31 luglio 2007

Teologia nelle universita' statali? Qualche opinione...


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Che cosa unisce e che cosa divide quelli che vogliono riscoprire la teologia anche nelle università pubbliche

di Marco Burini

Di cosa parliamo quando parliamo di teologia? Il prefisso piace, lo si usa molto per chiacchierare sui giornali.
Teocon, teodem, teopop, teoprogressisti(letto pochi giorni fa sul Corriere), giochini lessicali anche divertenti ma utili soprattutto a defilarsi di fronte alla parola tutta intera che non si sa mai bene come maneggiare. Tolto il logos resta il teo, una sillaba da lessico sms, un cappelletto, ma la teologia tutta intera non è un accessorio, è un abito completo.
La provocazione del cardinale Scola, che nell’ultimo numero di “Jesus”, il mensile delle Edizioni Paoline, ha caldeggiato il ritorno dell’insegnamento della teologia nelle università statali, increspa le onde di uno stagno culturale troppo cheto. Il patriarca di Venezia ha speso quarant’anni in università: prima studente di filosofia alla Cattolica di Milano, dov’è stato pure presidente della Fuci dal ’65 al ’67 e responsabile degli universitari dell’allora nascente Comunione e liberazione, quindi studente di teologia all’Università di Friburgo, Svizzera, poi docente di antropologia teologica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, dall’82 al ’95, infine rettore della Pontificia Università Lateranense dal ’95 al gennaio
2002. Il pedigree è quello giusto. Da tempo sta dispiegando un suo progetto culturale fatto di omelie, convegni, riviste, e interventi
come questo, in cui rimette sulla piazza la teologia non senza avergli dato prima una bella sferzata: “Non riesce più a interloquire con la realtà, perché si pone in modo eccessivamente difensivo; diventa assai sofisticata, afferra l’obiezione e la sminuzza articolatamente.
Ma intanto, senza rendersene conto, finisce per assumere la logica dell’avversario.
Formalmente lo batte sui contenuti, ma di fatto ne sposa la logica”. Intanto, i corsi di scienze religiose disseminati per ogni dove sembrano guidati più da uno spirito enciclopedico (apprendere l’islam, il buddismo, le nuove religioni, ecc.) che da un’effettiva volontà di elaborare un sapere critico della fede.
Scola però non esplicita il modo in cui la teologia potrebbe tornare negli atenei statali. Quando si tratta di scendere nel concreto, preferisce sponsorizzare la Facoltà teologica del Triveneto, frutto del suo dinamismo imprenditoriale, tipico della migliore tradizione ciellina, che ha irritato i teologi della casa madre milanese da cui si è staccata, poco tempo fa, quella Facoltà teologica dell’Italia settentrionale nata a Milano nel ’67 per impulso del cardinale Colombo. Giuseppe Angelini e Pierangelo Sequeri, le due colonne della facoltà, si sono sentiti scavalcati
e messi in minoranza dalle mosse dell’episcopato. Anche la recente nomina dell’attuale preside della facoltà, Franco Giulio Brambilla, a vescovo ausiliare della diocesi di Milano va in questa direzione. Brambilla, subentrato ad Angelini con un cambio di linea politica, ha sempre avuto un atteggiamento dialogante con Tettamanzi e ha tenuto a battesimo la neonata Facoltà del Triveneto. Questi particolari da retrobottega non sono insignificanti.
La teologia italiana è fatta di correnti e di scuole le più diverse, di aree di influenza che si evolvono, di parrocchie talvolta litigiose e gelose, di splendidi solisti e di abili divulgatori; la dialettica col magistero a volte è turbolenta, in altri casi si fatica a distinguere l’una dall’altro.
Chi sta al centro di questo mondo è Piero Coda, docente di teologia dogmatica alla Lateranense e presidente dell’Ati, l’associazione dei teologi italiani: “L’intervento di Scola è una provocazione importante e pertinente, speriamo che inneschi un dialogo ampio e approfondito.
Materia per discutere ce n’è.
In Italia e in Europa assistiamo a un periodo di radicale transizione e la stessa università va ripensata in base ai parametri del processo di Bologna”. Secondo Coda, si tratta di “una questione di vita o di morte: la cultura contemporanea si è costituita per opposizione al sapere teologico, ma oggi si avverte la necessità di ristabilire un contatto”. Per farlo, “bisogna uscire dagli stereotipi ideologici. Per fortuna ci sono intellettuali avveduti che l’hanno capito”. E Coda prova a dialogare con loro: a settembre è in programma il congresso dell’Ati, che quest’anno ha come tema “L’identità e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana nel farsi dell’umano”, e come ospiti Umberto Galimberti e Laura Boella. Resta il fatto che “la teologia cristiana non è mai asettica, si radica in una esperienza pastorale che rende produttivo il dialogo” con chiunque sia interessato a ragionare sulla fede. In questo senso, “più che facoltà di teologia nelle università statali punterei a un maggior numero di insegnamenti teologici nel tessuto che già esiste e a laboratori di ricerca”. La solita parola d’ordine, interdisciplinarietà:
“No, penso piuttosto a una transdisciplinarietà, a uno spazio relazionale tra le discipline in maniera tale da far emergere dati, conoscenze, che una disciplina da sola non potrebbe raggiungere”.
E’ l’idea di Edgard Morin: “Le scienze, i saperi sono come il grano, ma il pensiero e la filosofia sono come il mulino. Le une hanno bisogno dell’altro”.
Il sociologo francese nell’ingranaggio non contempla la teologia, che nel romanzo del sapere occidentale recita la parte della gemella assente, ma senza di essa le pale di quel mulino non girerebbero nemmeno agli occhi di Don Chisciotte. Lo sa bene Emanuele Severino, il principe dei nostri filosofi, che di sacro commercio con la teologia è avvezzo da una vita. Allievo del neotomista Gustavo Bontadini, dal ’54 al ’70 ha insegnato filosofia teoretica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, che lasciò quando la Congregazione per la Dottrina della fede dichiarò l’incompatibilità del suo pensiero con la dottrina. “Il cardinale
Scola è stato mio allievo in Cattolica, mi fa piacere che ricordi ancora qualcosa delle mie lezioni. Sono d’accordo con lui quando mette in primo piano il tema della verità. D’altra parte non è una questione trascurata dai teologi.
Non mi pare che Pierangelo Sequeri possa essere accusato di non occuparsi del problema della verità, e nemmeno Piero Coda o Bruno Forte, anche se Sequeri e Coda hanno familiarità col mio discorso filosofico”. Severino si riferisce in particolare a “La struttura originaria” (prima edizione 1958) e agli “Studi di filosofia della prassi” (prima edizione 1962) in cui la verità scaturisce dal nesso fede-ragione. I problemi nascono quando si tratta di precisare i due termini, e qui la distanza del filosofo di Brescia con la teologia cristiana è evidente.
Ciò non toglie, anzi stimola il suo interesse per la proposta del patriarca di Venezia: “Scindere filosofia e teologia non ha senso. Una facoltà di teologia è auspicabile, purché non si discosti dall’insegnamento filosofico”. Sì, ma quale teologia? “Una facoltà di teologia deve tenere conto delle diverse religioni, non dovrebbe esserci una semplice lettura cristiana delle altre religioni”. In realtà, Severino non pensa a una filosofia della religione o delle religioni, peraltro già presente negli atenei, ma a “una teologia che non sia accaparrata dal cristianesimo”. Anche in termini pratici, “dovrebbe essere una facoltà autonoma dal magistero, altrimenti sarebbe controproducente, contrasterebbe
con la necessità del dialogo. E’ come se un genitore volesse imporre il proprio punto di vista, alla fine otterrebbe il contrario”. Insomma è d’accordo con Cacciari: “Una facoltà con docenti nominati complicherebbe solo le cose e tra l’altro imporrebbe una revisione del concordato”. E se si perseguisse anche
questa strada? “Lo facciano, se sono capaci e hanno la maggioranza. Resterebbe comunque un atto di forza”. A parte le interpretazioni sul Sessantotto in cui Scola e Benedetto XVI divergono, benevolo il primo e critico il secondo, l’iniziativa del cardinale può essere inscritta nel solco del pontificato ratzingeriano, quello della fides quaerens intellectum?
Severino ritiene che la razionalità a servizio della fede “è un’impresa consistente: per il Papa la ragione è vera solo se unita alla fede, sulla scia di Bonaventura, Anselmo e Agostino. In questo senso va anche il lavoro di Scola. Ma anche il discorso di Sequeri è lo stesso: adottando il mio concetto di struttura originaria del sapere, il teologo milanese sostiene che la ragione è tale solo se unita alla fede. Così facendo, però, tutti costoro si discostano dalla neoscolastica elaborata in Cattolica e a Lovanio, dove si intendeva tener ferma la capacità della ragione di sostenersi da sola, autonomamente, secondo il modello del duplex ordo cognitionis”. Una svolta che a Severino non piace: “Mi pare il sintomo di un arroccamento per paura che l’avversario entri nella fortezza”. In realtà non sembra che il timore sia l’atteggiamento dominante tra i teologi, che invece hanno una gran voglia di spiegare e spiegarsi. A partire dall’attuale Pontefice, cresciuto nell’ambiente universitario tedesco dove ancora esistono
facoltà statali di teologia (Hochschulen).
Con un Papa teologo qualcosa potrebbe cambiare anche da noi. Oppure no. Ma che la questione gli stia a cuore è fuor di dubbio. Il discorso di Ratisbona era incentrato proprio sulla sua passione per l’università, di cui si sente ancora parte, un luogo in cui fare esperienza “del fatto che noi formiamo un tutto e lavoriamo
nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni”. Niente di troppo barboso, intendiamoci, se lo stesso Benedetto XVI era pronto a scherzarci sopra: “Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c’era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – Dio”.
Il fastidio mal dissimulato di molti cattedratici per quelle che sono viste come delle indebite intrusioni (ma come, un uomo di chiesa che ragiona e invita a ragionare?), questo sì assomiglia molto a un arrocco. Quasi quotidianamente si leggono opinioni malmostose e disinformate.
Pochi giorni fa Luciano Canfora* sul Corriere parlava del “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI e sentenziava che “la ricostruzione biografica della persona di Gesù è un esempio concreto, e autorevole, di incursione acritica nello studio del passato” che “allontana le menti dal piacere dell’indagine storico-critica sul passato”.
A parte il fatto che il libro del Papa non è una biografia, non si vede dove manchi di discernimento.
Forse, è solo un altro modello di lettura
. Se è vero che lo spirito critico nacque dall’analisi dei testi sacri, per continuare a vivere non gli conviene tagliare il ramo su cui è seduto, magari in nome di un’intangibilità del metodo che sa tanto di feticismo. E allora si capisce che di teologia, insieme a Spinoza, c’è bisogno. Perché la teologia non è dogmatismo così come il dogma non è quella caricatura che tanti amano fare.
A proposito di scrittura, è da prendere in considerazione l’accusa di Pietro Citati: “Perché tanti teologi e studiosi cattolici scrivono così male? Lo stile non è un ornamento, ma il segno”. In
questo, però, sono in ottima compagnia con il resto dell’accademia. Dove sarebbe interessante far entrare una ventata d’aria fresca. Sarebbe anche un modo per dare più spazio alle donne, che non da oggi macinano teologia di altissimo livello. Teologia pubblica, teologia in pubblico, senza accontentarsi di prefissi e di rendite di posizione.

© Copyright Il Foglio, 31 luglio 2007

* Non ho trovato l'articolo di Canfora.

2 commenti:

eufemia budicin ha detto...

Questo è l'articolo del Corriere
- Pagina: 027
(23 luglio, 2007) Corriere della Sera


LAICITÀ Erasmo, Bruno, Spinoza padri di un pensiero che mette in discussione i dogmi. E riporta la Bibbia alle sue origini

Filologia e libertà
Lo spirito critico nacque dall' analisi dei testi sacri

Due «fatti di cronaca» sembrano riportare il latino all' attenzione dei moderni. Da un lato il ripristino, opzionale, della messa in latino; dall' altro lo sproloquio con cui l' ex ministro Berlinguer, già impegnato demolitore dell' università italiana, spiega, dalle colonne del manifesto, che per giovare alla nostra scuola bisogna mettere alla porta i classici. Sembrerebbero due posizioni opposte. Da un lato il pontefice attuale, che pian piano vanifica i risultati del Vaticano II. Dall' altro l' innovatore «sessantottesco» che del passato vuol fare table rase, tabula rasa: e non già nel senso economico-sociale del celebre canto proletario, ma nel senso letterale, di propugnata e teorizzata dimenticanza del passato, della storia. Eppure non sono così lontani, i due. Il latino immobile ed extrastorico della liturgia, nemmeno compiutamente compreso dalla gran parte dei destinatari, è l' emblema di uno stile acritico nella percezione del passato. Alimento alle grossolanità dei propugnatori della tabula rasa. Del resto anche la ricostruzione biografica della persona di Gesù - cui l' attuale pontefice da tempo si dedica e che ha fatto dire al cardinale Martini che quella non è opera di un filologo - è un esempio concreto, e autorevole, di incursione acritica nello studio del passato. Essa allontana le menti dal piacere dell' indagine storico-critica sul passato. È invece una storia affascinante quella della libertà di pensiero vista attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della critica sui testi. Il campo in cui primamente in età moderna tale critica provò a dispiegarsi fu appunto quello delle «Scritture» dette «sacre» (un aggettivo che di per sé scoraggia la critica): e l' antagonista tenace, quando non minacciosamente repressivo, di una tale forma di libertà fu la Chiesa, furono le Chiese. Dal lungo processo di definizione di quel che poteva accettarsi come «canonico» alla «stretta» tridentina, che sancì l' assoluta prevalenza della Vulgata di Gerolamo: «stretta» tridentina che, si potrebbe dire, cede il passo all' irresistibilità della critica testuale dopo circa quattro secoli con l' enciclica di Pio XII Divino afflante spiritu, del 1943, quando Pacelli, pur tra mille cautele e contorsioni, alfine dichiarò legittimo l' esercizio della critica testuale sul corpus antico e neotestamentario. Sembra di sognare quando si ricostruisce questa vicenda, ma essa coincide con la storia stessa della filologia, cioè della libertà di pensiero. Un grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, Giorgio Pasquali, fu autore di un libro memorabile, che andrebbe ciclicamente ristampato (non importa se bibliograficamente invecchiato, come potrebbe deplorare qualche associate professor anglo-pensante): la Storia della tradizione e critica del testo (la prima edizione è del 1934, la più recente è del 1988). Qui, il capolavoro nel capolavoro è il capitolo iniziale, dove Pasquali narra come il metodo filologico volto a recuperare quanto possibile l' autenticità dei testi - una pratica in cui verità e libertà si sostengono a vicenda - si sia venuto formando, almeno da Erasmo in avanti, nel lavoro storico-testuale sul Nuovo Testamento. Una lotta nella quale i cattolici brandivano i deliberati tridentini, particolarmente oscurantisti su questo punto, ma che vide anche le Chiese protestanti perseguitare i loro adepti i quali, studiando criticamente il testo greco del Vangelo, ne mettevano di necessità in crisi la comoda e arbitraria fissità e unità. Gli eretici degli eretici furono dunque allora i fondatori della filologia e il seme della nostra libertà: il «campo di battaglia» furono quei testi imbalsamati come «sacri» e lo strumento della lotta fu, allora come sempre, la filologia. E quando si parla di «eretici degli eretici» non si intendono soltanto Pierre Bayle, «rifugiato» a Rotterdam, o Johann Jakob Wetstein, rifugiato ad Amsterdam a causa del suo lavoro di critico neotestamentario. C' è un nome capitale che va qui pronunciato perché è da lui che ha inizio la disciplina che chiamiamo storia dei testi: il nome di Spinoza. Della sua opera, ora raccolta da Mondadori in un' eccellente traduzione munita di apparati (a cura di Filippo Mignini e Omero Proietti), vanno qui ricordati - e andrebbero posti al centro di ogni moderna storia della filologia - i capitoli VII e VIII del Trattato teologico-politico. «Tutte le difficoltà nell' interpretazione della Scrittura - scrive Spinoza - sono derivate non tanto da un difetto di forze del lume naturale, quanto dalla trascuratezza (per non dire la malizia) di uomini che neglessero la storia della Scrittura». Ed è istruttivo, a titolo di esempio, ricordare almeno il titolo del capitolo VIII: «In cui si mostra che il Pentateuco e i libri di Giosué, dei Giudici, di Rut, di Samuele e dei Re non sono autografi. Si chiede poi se gli scrittori di tutti questi libri sono stati molti o uno solo, e chi sia stato». L' ortodossia contro cui Spinoza dovette scontrarsi fu quella ebraica (rabbinica). Nel 1656 Spinoza fu espulso dalla sinagoga per le sue opinioni eterodosse e «atti mostruosi» (!), e gran parte dell' apologia che allora scrisse apparve in seguito nel Trattato teologico-politico (Bayle, voce «Spinoza» del Dictionnaire). Se si considera quanto vigoreggi la tendenza delle tre confessioni che ancora oggi occupano la scena a proclamare la letterale verità, e dunque intangibilità testuale, di quanto si legge nei libri proclamati «sacri», viene da chiedersi se, come antidoto a un così costante fluire del dogmatismo, gli studi filologici non debbano essere potenziati, altro che archiviati! Indagando sulla nascita del metodo, Pasquali dimostrò la superiorità del lavoro critico sul Nuovo Testamento compiuto da Karl Lachmann - l' uomo divenuto, a torto o a ragione, simbolo della disciplina critica - rispetto alla più celebre e celebrata sua edizione del poema di Lucrezio De rerum natura. Ma in quella pur memorabile edizione mancava (e forse ciò era inevitabile) la domanda principale che è la seguente: perché, nonostante la condanna da parte dei padri della Chiesa (a cominciare da Lattanzio), il poema materialistico e atomistico di Lucrezio - già inviso ai pagani bigotti - si era salvato? Per quali rivoli carsici, in un contesto spiritualmente ostile, quel poema era riuscito a salvarsi, e soprattutto a giungere nella cella di ignoti (a noi) monaci medievali, i quali forse in segreto, e non certo in tranquillità di spirito, diedero vita a quei due manoscritti, l' Oblongo e il Quadrato, ai quali dobbiamo la salvezza del gigantesco poema, decisivo, ben più delle lettere di Epicuro, nella storia del pensiero? Monaci siffatti esistettero ben prima del più celebre di loro, finito sul rogo per eresia, il nolano Giordano Bruno (cui Michele Ciliberto dedica una importante e appassionata biografia che Mondadori manda in questi giorni in libreria). Qui non ricorderemo, conclusivamente, il coraggio intellettuale del Nolano, la sua originale appropriazione di tutto il pensiero materialistico e fisico-cosmico antico dai presocratici a Lucrezio; né il suo coraggio personale nel rifiutare di salvarsi piegandosi a umilianti abiure. Ricorderemo invece, perché dà speranza, che soprattutto dall' interno del corpo straripante e oppressivo delle religioni germogliano, per opposizione, le voci liberatrici. Che risultano tali proprio perché capaci di ripercorrere all' incontrario, onde poterne uscire, i sentieri del dogmatismo. * * * Autori e libri Le «Opere» di Spinoza sono appena uscite nei Meridiani Mondadori, collana «Classici dello Spirito» (pp. 1890, 55), a cura di Filippo Mignini, tradotte dallo stesso Mignini e da Omero Proietti Michele Ciliberto è l' autore di «Giordano Bruno. Il teatro della vita» (Mondadori, pp. 560, 30) L' edizione più recente di «Storia della tradizione e critica del testo» di Giorgio Pasquali è uscita presso Le Lettere nel 1988

Canfora Luciano

Anonimo ha detto...

Grazie Eufemia :-)
Sei veramente gentilissima!
Raffaella