31 luglio 2007

Cardinale Scola: la teologia torni nelle universita' statali


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La teologia? Torni all’università

di Alberto Laggia


Il patriarca di Venezia, esponente di primo piano del movimento di Comunione e liberazione, ritiene giunto ormai il tempo per mettere fine all’ostracismo della teologia cattolica dalle facoltà italiane. E tratteggia i contorni di quella «nuova laicità» per cui, anche nell’istruzione, vale la formula «meno Stato, più società».

Il progredire dell’autonomia universitaria e l’emergente interesse per il fenomeno "religione" potrebbero portare a un riavvicinamento "storico" tra l’insegnamento della teologia e l’università statale in Italia. Anzi questo riavvicinamento sta già procedendo, in forme di collaborazione tra facoltà. L’ipotesi è del cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia ma soprattutto uomo che nelle università ha speso quarant’anni della propria vita: prima come studente (a Filosofia presso la Cattolica di Milano, dov’è stato pure presidente della Fuci dal 1965 al ’67 e impegnato come responsabile degli universitari dell’allora nascente Comunione e liberazione, poi a Teologia all’Università di Friburgo, in Svizzera), quindi come docente (Antropologia teologica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia dal 1982 al 1995), infine come rettore della Pontificia Università Lateranense dal luglio 1995 al gennaio 2002.

Quasi un’esistenza intera vissuta tra le aule degli atenei, trascorsa "in prima linea", in modo "militante" si sarebbe detto qualche tempo fa, dentro le associazioni studentesche cattoliche proprio a partire dagli anni in cui dentro le università passava la critica più radicale della società. Un’esperienza che trasforma: «Considero quello dell’università il tempo privilegiato nella vita di un uomo e di una donna. Non verrà più un tempo così», commenta con passione.

Lo abbiamo intervistato su questi temi, "pubblicamente" di fronte a un centinaio di studenti all’Università di Ca’ Foscari, a Venezia, in occasione del 25° anniversario di fondazione della Casa studentesca Santa Fosca, centro della diocesi veneziana. Dalle considerazioni di Scola, esponente di primo piano di Comunione e liberazione e unico cardinale del movimento fondato da don Luigi Giussani, esce un’immagine assai poco scontata dell’università: gli atenei universitari sono un «microcosmo della società», palestre di «laicità», in debito sì di partecipazione, ma con un ruolo sociale «paradigmatico» di fondamentale importanza.

L’università è il luogo del pluralismo. Eppure oggi non esistono cattedre o facoltà di teologia all’interno delle università statali italiane. Esistono ancora le condizioni che portarono a quell’esclusione? È pensabile un ritorno della teologia nelle aule delle università?

«Bisogna, anzitutto, fare almeno un cenno al dato storico: le facoltà di teologia non esistono perché sono state soppresse, a loro tempo, da leggi non certo clericali. Però, quando ciò è avvenuto erano già diventate filiformi. Bisognerebbe iscrivere questo dato storico nel processo evolutivo dell’università in Italia e in Europa. Negli Stati Uniti è stato ben analizzato dal filosofo morale Alasdair Macintyre in Enciclopedia, genealogia e tradizione. A partire dalle scienze antiche del Trivio e del Quadrivio, l’università sorge di fatto, nel Medioevo, dalle facoltà di teologia. Poi, dopo il grande passaggio della modernità, la scoperta delle scienze sperimentali, la filosofia autonoma, il "ricominciar daccapo" di Cartesio, il "nuovo" mondo, la rottura dell’unità tra i cristiani, e il progressivo moltiplicarsi dei saperi, (come diceva Popper, "il bisogno della demarcazione dei saperi") spingono la teologia sempre più ai margini. Quest’ultima non riesce più a interloquire con la realtà, perché si pone in modo eccessivamente difensivo; diventa assai sofisticata, afferra l’obiezione e la sminuzza articolatamente. Ma intanto, senza rendersene conto, finisce per assumere la logica dell’avversario. Formalmente lo batte sui contenuti, ma di fatto ne sposa la logica».

La crisi della teologia è la stessa che avrebbe poi coinvolto la filosofia?

«Sì, rendendola sempre più astratta e arida. La filosofia sopravvive nell’università perché ha rinunciato a porsi la grande domanda che, secondo il filosofo positivista francese Auguste Comte, non andava più posta: che cos’è la verità? Quale senso ha quell’esserci singolare dell’uomo – il dasein come direbbe Martin Heidegger – che si pone delle domande. Quindi la filosofia rischia di sopravvivere unicamente come una somma di filosofie; quelle che quarant’anni anni fa si chiamavano "filosofie seconde": ermeneutiche delle scienze, filosofia dell’arte, dell’estetica, eccetera. Ma non si gioca più sulla sostanza, e cioè sulla domanda: Quid est veritas?».

Così la teologia è stata tolta dal contesto delle materie scientifiche e la filosofia messa ai margini. Ma che fare, allora? È possibile in altri termini un’università nuova che riponga la domanda fondamentale?

«Anzitutto, bisogna accettare la provocazione della realtà. Nelle università italiane sono state introdotte le lauree specialistiche, tra le quali quelle in Scienze religiose. Purtroppo sono ancora un insieme un po’ confuso di discipline ancora abbagliato dalla pretesa, come spesso avviene per la tentazione enciclopedica, di possedere tutti i saperi: bisogna imparare il buddhismo, imparare l’islam, eccetera. Comunque sia, c’è un ritorno massiccio del "religioso", e non più solo sotto le mentite spoglie delle "scienze umane" (psicologia della religione, sociologia della religione, o simili). Ora la questione viene fuori frontalmente, sia pure dentro questo clima un po’ sincretistico, di carattere interreligioso».

E dunque?

«Io credo che si debba accogliere positivamente questa provocazione e accettare la sfida culturale che l’oggi ci lancia: anche qui sta il senso e il fascino di una presenza cristiana in università. Partendo dall’esperienza cristiana vissuta, è impossibile che non riemerga anche l’interrogativo circa quella visione sistematica e critica dell’esperienza cristiana, che è la teologia. Credo, insomma, che la soppressione e insieme l’autoesclusione della teologia possa essere superata nei fatti affrontando la novità delle cose».

Segnali positivi in questo senso?

«Un fenomeno molto interessante è la neonata Facoltà teologica del Triveneto, sorta come "facoltà a rete", con una sede centrale a Padova, ma frequentabile in tutti i capoluoghi del Nordest. Si tratta di un percorso teologico finalmente agganciato alla realtà. Per esempio lo Studium Generale Marcianum si sta preparando a lanciare l’anno prossimo le prime lauree specialistiche in Beni culturali e in Bioetica. Non più quindi una teologia che sta fuori del reale, ma neanche una teologia che deve accettare di ridursi ad ancella di una scienza umana per avere la dignità e il diritto di cittadinanza in università. Ora, se l’autonomia universitaria va avanti, credo che la dislocazione giuridica della facoltà di Teologia rispetto all’università statale possa non essere più un’obiezione insormontabile, tanto è vero che si sono stabiliti già moltissimi rapporti. Per esempio a Verona quest’anno prenderà avvio un master frutto della collaborazione tra la nostra facoltà di Teologia e la facoltà di Scienze dell’educazione».

Veniamo ai problemi delle nostre università. Recenti indagini negli atenei evidenziano la tendenza degli studenti italiani a vivere in modo sempre più individualistico l’esperienza universitaria: frequenza in aula e agli esami e poco più. Siamo, cioè, lontani dallo stile "campus". Come trasformare l’università in comunità e luoghi di confronto di idee e d’esperienze?

«Reputo un grave limite l’uso "individualistico" dell’università e la sistematica "non frequenza" alle lezioni, una tendenza troppo diffusa in Italia. La dimensione comunitaria dell’università, che è communitas docentium et studentium, o societas, come dicevano i fondatori medievali, è componente essenziale della vita universitaria, la più potente risorsa per realizzare al meglio lo scopo dell’università, cioè l’apprendimento critico, sistematico e organico del sapere da parte dello studente. Proprio questa componente di "sodalizio" è il "di più" che oggi offrono le università più avanzate, da quelle inglesi a quelle americane».

Le viene in mente qualche esempio?

«Ho sempre davanti agli occhi l’esperienza che ho vissuto al Mit di Boston, visitando il grande MediaLab di Nicholas Negroponte, questo edificio spettacoloso di molti piani con laboratori a cui sono ammessi, su concorso, soltanto quattrocento studenti provenienti da tutto il mondo, con altrettanti docenti a loro disposizione. Quel che impressiona qui sono certamente gli spazi comuni di ricerca e di lavoro in tutte le tecnologie mass mediatiche, ma soprattutto il fatto che è la comunità studentesca a farsi carico di tutto. Non c’è un bidello, non c’è un inserviente. Fanno tutto gli studenti: dal tenere pulite le toilettes fino al servizio di caffetteria, così si pagano sia la retta che il posto in collegio. E stanno insieme dalla mattina alla sera. E, cosa assai interessante del MediaLab dove si realizzano moltissimi brevetti, il diritto al brevetto dello studente è rigorosamente rispettato. Cioè, quando all’interno dell’équipe è lo studente a fare la scoperta, è lui che la brevetta, anche se è soltanto una matricola. Insomma, si ha di fronte una comunità naturale, internazionale, aperta, che potenzia enormemente le capacità del singolo. È evidente, d’altra parte, che lo studio e la ricerca possiedono un’insopprimibile dimensione personale. Hegel diceva che a nessuno è risparmiata la fatica del concetto. Ma questa capacità personale di studio e di ricerca fiorisce su un terreno comunitario. E l’humus comunitario, come ci ha insegnato chi in Europa l’ha reso universalmente accessibile, cioè il benedettinismo, ha bisogno della stabilitas loci, cioè una residenza nella sede universitaria. Basta conoscere Oxford o Cambridge per capire la forza dei collegi».

Lei importerebbe questo modello d’insegnamento in Italia?

«Questo modello di insegnamento, che ha i suoi limiti, mette al primo posto il rapporto personale docente-discente, rispetto al modello della lezione magisteriale. Credo che in Italia si dovrebbero fondere i tre grandi modelli: il nostro, che si basa sulla lectio magistralis, quello appunto oxfordiano o comunque anglosassone, fondato sul rapporto docente-studente, e quello americano caratterizzato dal percorso sui grandi autori, sui grandi libri».

A proposito di scarsa partecipazione degli studenti alla vita universitaria, lei ha vissuto in prima persona l’esperienza del ’68. Allora era presidente della Fuci milanese. Che giudizio dà della cosiddetta "rivoluzione studentesca"?

«Anzitutto mi chiederei perché uno studente partecipa, cioè prende parte a un’opera comune. Qual è il movente che lo spinge? Due sono le possibilità: o partecipa perché intuisce che questa è la modalità più adeguata per raggiungere l’obiettivo compiuto dell’essere in università, cioè acquisire una dimensione stabile di "edificazione", perciò di rapporto di lavoro con la realtà. Perché intuisce che la responsabilità verso quel luogo, verso l’alma mater, fa parte del compimento del proprio io. O lo fa per calcolo: con un movente, come dire, "politico", che però non gli permette di afferrare fino in fondo la realtà. Questo era il concetto di partecipazione della mia generazione. In università la partecipazione era mediata dalle associazioni studentesche dei vari partiti in cui si preparavano i quadri in vista della carriera politica. Ma quando è arrivato il ’68, ha spazzato via tutti. Nessuno all’inizio aveva colto questa novità, tanto era abissale il distacco dell’associazionismo dalla realtà. Pure le nostre associazioni cattoliche non avevano neanche lontanamente percepito il ’68. Eravamo, appunto, fuori dalla realtà».

Cosa è stato, dunque, il ’68?

«Sul ’68 ho un giudizio un po’ diverso rispetto a quello che molti – spesso anche cattolici – danno. Considero l’inizio di quell’avventura come una cosa formidabile, al di là di talune esagerazioni. Ma l’iniziale spinta di autentica novità è stata soffocata quasi subito, soprattutto in Italia, quando sono arrivate dalla Normale di Pisa le famose "tesi del potere studentesco". Quando cioè le forze sociali più organizzate – le varie forme di marxismo-leninismo – si sono impossessate ideologicamente di un fenomeno che era nato come fenomeno di popolo nell’università. E questo nei primi mesi delle rivolte a Parigi si è visto molto bene. Come lo si è visto alla Cattolica a Milano. Da qui poi la saldatura con il metodo della violenza, che purtroppo ha trovato nei "guru" del pensiero di allora dei giustificatori invece che dei critici».

Passiamo a un altro tema a lei caro: la laicità dell’università. Quale università sogna?

«Cominciamo dalla questione della natura laica dell’università. Io sono profondamente convinto che noi non risolveremo in maniera accettabile e pacifica il problema della convivenza tra soggetti personali e comunitari così differenziati nel nostro Paese (quello che io ho chiamato "una nuova laicità"), se l’università non tornerà a essere un luogo che testimonia in actu exercitu che una realtà plurale e rispettosa di ognuno riesce a valorizzare tutti i soggetti. In questo senso sono convinto, contrariamente a quanto si tende a sostenere, che l’università possieda un ruolo di paradigma, di "microsocietà", che è inesorabilmente, nel bene e nel male, ancora oggi trainante. E lo sarà in modo particolare per la situazione italiana. I tanti lamenti circa la crisi dell’università, perciò, sono fuori luogo. Da secoli si parla di questa crisi: già Nietzsche si allontanò dall’università da giovane, perché era un istituto in crisi».

Quale futuro vede per l’università, allora?

«Penso che l’università, in ordine al tasso di democrazia sostanziale che una società è capace di proporre ai suoi cittadini, abbia una funzione sociale paradigmatica. E sono convinto che una vera societas laica sia quella in cui tutti i soggetti presenti sono incentivati a manifestarsi pubblicamente, a raccontarsi, in vista di un comune riconoscimento e della costruzione di una vita buona. Nella realtà di un Paese, diversa è la società civile rispetto all’organismo statuale: la società civile è il luogo in cui vive la partecipazione del popolo, in cui la democrazia si attua, in cui la pluralità di soggetti si incontra, si confronta e si racconta per riconoscersi. Perciò il bonum, il bene comune, si realizza nella società civile. Il compito dello Stato, delle autorità statali, è di regolare questa vita. E ciò che si può fare nella società, nell’università lo si dovrebbe poter fare all’ennesima potenza. Ecco perché è un delitto sottrarsi alla testimonianza e alla partecipazione».

In concreto cosa significa questo per l’università?

«Quando propugno una libertà di educazione, non intendo affatto, utilitaristicamente, ridurre la portata del discorso agli aiuti alla scuola cattolica, ma chiedo di ridisegnare il sistema scolastico-universitario del Paese. Di tutto il Paese. Modulando diversamente il peso della società civile, che dev’essere prevalente, soprattutto laddove si tratta di ricerca, di insegnamento e di studio, rispetto al peso dell’organismo di controllo, dello Stato. Dico che lo Stato deve governare e non gestire. E in questo senso spero che l’autonomia dell’università vada veramente avanti. Spero che l’idea delle Fondazioni di partecipazione si faccia strada. Spero che si possa introdurre anche in Italia il metodo della detassazione da parte di chi si dispone ad aiutare l’università. Ad esempio, è chiaro che a Venezia occorre inventare un’università tutta particolare, data la peculiarità della città; non si può dipendere in continuazione da circolari ministeriali che vengono da Roma e che sono le stesse per Ca’ Foscari, la Bocconi, il Politecnico o La Sapienza. Bisogna modulare l’università sulle nostre esigenze. Insomma bisogna dare alla communitas docentium et studentium, ben governata, l’autonomia necessaria per costruire università di questo tipo».

© Copyright Jesus, luglio 2007

7 commenti:

francesco ha detto...

pienamente d'accordo!!! fine dell'orina di religione; facoltà statali di teologia e corso di religione (almeno di due ore settimanali) nelle scuole medie e inferiori... un sogno???

Anonimo ha detto...

Si',caro Francesco, forse e' un sogno ma non fa certo male :-)
Mi piacerebbe che nell'oretta di religione si parlasse di Dio e non di attualita'. Personalmente non sono stata toccata dal problema perche' il mio professore di religione era un Gesuita molto severo...faceva anche compitini a sorpresa :-O
Un giorno, lamentandosi per le chiacchiere che aleggiavano in classe, ci disse che avevamo la lingua cosi' lunga da poter fare la comunione in basilica stando comodamente seduti in classe :-)

Anonimo ha detto...

non vedo nulla di male ad aprire dei Corsi di Laurea in Teologia!
Sorgeranno delle polemiche( attentanto lla laicità dello stato...che stress!) Ma ai giornalisti bisognerà far notare che questi Corsi non formeranno fonamentalisti che daranno vita auno stato retto da una legge completamente religiosa.
Sarei Contenta se il nostro Patriarca ( nostro, perchè essendo io friulana è acapo nella conferenza episcopale del Triveneto) diventasse Prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede. Ha buone idee.

Anonimo ha detto...

Ciao Cindy, sei fortunata ad avere Scola come Patriarca :-))

francesco ha detto...

quest'anno ho insegnato in un ginnasio: una cosa inutile! l'ora di religione così non ha molto senso e pochissima efficacia...

Anonimo ha detto...

Perché non l’ha trasformata in una sana oretta di “educazione civica” del buon cittadino cristiano?!?

euge ha detto...

Sono d'accordo per l'ora di teologia ........... ma, non facciamo la stupidaggine di proporla facoltativa sarebbe inutile!!!!!!!!!! E' ora che si ricominci a studiare la religione e nel caso specifico anche la teologia nelle scuole ed università statali in modo serio!!!!!!!!!!!