discepoli hanno diritto di saperlo, ma non di dirlo. Cristo stesso non dice mai chi è davvero. Forse perché solo Dio può dirlo. E lo dice attraverso la vita di Cristo.
Il Gesù dei tre Vangeli sinottici si definisce «figlio dell'uomo», che è un modo per dire «io». Nel Vangelo di Giovanni dice: «Io sono». C'è il verbo, ma senz'attributo. Si sa, l'espressione che usa Giovanni è una citazione implicita della risposta enigmatica del Dio d'Israele alla domanda di Mosè: «Io sono chi sono» (Es 3,14). Il verbo «essere» si ripiega su se stesso, resta vuoto e in attesa di attributo. Tale attesa riceverà un primo contenuto: il primo attributo che sosterrà il verbo «essere» è il ricordo di un atto di liberazione, sul quale si apre il Decalogo. Tale parola non è un comandamento, ma è la chiave che permette di comprendere quelli che vengono chiamati troppo sbrigativamente i dieci «comandamenti»: «Sono io, Jahvè, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa della schiavitù» (Es 20,2).
L'uso dei termini «Io sono» è lo stesso in Gesù. Il suo nome significa «Dio salva». Il nome è un programma. Fa ciò che è. Cristo non ha mai detto di essere Dio. Certi ingenui immaginano che tale constatazione metta in pericolo la Chiesa cristiana, che proclama la divinità di Cristo. Sono ingenui perché suppongono che noi sappiamo cosa sia essere Dio. E che un Dio debba dire cosa è. Ebbene, cosa sia essere Dio, è appunto ciò che Gesù ci mostra facendolo. Perché Cristo non dice che è Dio? In virtù di una specie di regola che potremmo divertirci a chiamare la versione divina del «principio di sussidiarietà».

I discepoli proclamano ciò che è utile alla salvezza

È utile alla salvezza degli uomini che i discepoli credano e proclamino che Gesù è il Signore. D'altra parte, sarebbe stato inutile a tale salvezza che lo proclamasse lui stesso.
Quale sarebbe stato l'effetto di tale dichiarazione? Se essi l'avessero accettata, gli ascoltatori avrebbero classificato Gesù nella categoria degli «dèi», e l'avrebbero compreso a partire dall'idea che si facevano di cosa sia essere un dio. A seconda del caso, si sarebbero prosternati; avrebbero offerto sacrifici; si sarebbero messi sull'attenti e avrebbero atteso ordini.
Chi si fa di Dio idee di questo tipo merita tutta la nostra compassione. Gesù agisce da Dio e mostra con il suo agire chi è Dio. Con il suo agire o piuttosto con la sua Passione. È la sua Passione ad annunciare il seguito del testo. Lo stesso Pietro, che aveva riconosciuto Gesù come messia, allora si ribella e si prende una bella strapazzata. Ma chi non avrebbe reagito come lui? Possiamo capire il suo rifiuto.
È anche buona cosa passarvi, purché non ci si fermi lì. Ovviamente per i cristiani è la Passione a operare la salvezza del mondo. Ma essa non costituisce appunto la negazione più scandalosa di tale salvezza? Qui sembrano messe alla prova le formule stesse con le quali Pietro aveva confessato la sua fede. Quelli che sghignazzano ai piedi della Croce sfidano Gesù che vi è appeso: «Se sei il Re dei Giudei, salva te stesso» (Lc 23,35-37), ossia se sei il messia; «Salva te stesso, se sei il figlio di Dio» (Mt 27,40). L'esperienza sembra probante, e in maniera negativa. Gli intellettuali ragionano anche così: «Ha salvato altri, ora salvi se stesso» (Lc 23,35). Oppure: «…non può salvare se stesso» (Mt 27,42). Il loro ragionamento sta in piedi. Assomiglia al proverbio che Gesù stesso cita come un'obiezione che si potrebbe fargli: «Medico, guarisci te stesso!» (Lc 4,23). Noi diremmo: «La prima carità comincia da se stessi».
Quanti parlano così dimostrano di avere un'idea meschina di cosa sia essere Dio o Figlio di Dio. Cosa sappiamo infatti noi di cosa sia essere Dio? E d'essere il Figlio di Dio? Di essere alla guida del popolo di Dio, e dunque il re dei Giudei? Perché Gesù non salva se stesso? Non si salva perché non gli interessa. Per la precisione, perché è il volto di Dio, perché fa da uomo quello che fa Dio. Ciò che interessa Dio, se si può dir così, non è salvare se stesso, supponendo che ne avesse bisogno. Ciò che interessa Dio è salvare. Non è mantenersi salvo, è dare la salvezza e darla a tutti.

© Copyright Eco di Bergamo, 6 luglio 2008

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