22 giugno 2007

Fede e laicismo nel dialogo fra Ratzinger e Habermas


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L’11/9 S’È SCHIANTATO ANCHE IL LAICISMO

Il suicidio della ragione e la voce fiacca del secolarismo nel dialogo fra Ratzinger e Habermas

di Michael Novak

Dopo la morte di Jacques Derrida, è ragionevolmente corretto attribuire a Jürgen Habermas il ruolo di più grande filosofo vivente. Da qualche decennio a questa parte ormai si ritiene che egli sia ateo; ma negli ultimi sette anni, con modalità inequivocabili, ha iniziato a interrogarsi sui limiti del laicismo. Ha anche iniziato a esprimere alcuni apprezzamenti almeno su un paio di aspetti di quelle religioni che offrono una dimensione trascendente, pur difendendo profondamente la dignità, libertà e responsabilità di ciascun individuo umano. Sembra avere in mente, implicitamente ma più raramente espressamente, religioni come quelle del tipo ebraico e cristiano.
Habermas comincia la sua critica facendo notare quanto molti volutamente tralasciano.
Il laicismo è stato spinto in una nuova posizione nella storia; sembra essere persuasione di una minoranza relativamente piccola in un mare di crescente impegno religioso.
Il laicismo, si chiede, ha acquisito le risorse intere per avviare un dibattito rispettoso con i fedeli? Due novità hanno seminato il dubbio nella sua mente.
Per prima cosa, la tesi secondo cui il mondo umano starebbe diventando sempre più laico, detta “tesi della secolarizzazione”, sembra essere stata smentita decisamente, in parte a causa delle debolezze interne del laicismo. In secondo luogo, il possente risveglio della religione nel Terzo Mondo, ma anche in ampie zone come gli Stati Uniti e l’Europa orientale, indica che l’Europa laica è l’anomalia, non la norma. Nel progetto dell’opera di Habermas, che egli prosegue da tutta la vita, il concetto chiave è la morale della “discussione comunicativa”, una discussione che deriva dalla capacità di ciascun interlocutore di mettersi nei panni dell’altro e imparare a guardare con favore a un punto di vista anche sostanzialmente diverso dal proprio. Solo in questo modo è possibile sfuggire allo stretto egotismo per cui non ci si impegna mai in una discussione reale con gli altri. Dato che il risveglio delle religioni promette di sommergere la sezione atea del mondo, i laici sono in grado di presentare una teoria coerente del perché ciò stia succedendo, sono in grado di radunare la forza morale necessaria non solo a tollerare, ma anche a rispettare i credenti e poi ad addentrarsi nel loro punto di vista? Sono in grado
di farlo, dopo che da tante generazioni a questa parte insegnano lo sdegno culturale nei confronti di chi crede in Dio, dei non illuminati, del popolo dell’oscurità?

Feuerbach ci aveva insegnato che la relazione tra Dio e uomo è un gioco a somma zero, tale per cui quanto è preso all’uno è dato all’altro. Ci ha insegnato poi che è l’uomo che crea Dio a partire dalle sue necessità emotive, e non Dio che crea l’uomo.
Il suo più famoso studente, Karl Marx, si propose di sradicare la religione, come fosse una sorta d’oppio che infiacchisce il proletariato e lo rende passivo.
Perciò molti degli “illuminati” ritengono che l’avanzata della scienza isolerà la religione in uno spazio sempre più stretto, fino alla sua scomparsa.
Dopo alcuni decenni di tali insegnamenti, quando Nietzsche scrisse succintamente l’annuncio “Dio è morto”, non fece altro che proclamare in modo sconvolgente quanto molti sofisticati europei già
credevano. Sigmund Freud aggiunse che il futuro della religione è “Il futuro di un’illusione”.
Un’illusione che, per di più, almeno tra le persone serie, scomparirà; la religione è una dipendenza neurotica. Chiaramente questi grandi analisti trascuravano alcune importanti fonti di vitalità nel mondo che li circondava. Alla fine del XX secolo, la forza rigogliosa della religione in tutto il mondo è innegabile. Invece di chiedersi se la religione sopravvivrà o meno, ci si potrebbe domandare in che forme sopravvivrà il laicismo. Finirà per sembrare sempre più isolato, ammutolito, incapace di comunicare con “linguaggi” nuovi? (…) Il filosofo Alasdair MacIntyre ha osservato che c’è così poco terreno comune fra le varie scuole di pensiero che il dibattito etico razionale è stato ridotto in sezioni acclamanti che, di fronte a una proposizione etica, schiamazzano un ‘Urrah!” o un “Boo!”.
Habermas solleva quattro domande sui limiti del laicismo. Il laicismo scopre alcuni dei suoi limiti. Poco dopo l’11 settembre 2001, quando diciannove musulmani, per la maggior parte studenti laureati e giovani professionisti, guidarono degli aerei di linea carichi di carburante a esplodere in fiamme arancioni nelle Torri Gemelle del World Trade Center di New York e nel basso profilo del Pentagono, il filosofo tenne una conferenza in occasione del conferimento di un importante premio da parte dell’Associazione tedesca delle case editrici e librerie, in cui sconvolse la maggior parte degli ascoltatori sul tema “Fede e Conoscenza”. Il punto centrale del discorso era la necessità che tra gli umanisti laici esistesse una tolleranza
verso le persone di fede, e viceversa; e non solo tolleranza, ma rispetto reciproco e discussione aperta (…) La scienza e la ragione non esauriscono il mondo della percezione, della comprensione e del giudizio.
Un anno più tardi si pronunciò con vigore contro l’ingegneria biologica e la clonazione umana, in un brillante saggio dalle dimensioni imponenti intitolato “In difesa dell’umanità”, in cui scrisse del diritto umano ad esser un’identità umana unica ed espresse repulsione all’idea di un manufatto “umano” prodotto da altri, mero oggetto tra gli oggetti. Nel 2004 accettò l’invito, quasi una sfida da un certo un punto di vista, a partecipare a un dibattito pubblico con il cardinale Joseph Ratzinger, allora a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede, certo non un “liberale” della teologia, per quanto uomo assai istruito, modesto e stimolante (eletto Papa un anno più tardi).
Ancora una volta, sconvolse molti professori accademici e anche tanti giornalisti, affermando apertamente l’importanza della religione per la civiltà e l’obbligo del laicismo di impegnarsi in un confronto serio e onesto con la religione. “Le Sacre Scritture e le tradizioni religiose”, sostenne, “hanno rappresentato nei millenni, con formulazioni e un’ermeneutica acute, le intuizioni sull’errore e la redenzione, sul risultato salvifico di una vita spesso vissuta come se non offrisse speranze”. Un commentatore di tutto rispetto spiega che Habermas sta completando la sua opera precedente: “La vita religiosa mantiene intatte… tutta una serie di sensibilità, sfumature e modi di esprimersi in situazioni che né la sua impostazione ‘postmetafisica’ né una società esclusivamente razionale di esperienza professionale possono affrontare in modo del tutto soddisfacente”.
Il cardinale Ratzinger, da parte sua, sottolineò l’indispensabile necessità della ragione per ridurre la “tossicità” a volte presente nella religione. Ribadì anche il legame essenziale tra la cristianità e il logos greco: ragione e fede insieme, “chiamate a purificarsi e guarirsi vicendevolmente”. Questo dibattito preannunciava già la strenua difesa che il nuovo Papa avrebbe poi tenuto all’Università di Ratisbona, dove era stato vice rettore, nel noto intervento che indusse molti musulmani a reagire, non con la ragione, ma con dimostrazioni violente. La domanda sollevata dalle nuove esplorazioni condotte da Habermas in territori sconosciuti tra il mondo laico e quello religioso era: la maggior parte dei laici ha gli strumenti e, con essi, anche il vigore morale per affrontare un dibattito onesto, rispettoso, dopo tante generazioni di sdegno nei confronti della religione? Il pretesto del nichilismo,
esibito da snob che mancano di serietà nella posa che assumono, è librato in aria dalla bandiera del postmodernismo, che subordina la forza e la legittimità della ragione agli interessi di classe, genere, sesso e razza.

2. Un’altra vena del suo pensiero, cui non è stata data grande attenzione ma presente nel suo capolavoro in due volumi, “Teoria dell’agire comunicativo” (1981), era espressa in una sezione dal titolo tedesco pressoché intraducibile, che significa qualcosa di simile a “la messa in parole del Sacro”. Qui egli sostiene che l’onestà voglia che i laici riconoscano il proprio debito linguistico e concettuale al giudaismo e alla cristianità. (Assai spesso, ma non sempre, quando scrive di “fede” o “religione” pensa a queste due religioni occidentali, non a tutte le religioni del mondo). La domanda è: i laici hanno l’onestà di ammettere apertamente questo debito? Per esempio, Habermas sostiene che le nozioni moderne di uguaglianza e correttezza siano, come scrive Richard Wolin, “distillati laici di precetti da tempo onorati nel mondo giudaico-cristiano”. E ancora, le teorie del “contratto” della filosofia laica moderna possono difficilmente essere comprese se distaccate dal grande prestigio attribuito alle “alleanze”, che hanno un ruolo tanto centrale nella storia ebraica e in quella cristiana. Egli chiarisce di non stare parlando solo di questioni etimologiche o di storia intellettuale. Intende anche il rispetto per temi quali gli obblighi morali e la giustizia, da sempre presenti nella preghiera e nella vita di ebrei e cristiani. Senza di essi, sostiene, è dubbio che le società moderne sarebbero in grado di sostenere le proprie opinioni scientifiche e politiche. In un’intervista più recente, fa una lista concreta di realtà morali che la vita e il pensiero laico non sostengono da soli. Per la comprensione normativa del sé della modernità, la cristianità non ha solo svolto la funzione di precursore o catalizzatore. L’egualitarismo universalistico, da cui derivano gli ideali di libertà e di una vita collettiva nella solidarietà, la possibilità di una vita autonoma e dell’emancipazione, la moralità individuale
della coscienza, i diritti umani e la democrazia è l’eredità diretta dell’etica giudaica della giustizia e dell’etica cristiana dell’amore.

3. Habermas si spinge ad asserire che oggi viviamo in “società post-laiche”; almeno, così pensa, questo vale per gli statunitensi. Il che ha molti benefici positivi per il laicismo, ma fa nascere anche il rischio che ebraismo e cristianesimo insegnino agli esseri umani a sminuire i risultati compiuti dal mondo secolare, l’iniziativa, l’azione, a favore di una passività dinanzi alla volontà di Dio (…) Si preoccupa anche di quei cristiani che ritengono che “la caduta” di Adamo danneggi tanto gravemente la natura umana da impedire che ne possa venire alcun bene intrinseco. Ci sono ancora tanti cristiani del genere nell’ottimista America?
Habermas coglie correttamente le teologie cristiane della caduta? Un professore di un college calvinista nel Mid-west statunitense mi disse una volta che il modo migliore di descrivere con esattezza il peccato originale è questo: “Chiunque dica che l’uomo è totalmente depravato non può essere del tutto cattivo” (…) La domanda è: la maggior parte degli uomini e delle donne laici vedrà il buon senso della diagnosi di Habermas, per cui, di tanto in tanto, i migliori e i più alti ideali laici, i diritti umani, la solidarietà, l’uguaglianza, traggono beneficio da “un rinnovato contatto con il nimbo della loro origine sacra?”

4. Nel 2005, in una conferenza all’Università di Lodz in Polonia sulla “Religione nella sfera pubblica”, il filosofo pose ai laici un’altra domanda: sono pronti ad ammettere che la tolleranza è sempre una strada a doppio senso? Non sono solo le persone di fede a dover essere pronte a imparare a tollerare le convinzioni e gli impegni altrui, ma anche gli atei, gli agnostici e gli altri laici.
Similmente, i laici non credenti devono imparare ad apprezzare il credo, i ragionamenti e le convinzioni dei loro fratelli esseri umani che hanno una fede (…) Come ha notato Pierre Manent, la storia delle ultime sei o sette generazioni sembra dimostrare che il cristianesimo ha trovato più facile identificarsi con la democrazia, e l’ha fatto meglio, rispetto a quanto i laici siano stati in grado di mettersi nei panni dei cristiani e degli altri cittadini che si trovavano tra di
loro e che traevano la propria energia da religioni antiche e in costante, spontaneo rinnovamento (…) Habermas non vuole mettere i credenti in una situazione di svantaggio, anche se ritiene che tutte le parti, credenti compresi, debbano fare del proprio meglio per proporre ragioni comprensibili agli altri. Una lingua limitata alle categorie laiche ha le sue tendenze totalitarie; penalizza o addirittura relega in quarantena chi parte da un punto di vista religioso, le cui opinioni e argomentazioni pubbliche elaborate secondo questa logica non ricevono il giusto spazio e peso ad opera di funzionari strettamente laici (…) Il secolarismo non è in grado di motivare i giovani ad avere figli. La modernità secolare è in grado di offrire ben pochi motivi perché chi è religioso, come i musulmani, cambi il proprio impegno religioso. Perchè dovrebbero scambiare esperienza, chiarezza e certezza con il relativismo? (…) Allarmarsi per la violenza commessa in nome della religione, come l’uccisione sanguinosa di Theo van Gogh, significa cessare di essere relativisti, scoprire la realtà del male e provare a combatterlo.
Giudaismo e cristianesimo spiegano questa sequenza meglio dell’umanesimo secolare in voga oggi (…) Il secolarismo non ha voce di fronte alla morte, al peccato, alla sofferenza umana e alla tragedia “senza significato”. La sua voce suona fiacca.
E’ curioso ricordare che, durante una serie di conferenze all’Università della Virginia nel 1928, Walter Lippmann fece un’osservazione parallela sul famoso processo Scopes, celebrato tre anni prima. In una conferenza impostata come una conversazione, il “Fondamentalista” dice al suo interlocutore “Modernista”: “Nelle nostre controversie pubbliche ti piace sostenere di essere di larghe vedute, tollerante e neutrale davanti a opinioni in conflitto con la tua. Non è così perché per me c’è in gioco un piano eterno di salvezza. Per te non ci sono che poche opinioni incerte, nessuna delle quali significa nulla per la tua felicità.
Quando mi chiedi di essere tollerante e affabile, perciò, mi suggerisci di subordinare il fondamento della mia vita agli effetti
distruttivi del tuo scetticismo, della tua indifferenza e della tua buona natura. Mi chiedi di sorridere e commettere suicidio”.
Il Modernista non coglie la resa totale che chiede al credente, che dovrebbe subordinare una fonte di conoscenza (la fede) a un’altra (la ragione), quando la seconda gli sembra essere inferiore.
La sfida parallela che Habermas lancia ai laici, allora, è ancora più nuova: che essi, ora, vivano in un’era “post-laica”, e non si accontentino solo della comprensione delle realtà sociali da un punto di vista meramente laico. Anche loro devono entrare in quel dialogo a doppio senso che porta a mettersi nei panni dei credenti, a guardare al loro orizzonte dal loro punto di vista, proprio come ci aspettiamo dai credenti nei confronti dei laici. Se vogliamo che le tenere radici di una qualche sorta di democrazia universale possano avere la speranza di sopravvivere e diffondersi nel mondo, questi concetti, queste conquiste che vanno in direzione di un ethos universale della comunicazione pubblica e della disponibilità reciproca a tendere la mano per capire gli altri dall’interno costituiranno un contributo indispensabile. Ma queste nuove regole per la discussione pubblica rinegoziano anche la preminenza storica che “gli illuminati” si assegnano da sé e le
espressioni di sufficienza con cui hanno preso tutt’altro che seriamente i credenti.
E fanno appello ai laici, affinché anch’essi siano pronti ad imparare, e a essere padroni della nuova morale della discussione comunicativa, una morale che esige un canale a doppio senso di mutuo rispetto.


Estratto dell’intervento al convegno “Il pensiero politico dopo il 1989”, Università San Pio V, Roma 22.06.07 (traduzione di Elia Rigoglio)

© Copyright Il Foglio, 22 giugno 2007

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