28 novembre 2007

Mons. Pezzi: "Io, pastore italiano missionario a Mosca"


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CATTOLICI E ORTODOSSI: IL DIALOGO

«Io, pastore italiano missionario a Mosca»

Paolo Pezzi, arcivescovo della capitale russa

Il 27 ottobre scorso, a Mosca, il romagnolo Paolo Pezzi è stato nominato arcivescovo della capitale russa. E’ il primo italiano che riveste un ruolo così importante e ha il delicato compito di ricucire i rapporti con gli ortodossi. Alberto Savorana, direttore di Tracce, rivista ufficiale di Comunione e Liberazione, lo ha intervistato. Ecco i passaggi salienti.

di ALBERTO SAVORANA

«SONO COMMOSSO e stupito, perché mi fa guardare a me stesso come amato, voluto, preferito, e non tanto per l'onore del ruolo — Dio non mi guarda certo secondo le mie capacità —, quanto perché è come se Cristo mi domandasse: ‘Tu mi ami?’, come disse in quel dialogo con Pietro che rileggo quotidianamente. Misteriosamente, questa nomina è come un entrare in un modo tutto particolare nell'intimo del rapporto tra Cristo e i suoi».
(...) sono parole di don Paolo Pezzi, neo Arcivescovo metropolita di Mosca, 47 anni, di Russi, in provincia di Ravenna, sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo. «Insieme allo stupore provo una gratitudine per ciò che ho incontrato, perché questa nomina significa un riconoscimento della grandezza del carisma del movimento e perciò di don Giussani e della sua opera di riforma, che fa rivivere l'annuncio cristiano dal di dentro della Chiesa» (...)

Qual è stato l'inizio di questa preferenza, il «bel giorno» che le ha cambiato la vita?

«Strano a dirsi, ma è accaduto durante il servizio militare. Partecipai a un incontro, invitato da un commilitone di Cl. All'uscita, mi domandò che cosa ne pensassi. “Sì, una cosa bella — risposi — . Certo, potesse durare tutta la vita…”. E lui: “Che cosa te lo impedisce?”». (...)

Come ha deciso di diventare prete?

«L’idea mi sorse come possibilità e bellezza di dare la vita a Cristo. Un giorno, entrando in sede di Cl a Ravenna, vidi dialogare i sacerdoti che guidavano la comunità; rimasi così colpito dal loro modo di stare assieme che pensai: “Mi piacerebbe essere prete in una comunione così”. Poi ci fu il bellissimo incontro per il trentennale di Cl con Giovanni Paolo II, nel 1984. Ascoltate le sue parole: “Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza e la pace che si incontrano in Cristo Redentore” scrissi a don Giussani — che non avevo mai visto — che il mio unico desiderio era di andare ovunque il movimento mi avesse chiesto. L’anno successivo, appena dopo la nascita della Fraternità San Carlo, andai da don Giussani — era la prima volta che lo incontravo — e lui mi chiese perché volessi andare proprio lì quando sarei potuto entrare in un seminario diocesano. Risposi che volevo rispondere con un’adesione totale a quello che lui aveva iniziato. Fermò quel dialogo, cui erano presenti anche altri sacerdoti, e disse: “Basta, mi sembra chiaro. Vai, non avere timore e soprattutto domanda alla Madonna di rimanere fedele a come Dio ti ha fatto”, cosa che ho sempre domandato in questi anni».

Quale strada l’ha portato a dire «Tu» a Cristo in Siberia, poi a San Pietroburgo e ora nella capitale della Federazione Russa?

«La strada sono state le circostanze a cui ho detto di sì. La prima fu un viaggio con don Massimo Camisasca in Siberia, dove un sacerdote francescano aveva iniziato a radunare nuovamente la comunità cattolica. Venendo al Meeting nel 1990 aveva chiesto aiuto. Così nel 1991 iniziò la missione della San Carlo in Siberia; l’anno successivo uno dei tre preti che erano là, per difficoltà di ambientamento, dovette rientrare. Don Massimo mi chiese se ero disponibile. Dissi subito di sì».

A San Pietroburgo ha retto l'unico seminario cattolico di Russia. E prima, in Italia, aveva collaborato direttamente con don Massimo come vicario generale della San Carlo. Come l’esperienza a Roma l’ha aiutata in Russia?

«Innanzitutto nell’educare dei giovani, nella passione educativa. Gli anni passati con don Massimo mi hanno insegnato la tenacia, il ricominciare indefesso ogni giorno, e non perché si ha un progetto, non perché si deve arrivare a fare un buon prodotto, ma per la certezza che quello che ha investito noi è recepibile, è comunicabile e può rendere grande la vita di un altro, anche quella di un sacerdote. Educare un seminarista a essere pienamente uomo, consegnato, consacrato, esemplarmente disposto a dare la vita a Cristo, a fare vedere come questo rende bella e grande l’esistenza di chiunque. E poi ho imparato a non avere paura a mettere le mani in pasta anche con una realtà istituzionale come un seminario, ad assumere anche questo compito non come qualcosa di marginale nella mia vita, ma come ciò attraverso cui mostrare la mia passione per Cristo e il mio rapporto con Lui. In terzo luogo, questa passione per Cristo si può incarnare dovunque, non c’è un ambiente, un popolo, una cultura, una realtà che siano impermeabili». (...)

Che cosa ha significato per lei l’incontro con l'ortodossia? E quale apporto può dare la tradizione ortodossa alla nostra mentalità occidentale?

«Soprattutto due cose, che ho scoperto nell’incontro con don Giussani e che ho rivisto in atto qui in Russia. La prima è una passione per la bellezza. La tradizione orientale, e in questo l’ortodossia ci è maestra, vive (magari stancamente in alcune sue espressioni, come avviene anche per tanti cristiani in Occidente) un gusto per il fatto che l’avvenimento di Cristo trasforma la realtà. E questo è ben espresso dall’idea di ‘trasfigurazione’: la realtà è chiamata a essere trasfigurata in Cristo (...).
La seconda è un’idea appassionata di ‘comunione’: la conoscenza della realtà e perciò l’approfondimento del mistero di Dio non avvengono in forza della genialità di un singolo, ma sono sempre il frutto di una comunione, di un io che non si concepisce da solo, ma in rapporto». (...)

La passione per l’unità anima Benedetto XVI, che anche di recente (...) ha chiesto di pregare affinché si possa «camminare verso la piena comunione tra cattolici e ortodossi». Che cosa significa «ecumenismo» per il nuovo arcivescovo di Mosca?

«Non significa, negativamente, una semplice tolleranza o giustapposizione. Ecumenismo è innanzitutto una concezione di me come partecipante del rapporto con Cristo, che è in grado di abbracciare tutti e tutto. In questo senso è un gusto dell’andare incontro all’altro, una passione a conoscere e a scoprire che cosa l’altro ha in sé di vero e di positivo, ad approfondire e a vivere la propria identità e appartenenza. In un dialogo con alcuni amici ortodossi mi è capitato di dire che il proselitismo comincia dove finisce la missione; quando uno smette di essere missionario comincia ad avere altre preoccupazioni: fare vedere che la sua chiesa è più bella, che è più brava nel cercare di ingrossare le file del proprio gruppo. Al contrario, l’unica preoccupazione deve essere vivere e dilatare il rapporto con Cristo».

I cattolici di Mosca sono un piccolo gregge. Spesso in Occidente si cerca di arginare la crisi con progetti e strategie pastorali (...). Per la sua esperienza, di che cosa c’è bisogno?

«Sostenere un popolo, degli uomini e perciò educarli a vivere la propria fede, il rapporto con Cristo come la grande possibilità di entrare in rapporto con la realtà, di manipolarla, di portarla al suo destino. Rileggevo in questi giorni Il sale della terra dell’allora cardinale Ratzinger: parla di una stanchezza nel vivere la fede, dovuta alla preoccupazione di organizzare la vita. Mentre, invece, quello che occorre è la presenza di persone che facciano esperienza della fede; e allora anche l’aspetto organizzativo diventerà espressione di un gusto del rapporto con Cristo.
Quando uno si innamora di una ragazza, deve mettersi d’accordo sul giorno e l’ora dell’appuntamento, altrimenti non la incontra mai, ma non è contento del giorno e dell’ora; lo è del rapporto con lei».

© Copyright Quotidiano Nazionale, 28 novembre 2007

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