1 luglio 2008

Paolo, dalla conversione a oggi: "Figlio di tre culture. Interprete della speranza" (Mons. Ravasi per l'Osservatore)


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"La missione di Pietro è far sì che la Chiesa non si identifichi mai con una sola nazione, con una sola cultura. Che sia sempre la Chiesa di tutti"

(Caravaggio, "Conversione di San Paolo")

Paolo, dalla conversione a oggi

Figlio di tre culture
Interprete della speranza


In occasione dell'apertura dell'Anno paolino, il numero di "Luoghi dell'Infinito" in edicola con "Avvenire" da martedì 1 luglio è dedicato all'"apostolo senza frontiere". Introdotto da un editoriale di Davide Rondoni, il dossier comprende un articolo del presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura che qui anticipiamo.

di Gianfranco Ravasi

Ciò che accadde, in un giorno imprecisato tra il 33 e il 35 d.C., sulla strada che dalla Galilea conduceva a Damasco è rimasto inciso nella memoria collettiva secondo una tipologia, di per sé fantasiosa, che è stata fissata in modo icastico dal Caravaggio nella sua tela di Santa Maria del Popolo a Roma: un enorme cavallo sogguarda un Paolo disarcionato e accecato. In realtà, la descrizione di quella celebre epifania (o, meglio, cristofania), offerta per ben tre volte dalla seconda opera dell'evangelista Luca, gli Atti degli Apostoli (ix, xxii; xXVI), non comprende quella scenografia equestre: "Mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Rispose: Chi sei, o Signore? E la voce: Sono quel Gesù che tu perseguiti!" (ix, 3-5).
Paolo, per evocare quella svolta capitale, ricorrerà nel suo epistolario solo a tre verbi, due di illuminazione ("Cristo è apparso anche a me... Dio si degnò di rivelarmi il suo Figlio") e uno di lotta ("sono stato afferrato da Cristo Gesù"). Certo è che quell'evento sarà per lui discriminante: dal persecutore Saulo, fariseo fanatico ("perseguitavo oltre ogni misura la Chiesa di Dio cercando di distruggerla"), nascerà l'apostolo Paolo, pronto a confessare che il suo stesso "vivere è Cristo". Così, la "via di Damasco" è divenuta un simbolo universale per indicare non solo una svolta esistenziale o una conversione, ma una vera e propria folgorazione che rivoluziona l'essere intero di una persona. Si pensi solo ad August Strindberg e al suo audace dramma Verso Damasco, composto tra il 1898 e il 1904: lo scrittore svedese trasforma, infatti, il simbolo paolino in una parabola del percorso della vita, sia pure con un approdo antitetico. La sua Damasco è un labirinto onirico e non certo un'illuminazione, una spirale ossessiva ove il passato non è annientato ma miscelato a brandelli col presente, ove tutto si aggroviglia e la meta non è liberatoria.
Ben diversa è la gloriosa rivisitazione di quell'evento da parte del protestante credente Felix Mendelssohn-Bartholdy che col suo Paulus - oratorio grandioso e clamoroso già al suo primo apparire nell'esecuzione del 22 maggio 1836 (356 coristi e 160 strumentisti!) - ha voluto idealmente offrire un'esegesi musicale della vicenda dell'apostolo, ritmata da un "prima" e un "poi" proprio a causa di quella "via". Non per nulla due sono i bassi che incarnano il protagonista: il Saulo ebreo della prima parte e il Paolo cristiano della seconda.
Che la meditazione musicale sia anche teologica appare dalla stessa ouverture ritmata su quello splendido corale luterano Wachet auf, ruft uns die Stimme, magnifico e dolce nella resa bachiana (Bwv 140), il cui incipit è già un'illuminante interpretazione della via di Damasco come "risveglio-risurrezione" ("Svegliatevi, la voce ci chiama").
E quella "risurrezione" fece di Saulo una figura capitale della nuova religione in tutta la sua storia successiva, anche se non sempre in modo pacifico e scontato. Già nella Seconda Lettera di Pietro l'autore osservava che "nelle lettere del nostro carissimo fratello Paolo vi sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli incerti le travisano, al pari delle altre Scritture, a loro rovina" (iii, 16). Un noto teologo ed esegeta tedesco dell'Ottocento, Wilhelm Wrede, in una sua opera intitolata semplicemente Paulus (1904), coniava per l'apostolo la definizione di "secondo fondatore del cristianesimo", definizione ambigua perché potrebbe introdurre l'idea di una trasformazione del messaggio di Gesù tale da supporre un altro progetto religioso. È stato in questa linea che il filosofo Friedrich Wilhelm Nietzsche aveva bollato Paolo come "disangelista", cioè annunziatore di una cattiva novella, al contrario degli "evangelisti", mentre il nostro Antonio Gramsci sbrigativamente lo classificava come "il Lenin del cristianesimo", ossia un teorico freddo e incline a costruire un sistema, e nell'Ottocento il famoso studioso Ernest Renan non esitava a definire gli scritti paolini come "un pericolo e uno scoglio, la causa dei principali difetti della teologia cristiana".
Noi ora cercheremo di delineare un profilo essenziale e oggettivo di questa figura, "santa per la Chiesa, grande per l'umanità", come diceva lo scrittore francese Victor Hugo, e lo faremo basandoci sui dati neotestamentari. Essi sono sostanzialmente offerti dalla seconda opera di Luca, gli Atti degli Apostoli, e dallo stesso epistolario paolino che allinea tredici scritti contrassegnati in modo esplicito dal nome dell'apostolo, mentre un quattordicesimo, la Lettera agli Ebrei, è stato da tempo escluso dalla paternità paolina. Dobbiamo, però, segnalare che la maggioranza degli studiosi ritiene che solo sette lettere (1 Tessalonicesi, 1 e 2 Corinzi, Galati, Filippesi, Romani e Filemone) siano strettamente di Paolo, mentre le altre sei siano di ambito paolino e, quindi, solo indirettamente derivanti dall'apostolo (naturalmente questo non significa che esse non siano, come le altre, ispirate e canoniche).
Un altro studioso tedesco dell'Ottocento, Adolf Deissmann, aveva definito Paolo "un cosmopolita". Effettivamente egli era figlio di tre culture che già apparivano nella sua ideale "carta d'identità". Il suo nome originario era ebraico, lo stesso del primo re d'Israele, Saul. "Sono un ebreo di Tarso di Cilicia", dichiara al tribunale romano che gli chiede le generalità al momento dell'arresto a Gerusalemme (Atti, xxi, 39). In polemica con i suoi detrattori ebrei di Corinto, rivendica le sue radici: "Sono essi ebrei? Anch'io lo sono. Sono israeliti? Anch'io. Sono stirpe di Abramo? Anch'io" (2 Corinzi, 11, 22). Agli amati cristiani macedoni di Filippi ribadisce vigorosamente di essere "circonciso l'ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la legge" (3, 5). In crescendo ai Romani scrive: "Vorrei essere io stesso maledetto, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e a loro appartengono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi. Da essi proviene Cristo secondo la carne" (ix, 3-5). E ai Galati rivela persino una punta di integralismo nazionalistico: "Essi sono per natura ebrei e non peccatori come le genti" (ii, 15).
Formatosi a Gerusalemme "alla scuola di Gamaliel, nelle più rigide norme della legge dei padri" (Atti, xxii, 3), educato secondo la prassi giudaica anche al lavoro manuale, quello dello skenopoiòs, "fabbricatore di tende" (forse tessitore di peli di capra per stoffe ruvide, dette appunto "cilicium" dalla regione d'origine, la Cilicia, che era la stessa di Paolo), Saulo era però un giudeo della Diaspora, nato a Tarso, "non oscura città della Cilicia", come egli la definisce con civetteria (Atti, xxi, 39). Posta sul fiume Cidno, la città, ora compresa nella Turchia meridionale, era sede di una vivace scuola filosofica stoica, che qualche traccia lasciò nel pensiero dell'apostolo, e godeva del diritto di cittadinanza romana, riconosciutole da Marco Antonio e Augusto. Paolo userà con orgoglio questa dignità di cittadino dell'impero, non solo appellandosi come è noto al tribunale supremo romano (Atti, xxii, 28), ma anche presentandosi in tutte le sue lettere con il suo secondo nome schiettamente latino, Paolo.
La tradizione posteriore, nel iv secolo, non esiterà a creare un epistolario apocrifo tra l'apostolo e Seneca ove incontriamo battute di questo genere. Seneca a Paolo: "Se il nome di un uomo così grande e prediletto da Dio sarà tutt'uno col mio, questo non potrà che essere quanto di meglio per il tuo Seneca". Paolo a Seneca: "Durante le tue riflessioni ti sono state rivelate verità che a pochi la divinità ha concesso il privilegio di conoscere (...) Io semino, allora, in un campo già fertile un seme imperituro, l'immutabile parola di Dio".
Ma Paolo non è solo romano; la sua cultura e la sua attività si muoveranno sempre nell'atmosfera ellenistica. Egli usa il greco in modo creativo, forgiandolo con grande libertà come fosse un ferro incandescente: conosce le risorse retoriche di quella lingua, la rielabora con inventiva attribuendo accezioni inedite a vocaboli come sarx, "carne", pnèuma, "spirito", hamartìa, "peccato", dikaiosyne, "giustizia", soterìa, "salvezza", eleutherìa, "libertà", agàpe, "amore".

La storia di Paolo si consuma, dunque, in un crocevia di culture e le sue tre identità di ebreo, di romano e di greco sono indispensabili per comprenderne l'opera e la vicenda personale, che si svolge in tutto il bacino del Mediterraneo, aprendosi anche al sogno di raggiungere l'estremo capo occidentale, la Spagna (Romani, xv, 22-24).

Storicamente, il punto fermo esterno e "profano" della cronologia paolina è l'incontro dell'apostolo con il proconsole romano Gallione a Corinto (Atti, XVIii, 12-17): un'iscrizione di Delfi ci attesta che costui risiedette nella città greca negli anni 50-51. Da questo nodo cronologico si cerca di ordinare i dati non del tutto combacianti offerti dalle due fonti neotestamentarie già citate, gli Atti e le Lettere paoline.
Partendo dalla conversione al cristianesimo, già ricordata, si possono ricostruire due traiettorie temporali. La prima, fondata sugli Atti degli apostoli, è scandita da tre grandi viaggi missionari di Paolo: dopo il primo, si celebra il "concilio" degli apostoli a Gerusalemme (anni 49-50); si individuano nel 58-60 un biennio di custodia cautelare in attesa di giudizio a Cesarea Marittima e un altro biennio di arresti domiciliari a Roma (60-62), in attesa dell'esito dell'appello presso la suprema corte imperiale.
La morte, preceduta da un'altra detenzione, dovrebbe essere collocata nell'arco degli anni 64-67, ma su questo gli Atti tacciono. La seconda traiettoria, basata sulle Lettere paoline, situerebbe il "concilio" gerosolimitano dopo il secondo viaggio missionario dell'apostolo in Grecia (50-51), introdurrebbe un ampio soggiorno, forse con prigionia, a Efeso (52-55), mentre l'arresto a Gerusalemme e la carcerazione a Cesarea daterebbero dal 56-57, il trasferimento per nave a Roma avverrebbe nell'inverno del 57-58, gli arresti domiciliari romani durerebbero dal 58-60 e nel 60, sotto Nerone, Paolo sarebbe condannato a morte.
Ma, al di là di questa biografia cronologica, la figura di Paolo è decisiva per la storia della Chiesa a livello teologico. Due sono le prospettive aperte dalla sua azione, prospettive decisive per la cristianità. La prima è di ordine pastorale. Paolo lancia il messaggio di Cristo a orizzonti esterni al terreno di partenza, quello ebraico, divenendo in tal modo l'Apostolo delle genti per eccellenza. Egli è fermamente convinto che "non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più maschio né femmina: tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Galati, iii, 28). È una scelta che comporta tensioni all'interno della cristianità delle origini, come è attestato dal citato "concilio" di Gerusalemme (Atti, 15) e dalla polemica Cefa-Pietro, evocata dallo stesso Paolo scrivendo ai Galati. Ma la sua convinzione è irremovibile e sarà attestata da tutto il suo ministero apostolico: "Colui che mi scelse fin dal grembo di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani" (Galati, 1, 15-16).
Naturalmente, questa apertura implica un'elaborazione dello stesso linguaggio e anche un ulteriore approfondimento del messaggio di Cristo. Si apre, così, una seconda prospettiva altrettanto fondamentale, quella strettamente teologica. Paolo offre un suo disegno ideale che è costruito attraverso le sue varie lettere e che ha il suo cuore in Cristo e uno dei suoi nodi principali nella cosiddetta "giustificazione per la fede e per grazia". Essa è formulata per ben tre volte in modo essenziale in un solo versetto della lettera ai Galati: "Riconosciamo che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo. Abbiamo creduto in Cristo Gesù per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge. Dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno" (ii, 16).
Su questa tesi si svilupperà non solo la Lettera ai Galati, ma anche il capolavoro teologico dell'apostolo, la Lettera ai Romani: ma naturalmente i 432 versetti di quest'ultima spaziano verso altre linee e ambiti di pensiero che rendono la teologia di Paolo una stella polare nella riflessione secolare della Chiesa, talora anche come "segno di contraddizione": pensiamo solo alla Riforma protestante e al dibattito sempre vivo e fecondo sul pensiero paolino, un pensiero molto articolato anche sui temi ecclesiali e morali.
Aveva ragione il poeta Mario Luzi quando scriveva: "Paolo è un'enorme figura che emerge dal caos dell'errore e dell'inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza".
E la speranza per l'Apostolo non si poteva fondare che su "Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio" (1 Corinzi, 1, 24).

(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2008)

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