16 aprile 2007
E apparve in mezzo a loro: "Gesù di Nazaret" in libreria di Sandro Magister
È uscito in varie lingue il libro più amato dal suo autore. Joseph Ratzinger vi ha lavorato per molti anni, e ora ne prepara il seguito. Un testo fondamentale anche per capire questo pontificato
di Sandro Magister
ROMA, 16 aprile 2007 – Da oggi, ottantesimo compleanno della nascita e del battesimo di Benedetto XVI, l'attesissimo suo libro su "Gesù di Nazaret" è in vendita nella lingua originale tedesca e nelle versioni italiana, polacca e greca, cui presto seguiranno le traduzioni in una ventina di altre lingue: inglese, francese, spagnolo, portoghese, catalano. olandese, svedese, sloveno, croato, serbo, ceco, slovacco, lituano, ungherese, maltese, coreano.
"Gesù di Nazaret" è la prima parte di un'opera in due volumi che Joseph Ratzinger ha ideato molti anni fa come parte di un suo "lungo cammino interiore" alla ricerca del "volto del Signore". Egli ha scritto i primi quattro capitoli prima di essere eletto papa e i successivi sei, "usando tutti i momenti liberi", dopo.
In questo primo volume il racconto comincia col battesimo di Gesù nel Giordano e arriva fino alla sua trasfigurazione sul monte Tabor. Mentre il secondo volume arriverà alla passione, morte e risurrezione, con un capitolo dedicato anche ai racconti dell'infanzia: l'annunciazione, la nascita, i Magi, la fuga in Egitto.
L'intenzione di Ratzinger nel scrivere questo libro è da lui spiegata nella prefazione: presentare agli uomini d'oggi il Gesù dei Vangeli come il Gesù storicamente reale, vero Dio e vero uomo.
Per Benedetto XVI, nei Vangeli si trovano tutti gli elementi per affermare che il personaggio storico Gesù è anche realmente il Figlio di Dio venuto sulla terra per salvare l’umanità e, pagina dopo pagina, guida il lettore – credente ma anche non credente – nella ricerca e nella scoperta del suo vero volto.
Il libro è fatto di una prefazione, già resa pubblica dallo scorso novembre, di un'introduzione, di dieci capitoli e di una guida bibliografica.
Nell'introduzione, Benedetto XVI presenta Gesù come il "nuovo Mosè" annunciato dall'Antico Testamento nel libro del Deuteronomio: "un profeta con il quale il Signore parlava faccia a faccia". Anzi, molto di più: se Mosè non potè contemplare il volto di Dio ma solo vederne "le spalle", Gesù è non solo amico di Dio ma suo Figlio unigenito, è "nel seno del Padre" e quindi lo può rivelare: "Chi vede me vede il Padre".
Il primo capitolo è dedicato al battesimo di Gesù nel Giordano. Immergendosi nelle acque Gesù "accetta la morte per i peccati dell'umanità". Mentre la voce dal cielo che lo indica come il Figlio di Dio prediletto "è il rimando anticipato alla risurrezione". Il percorso della sua vita è già delineato.
Capitolo secondo: le tentazioni di Gesù. Per salvare l’umanità, Gesù deve vincere le tentazioni principali che minacciano, in forme diverse, gli uomini di tutti i tempi e, trasformandole in obbedienza, riaprire la strada verso Dio, verso la vera Terra promessa che è il "regno di Dio".
Il capitolo terzo è dedicato, appunto, al Regno di Dio, che è la signoria di Dio sul mondo e sulla storia ma si identifica nella stessa persona di Gesù, vivo e presente qui e ora. In Gesù "Dio viene incontro a noi, regna in modo divino cioè senza potere mondano, regna con l’amore che va 'sino alla fine'”.
Capitolo quarto: il discorso della montagna. In esso Gesù appare come il "nuovo Mosè" che porta a compimento la Torah, la legge. Le Beatitudini sono i punti cardine della nuova legge e, al tempo stesso, un autoritratto di Gesù. La legge è lui stesso: "È questo il punto che esige una decisione e perciò è il punto che conduce alla croce e alla risurrezione".
Capitolo quinto: la preghiera del Signore. Messosi alla sequela di Gesù, il credente può invocare il Padre con le parole da lui insegnate: Il Padre nostro. Benedetto XVI lo spiega punto per punto.
Capitolo sesto: i discepoli. La comunanza con Gesù raccoglie i discepoli nel "noi" di una nuova famiglia, la Chiesa, che a sua volta è inviata a portare il suo messaggio nel mondo.
Capitolo settimo: le parabole. Benedetto XVI ne illustra natura e scopo e poi ne commenta tre, tutte del Vangelo di Luca: quella del buon samaritano, quella dei due fratelli e del padre buono, quella del ricco epulone e del povero Lazzaro.
Capitolo ottavo: le grandi immagini giovannee. Ossia: l'acqua, la vite e il vino, il pane, il pastore. Il papa le commenta ad una ad una, dopo aver spiegato chi era l'evangelista Giovanni.
Capitolo nono: la confessione di Pietro e la trasfigurazione. Ambedue gli eventi sono momenti decisivi per Gesù come anche per i suoi discepoli. Mostrano con chiarezza qual è la vera missione del Figlio di Dio sulla terra e qual è la sorte di chi vuole seguirlo. Gesù, il Figlio del Dio vivente, è il Messia atteso da Israele che, attraverso lo scandalo della croce, conduce l’umanità nel "regno di Dio", alla libertà definitiva.
Capitolo decimo: le affermazioni di Gesù su se stesso. Benedetto XVI ne commenta tre: "Figlio dell'Uomo", "Figlio", "Io Sono". Quest’ultimo è il nome misterioso con cui Dio si rivelò a Mosè nel roveto ardente e con cui i Vangeli fanno intravedere che Gesù è quello stesso Dio.
Qui termina il primo volume del papa su Gesù di Nazaret. Ma interessante è anche l'appendice finale in cui l'autore fa da guida ai lettori nella sterminata bibliografia sulla materia. Per ognuno dei suoi dieci capitoli, Ratzinger cita i principali libri a cui si è riferito e che possono essere letti per un approfondimento. Inoltre indica "alcuni dei più importanti e recenti libri su Gesù", tra i quali quelli di Joachim Gnilka, Klaus Berger. Heinz Schürmann, Thomas Söding, Rudolf Schnackenburg, John P. Meier. Dell'opera di quest'ultimo, in tre grossi volumi pubblicati in Italia dalla Queriniana col titolo "Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico", scrive:
"Quest'opera in più volumi di un gesuita americano rappresenta sotto molti aspetti un modello di esegesi storico-critica, in cui si palesano sia l'importanza sia i limiti di questa disciplina. Merita di essere letta la recensione di Jacob Neusner al primo volume, 'Who needs the historical Jesus?', in 'Chronicles' luglio 1993, pp. 32-34".
All'interpretazione della Scrittura Benedetto XVI dedica questo passaggio del suo libro, nel capitolo sulle tentazioni di Gesù:
"Per attirare Gesù nella sua trappola il diavolo cita la Sacra Scrittura, [...] appare come teologo. [...] Vladimir Solov'ëv ha ripreso questo tema nel suo 'Racconto dell'Anticristo'; l'Anticristo riceve la laurea honoris causa in teologia dall'Università di Tubinga; è un grande esperto della Bibbia. Con questo racconto Solov'ëv ha voluto esprimere in modo drastico il suo scetticismo nei confronti di un certo tipo di esegesi erudita del suo tempo. Non si tratta di un no all'interpretazione scientifica della Bibbia in quanto tale, bensì di un avvertimento massimamente salutare e necessario di fronte alle strade sbagliate che essa può prendere. L'interpretazione della Bibbia può effettivamente diventare uno strumento dell'Anticristo. Non è solo Solov'ëv che lo dice, è quanto afferma implicitamente il racconto stesso delle tentazioni. I peggiori libri distruttori della figura di Gesù, smantellatori della fede, sono stati intessuti con presunti risultati dell'esegesi".
La tentazione del pane
[…] La prova dell’esistenza di Dio che il tentatore propone nella prima tentazione consiste nel trasformare in pane le pietre del deserto. All’inizio si tratta della fame di Gesù stesso – così l’ha vista Luca: "Di’ a questa pietra che diventi pane" (Lc 4,3). Ma Matteo interpreta la tentazione in modo più ampio, così come già durante la vita terrena di Gesù e in seguito lungo tutta la storia gli veniva e gli viene proposta sempre di nuovo.
Che cosa vi è di più tragico, che cosa contraddice maggiormente la fede in un Dio buono e la fede in un redentore degli uomini che la fame dell’umanità? Il primo criterio di identificazione del redentore davanti al mondo e per il mondo non dovrebbe essere quello di dare il pane e mettere fine alla fame di ogni uomo? Quando il popolo d’Israele vagava nel deserto Dio l’aveva nutrito mandando il pane dal cielo, la manna. Si credeva di poter riconoscere in questo un’immagine del tempo messianico: non doveva e non deve il salvatore del mondo dimostrare la propria identità dando da mangiare a tutti? Il problema dell’alimentazione del mondo – e, più in generale: i problemi sociali – non sono forse il primo e autentico criterio al quale deve essere commisurata la redenzione? Può qualcuno che non soddisfa questo criterio chiamarsi a buon diritto redentore? Il marxismo ha fatto proprio di questo ideale – in modo comprensibilissimo – il cuore della sua promessa di salvezza: avrebbe fatto sì che ogni fame fosse placata e che "il deserto diventasse pane"...
"Se tu sei Figlio di Dio..." – quale sfida! E non si dovrà dire la stessa cosa alla Chiesa? Se vuoi essere la Chiesa di Dio, allora preoccupati anzitutto del pane per il mondo – il resto viene dopo. È difficile rispondere a questa sfida, proprio perché il grido degli affamati ci penetra e deve penetrarci tanto profondamente nelle orecchie e nell’anima. La risposta di Gesù non si può capire solo alla luce del racconto delle tentazioni. Il tema del pane permea tutto il Vangelo e deve essere visto in tutta la sua estensione.
Ci sono altri due grandi racconti sul pane nella vita di Gesù. Uno è la moltiplicazione dei pani per le migliaia di persone che avevano seguito il Signore nel deserto. Perché ora viene fatto quello che prima era stato respinto come tentazione? La gente era venuta per ascoltare la parola di Dio e per farlo aveva lasciato perdere tutto il resto. E così, come persone che hanno aperto il proprio cuore a Dio e agli altri in reciprocità, possono ricevere il pane nel modo giusto. Questo miracolo suppone tre elementi: in precedenza vi è stata la ricerca di Dio, della sua parola, del giusto orientamento di tutta la vita. Il pane viene inoltre implorato da Dio. E infine un elemento fondamentale del miracolo è la disponibilità reciproca a condividere. Ascoltare Dio diventa vivere con Dio, e conduce dalla fede all’amore, alla scoperta dell’altro. Gesù non è indifferente di fronte alla fame degli uomini, ai loro bisogni materiali, ma li colloca nel giusto contesto e dà loro il giusto ordine.
Questo secondo racconto sul pane rimanda in anticipo al terzo e ne costituisce la preparazione: l’Ultima Cena, che diventa l’Eucaristia della Chiesa e il miracolo permanente di Gesù sul pane. Gesù stesso è diventato il chicco di grano che morendo produce molto frutto (cfr. Gv 12,24). Egli stesso è diventato pane per noi, e questa moltiplicazione dei pani durerà in modo inesauribile fino alla fine dei tempi. Così ora comprendiamo la parola di Gesù, che Egli prende dall’Antico Testamento (cfr. Dt 8,3), per respingere il tentatore: "Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4). A questo proposito c’è una frase del gesuita tedesco Alfred Delp, messo a morte dai nazisti: "Il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è la costante fedeltà e l’adorazione mai tradita".
Laddove questo ordine dei beni non viene rispettato, ma rovesciato, non ne consegue più la giustizia, non si bada più all’uomo che soffre, ma si creano dissesto e distruzione anche nell’ambito dei beni materiali. Laddove Dio è considerato una grandezza secondaria, che si può temporaneamente o stabilmente mettere da parte in nome di cose più importanti, allora falliscono proprio queste presunte cose più importanti. Non lo dimostra soltanto l’esito negativo dell’esperienza marxista.
Gli aiuti dell’Occidente ai Paesi in via di sviluppo, basati su princìpi puramente tecnico-materiali, che non solo hanno lasciato da parte Dio, ma hanno anche allontanato gli uomini da Lui con l’orgoglio della loro saccenteria, hanno fatto del Terzo Mondo il Terzo Mondo in senso moderno. Tali aiuti hanno messo da parte le strutture religiose, morali e sociali esistenti e introdotto la loro mentalità tecnicistica nel vuoto. Credevano di poter trasformare le pietre in pane, ma hanno dato pietre al posto del pane. È in gioco il primato di Dio. Si tratta di riconoscerlo come realtà, una realtà senza la quale nient’altro può essere buono. Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio. Se il cuore dell’uomo non è buono, allora nessuna altra cosa può diventare buona. E la bontà di cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene.
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E un altro passaggio ripreso dal capitolo ottavo, dalle pagine 261-266 dell'edizione italiana:
La questione giovannea
[…] Così siamo ora giunti a due quesiti decisivi che, in fin dei conti, costituiscono il centro della questione "giovannea". Chi è l’autore di questo Vangelo? Qual è la sua attendibilità storica? Cerchiamo di avvicinarci alla prima domanda. È il Vangelo stesso a fare, al riguardo, una chiara affermazione nel racconto della passione. Si riferisce che uno dei soldati colpì il costato di Gesù con una lancia e "subito ne uscì sangue e acqua". Seguono le importanti parole: "Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate" (Gv 19,35). Il Vangelo afferma di risalire a un testimone oculare, e questi è evidentemente colui di cui prima è stato detto che stava presso la croce ed era il discepolo che Gesù amava (cfr. 19,26). Poi ancora una volta, in Gv 21,24, questo discepolo viene menzionato come l’autore del Vangelo. [...]
Ma chi, allora, è questo discepolo? Il Vangelo non lo identifica mai direttamente col nome. In connessione con Pietro e con altre vocazioni di discepoli, il testo ci guida verso la figura di Giovanni di Zebedeo, ma non procede esplicitamente a questa identificazione. È ovvio che mantiene volutamente un segreto. L’Apocalisse, è vero, nomina espressamente Giovanni come suo autore (cfr. 1,1.4), ma nonostante lo stretto legame dell’Apocalisse con il Vangelo come anche con le Lettere rimane aperta la domanda se l’autore sia il medesimo.
[...] Se il discepolo prediletto assume nel Vangelo espressamente la funzione di testimone della verità dell’accaduto, si presenta come persona viva: come testimone vuole farsi garante di fatti storici, rivendicando così egli stesso il rango di figura storica; altrimenti queste frasi, che determinano lo scopo e la qualità dell’intero Vangelo, si svuotano di significato.
Dai tempi di Ireneo di Lione († 202 circa), la tradizione della Chiesa riconosce all’unanimità Giovanni di Zebedeo come il discepolo prediletto e l’autore del Vangelo. Questa tesi si accorda con gli accenni identificativi del Vangelo, che, in ogni caso, ci rimandano a un apostolo e a un compagno di viaggio di Gesù dal battesimo nel Giordano fino all’Ultima Cena, alla croce e alla risurrezione.
In epoca moderna, però, sono sorti dubbi sempre più forti riguardo a questa identificazione. È possibile che il pescatore del lago di Genèsaret abbia scritto questo sublime Vangelo delle visioni che penetrano nel più profondo del mistero di Dio? È possibile che quest’uomo, galileo e pescatore, fosse così legato all’aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme, al suo linguaggio e alla sua mentalità quanto lo è, in effetti, l’evangelista? È possibile che fosse imparentato con la famiglia del sommo sacerdote, come sembra suggerire il testo (cfr. Gv 18,15)?
Ebbene, in seguito agli studi di Jean Colson, Jacques Winandy e Marie-Emile Boismard, l’esegeta francese Henri Cazelles ha dimostrato, con una ricerca sociologica sul sacerdozio del tempio prima della distruzione di quest’ultimo, che una simile identificazione è senz’altro plausibile. Le classi sacerdotali prestavano il loro servizio a turno per una settimana due volte l’anno. Al termine del servizio, il sacerdote tornava nella sua terra; non era affatto insolito che esercitasse anche una professione per guadagnarsi la vita. Emerge, del resto, dal Vangelo che Zebedeo non era un semplice pescatore, bensì dava lavoro a diversi giornalieri, per cui era anche possibile ai suoi figli lasciarlo. "Zebedeo, dunque, può senz’altro essere un sacerdote e avere tuttavia al contempo una proprietà in Galilea, mentre la pesca sul lago lo aiuta a guadagnarsi da vivere. Forse aveva solo un alberghetto di passaggio in o nelle vicinanze di quel quartiere di
Gerusalemme che era abitato dagli esseni" ("Communio" 2002, p. 481). "Proprio quella cena durante la quale questo discepolo poggiò la testa sul petto di Gesù si svolse in un luogo che, con tutta probabilità, si trovava nella parte della città abitata dagli esseni" – nell’"alberghetto" del sacerdote Zebedeo, che "cedette la stanza superiore a Gesù e ai Dodici" (pp. 480s). È interessante, in questo contesto, ancora un’altra indicazione nel contributo di Cazelles: secondo l’usanza giudaica, il padrone di casa o, in sua assenza come qui, "il suo primogenito sedeva alla destra dell’ospite, il capo reclinato sul suo petto" (p. 480).
Se dunque anche – e proprio – allo stato attuale della ricerca è senz’altro possibile scorgere in Giovanni di Zebedeo quel testimone che difende solennemente la sua testimonianza oculare (cfr. 19,35), identificandosi così come il vero autore del Vangelo, la complessità nella redazione del testo solleva tuttavia ulteriori domande.
A questo riguardo è importante una notizia dello storico della Chiesa Eusebio di Cesarea († 338 circa). Eusebio ci riferisce di un’opera in cinque volumi del Vescovo Papia di Gerapoli, morto nel 220 circa, che vi avrebbe menzionato di non aver più conosciuto né visto di persona i santi apostoli, ma di aver ricevuto la dottrina della fede da persone vicine agli apostoli. Parla di altri che sarebbero stati a loro volta discepoli del Signore e cita per nome Aristione e un "presbitero Giovanni". Ciò che qui importa è che egli distingue tra l’apostolo ed evangelista Giovanni da una parte e il "presbitero Giovanni" dall’altra. Mentre non avrebbe più conosciuto personalmente il primo, avrebbe incontrato il secondo di persona (Eusebio, Storia della Chiesa, III, 39).
Si tratta di una notizia veramente degna di attenzione; insieme con alcuni indizi affini rivela infatti che a Efeso esisteva una sorta di scuola giovannea che faceva risalire le sue origini al discepolo prediletto di Gesù, nella quale, tuttavia, un certo "presbitero Giovanni" era poi l’autorità decisiva. Questo "presbitero" Giovanni compare nella Seconda e nella Terza Lettera di Giovanni (1,1 in entrambi i casi) come mittente e autore del testo semplicemente con il titolo "il presbitero" (senza l’indicazione del nome Giovanni). Evidentemente non coincide con l’apostolo, cosicché, in questo passo del testo canonico, incontriamo espressamente la misteriosa figura del presbitero. Doveva essere strettamente legato all’apostolo e magari aveva ancora conosciuto persino Gesù. Dopo la morte dell’apostolo venne considerato il pieno detentore della sua eredità; nel ricordo, le due figure si sono infine sovrapposte sempre di più. A ogni modo possiamo attribuire al "presbitero Giovanni" una funzione essenziale nella stesura definitiva del testo evangelico, durante la quale egli, senz’altro, si considerò sempre come l’amministratore dell’eredità ricevuta dal figlio di Zebedeo.
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