31 luglio 2007

"Gesu' di Nazaret": il commento di Renzo Foa


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Il primo, l'unico

di Renzo Foa

Scrivo da profano e ammetto che il «Cristo della storia» mi incuriosisce. Lo riconosco, quando sulla sponda del Lago di Tiberiade entri in un piccolo museo dove è conservata la barca di un pescatore di duemila anni fa, ritrovata nella melma e analizzata in tutti i suoi dettagli, e il reperto archeologico è indicato come «la barca di Pietro», puoi cadere ingenuamente nella tentazione di fare un salto nel tempo e di raffigurarti un pescatore che tira le reti e parla con Gesù, magari con tutti gli altri apostoli. Avverti immediatamente un legame affettivo. Ma sai bene che questo legame non ci sarebbe senza il Cristo dei Vangeli. Il link regge perché c’è un messaggio che non appartiene al passato, ma è parte della nostra contemporaneità.

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A chi non è mai capitato di usare Cristo? Comincio da un ricordo personale, da una giornata di caldo particolarmente opprimente e umido nel bordo più meridionale della piana del Tonchino. L’autista doveva essersi perso e non riusciva a ricevere indicazioni sufficienti dalle rare persone a cui si fermava a chiedere la strada. Finché non vide, in lontananza, la facciata di una piccola chiesa in mezzo alle risaie e la puntò imboccando una pista non asfaltata. Nelle vicinanze non c’era un villaggio e neanche case. Una stranezza, ma la provincia di Ninh Binh era stata uno degli epicentri del cattolicesimo vietnamita e il simbolo era la famosa cattedrale di Phat Diem, costruita in puro stile architettonico orientale, al punto che sarebbe stata scambiata per una grande pagoda se non ci fosse stato il crocefisso sulle punte. Bisognava però parlare al passato, perché dopo gli accordi di Ginevra del 1954 c’era stato l’esodo verso il Sud, con centinaia di migliaia di persone che si erano messe in marcia dietro i parroci, in lunghe processioni dal senso più politico che religioso. Chissà, forse in giro c’era meno gente del solito affollato Tonchino a causa di questo spopolamento di diciott’anni prima. Ci fermammo davanti all’edificio e scendemmo dall’auto. Il portone era chiuso, ma la chiesa era ancora consacrata. Arrivarono dei bambini, ce n’erano sempre e sbucavano dal nulla. Ma nessun adulto. L’autista suonò ripetutamente il clackson. L’interprete si mise a osservare la facciata e cercò un argomento di conversazione. Mi disse: «Sembra un po’ barocca e un po’ gotica». A me sembrava semplicemente brutta. Magari in passato non lo era stata, ma la mancanza di manutenzione l’aveva privata di ogni colore e di ogni rilievo. Erano mura umide e basta. Lo dissi, ma il giudizio non fu preso bene. Un vietnamita mediamente istruito era orgoglioso di qualunque vecchio edificio in pietra e ci teneva a mostrare pubblico rispetto per i simboli religiosi.
Replicò, la discussione si trascinò per un po’, finché non apparve un vecchio sacerdote in tonaca, un po’ sorpreso dall’arrivo inatteso di una macchina e di uno straniero. Si presentò, spiegò che apparteneva alla «Chiesa patriottica», quella che sosteneva il regime e che per questo era rimasto lì, quando gli altri se ne erano andati via. Gli vennero subito chieste le indicazioni e le risposte furono considerate sufficienti per proseguire il viaggio. Ma poi fu lui a domandare. Voleva parlare un po’. Quando gli dissi che venivo da Roma, esplose sul suo volto un grande sorriso. Citò San Pietro, pronunciando il nome in uno stentato italiano. Tornò a utilizzare l’interprete per dire che non mi poteva invitare a visitare l’interno, perché era arrivato di corsa e aveva dimenticato le chiavi. Più probabilmente non c’era nulla da vedere. Poi bisbigliò di nuovo qualche sillaba in italiano - «Roma», «basiliche» - e lasciò cadere in un altrettanto stentato latino: «Domine, quo vadis?». Era un modo per dire che c’era stato. O almeno capii così. Facendo finta di rispondergli, spiegai all’interprete che si trattava di una chiesetta sulla via Appia, testimonianza di un mito suggestivo, quando a Pietro in fuga dalle persecuzioni di Nerone apparve Gesù che rispose «Venio Romam iterum crucifigi», lasciando sul marmo le impronte dei suoi piedi. Il vecchio sacerdote ascoltò il mio breve racconto senza alcuna reazione, avvertì che avevo compreso qualcosa che voleva dirmi, si fermò lì. Era dimenticato fra le risaie della provincia di Binh Dinh e lì sarebbe rimasto, come parroco della «Chiesa patriottica» che gli dava da vivere e che gli consentiva di essere il pastore dei fedeli rimasti. Per comunicare non aveva parlato di Dio, ma di Cristo. Per caso aveva incontrato uno straniero che conosceva bene la chiesetta sull’Appia e che era affascinato da quel lapidario e leggendario dialogo di quasi duemila anni prima, anche se sapeva che con ogni probabilità non si era mai svolto. Era bello in sé e questo bastava. Poi fra sorrisi e reciproci ringraziamenti ripartimmo nel caldo e nell’umidità.

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Continuo a scrivere da profano e ho sempre pensato che il rapporto con Dio possa essere relativamente facile, mentre quel che è davvero difficile è il rapporto con Cristo, che è presente dappertutto, che è evocato ovunque. Anche volendo, non riesci a sfuggirgli. La sua figura ha resistito per venti secoli a ogni avversità e continua a resistere, è rappresentata e riproposta in primo luogo dal crocefisso. Con Dio è diverso. O, almeno, così mi pare. Intanto puoi trattenerlo in una dimensione personale e interiore, puoi non credere neppure alla sua esistenza. Ti puoi anche limitare a leggere la «verità» nell’ambito di una regola di comportamento morale. Il famoso «come se Dio esistesse». In altre parole a me sembra soprattutto un problema individuale. Non molto diverso è il discorso da fare quando irrompe nella sfera pubblica. Anche in questo caso c’è linearità, perfino quando sorgono piccoli o grandi conflitti, lungo il confine tra il bene e il male. So che sono argomenti eternamente discussi e molto impegnativi, ma mi vengono in mente almeno due episodi. All’indomani della Shoah, venne posta una semplice domanda, certamente angosciante: «Dove era Dio ad Auschwitz?». Vennero date molte risposte, il dibattito teologico fu intenso, ma non si può non cogliere ancora adesso, dopo tanto tempo, la relativa semplicità del contrasto che può crearsi fra la fede e il destino dell’uomo. Fu quella domanda una «maledizione divina»? In parte probabilmente lo fu. Il secondo episodio - a cui si potè assistere in diretta, anche se la televisione era ancora tristemente in bianco e nero - fu quando Papa Montini celebrando in Laterano la messa di suffragio in memoria di Aldo Moro, appena ucciso dalle Br, volse lo sguardo al cielo e si rivolse direttamente a «Dio della vita e della morte», declinando il «lamento» perché non era stata «esaudita la nostra supplica per la incolumità di questo uomo buono, mite, saggio, innocente e amico». Fu un’omelia straordinariamente poetica, ma mi suonò come una sorta di «maledizione divina», come la manifestazione di un rapporto chiaro, intenso per quanto tormentato, ma capace di esprimere anche la linearità di un conflitto. Per non parlare poi del punto estremo, di quel che accade in questa stagione del mondo, cioè del kamikaze che uccide nel nome di Dio e che rende oggetto di repulsione sia il kamikaze quanto il Dio a cui si riferisce, perché entrambi rappresentano la distruzione e la morte. Con Cristo nulla di tutto questo sarebbe possibile. La sua caratteristica è l’unicità nella storia, nella fede, nella filosofia, nel pensiero, nell’arte. La sua presenza è pervasiva. So bene che Cristo e Dio rappresentano nella dottrina la stessa «verità», so ovviamente che per i cattolici il primo è il figlio del secondo, ma so anche che il Dio delle religioni monoteiste va declinato al plurale e che Cristo, al contrario, ha finito con l’essere non solo riconosciuto ma anche amato dai non credenti. È universale. Con lui non riesci ad avere alcun conflitto.

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È il soggetto di un’appassionata e costante ricerca. Lo è da sempre. Lo è il suo essere stato uomo, lo è nei Vangeli, lo è nella dottrina della fede. Lo è nella nascita, nella predicazione, nella passione, nella resurrezione. Credo che su nessun altro siano stati scritti e pubblicati tanti libri. Non c’è bisogno di statistiche, che probabilmente ci sono e che non conosco. È la storia del pensiero a dirlo. È la frequentazione delle librerie a confermarlo, se perfino un best-seller come il Codice da Vinci di Dan Brown ha avuto come trama la controversa fiction su Gesù dopo Gesù, con tutte le polemiche che ne sono seguite. Ma al di là dei diversi punti di vista, qualunque ricerca, qualunque testo sottolinea i vari fili che continuano a dipanarsi dopo duemila anni e che evidenziano, direttamente o indirettamente, la centralità di un messaggio e la sua indistruttibilità.
I fili, appunto. Sempre da profano, non mi è facile scrivere dell’ultimo libro di Papa Ratzinger, il Gesù di Nazaret. Mi fermo su un dettaglio, su un passaggio dedicato ai manoscritti di Qumran e al movimento degli esseni descritto come «un gruppo che si era staccato dal tempo erodiano», che «aveva dato vita nel deserto della Giudea a comunità monastiche, ma anche a una convivenza di famiglie fondata sulla religione» e che - sembra - «Giovanni il Battista e forse anche Gesù e la sua famiglia fossero vicini a questa comunità». In ogni caso, «i manoscritti di Qumran presentano molteplici punti di contatti con l’annuncio cristiano». Lo stesso dettaglio che mi aveva colpito, quando in Ladri nella notte, Arthur Koestler aveva raccontato delle interminabili discussioni nel kibbutz della Torre di Esdra, dove nel 1937 giovani ebrei in fuga dall’Europa passavano le ore libere a macerarsi e a dividersi non solo sul socialismo laburista e sul comunismo, non solo sul conflitto con gli arabi, ma anche sul modello comunitario ed egualitaristico degli esseni, di cui tra l’altro si sapeva ancora meno di quanto si sappia oggi. Era la stessa terra dove avevano vissuto e predicato duemila anni prima quegli uomini vestiti di bianco, spazzati anch’essi via da Tito e dalla diaspora. Sarebbero rimasti a bocca aperta quei giovani sionisti se solo avessero immaginato che, settant’anni dopo, un Papa romano avrebbe parlato dei possibili punti di contatto di quel modello con «l’annuncio cristiano».

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Non sono un grande consumatore di testi sul «Cristo storico». Ma ho scoperto, leggendo Processo e morte di Gesù di Chaim Cohn che, appena fondato lo Stato di Israele, mentre era in corso la prima guerra per la sua sopravvivenza, la Corte suprema appena istituita venne subissata di richieste di revisione del processo più famoso e controverso della storia, che per discrezione, visti i cattivi rapporti del cattolicesimo con l’ebraismo, venne avviata un’inchiesta riservata e non ufficiale, ma che non si rinunciò ad affrontare l’argomento. Così come ho scoperto - grazie allo studio di Èric Edelmann dal titolo Jésus parlait araméen - che è ancora usato in Siria un Vangelo scritto in aramaico, che quasi certamente è all’origine dei quattro testi «ufficiali» da lì tradotti in greco. Fa anche una certa impressione riprendere in mano il Gesù ebreo di Riccardo Calimani, dopo che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ricomposto sul piano teologico la «famiglia giudaico-cristana» che, sul piano politico, è stata rapidamente assunta a unica tradizione. Non sono neanche un grande esperto di tutti i tentativi di appropriazione compiuti nella storia della figura di Cristo, a cominciare dal momento in cui Maometto lo assunse tra i profeti del Corano, anche se gli storici hanno sempre avvertito la parzialità dell’operazione di sincretismo. Quello che mi ha sempre colpito, invece, è stata la facilità con cui è stato definito «il primo socialista». Camillo Prampolini, il fondatore del «riformismo padano», ha lasciato una sua celebre Predica di Natale in cui proprio Cristo veniva definito come l’iniziatore «della grande rivoluzione sociale». Ho solo da constatare che da duemila anni siamo in presenza di una figura inclusiva, la più importante della storia, che per i cattolici è il figlio di Dio e che parla a tutti gli altri.

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Continuo a scrivere da profano. Ma proprio per questo mi è difficile non notare che Cristo è davvero ovunque, è un’immagine che sovrasta quella di Dio. So che è impossibile distinguerne il messaggio, nella dottrina e nella fede. Ma anche venti secoli di storia dell’arte e della letteratura testimoniano che la raffigurazione del bello e della perfezione, tanto nella serenità quanto nella sofferenza, portano la sua effige. Lui è l’essere umano, il Creato e la verità sono lo sfondo. Mi vengono in mente due sole somme eccezioni, La divina commedia e il Pater noster. Quel Pater noster che si può leggere anche come la poesia più coinvolgente mai ascoltata e recitata. Ma il resto - e non è poco, dai mosaici della cattedrale di Aquileia fino al cantiere della Sagrada familia di Antoni Gaudi - testimonia la costante attrazione ora verso il bambino, ora verso il predicatore, ora verso il sofferente testimone della passione, ora verso l’uomo crocefisso. Non c’è nulla di simile, da nessuna parte, in nessuna altra epoca. So che per i cattolici tutto questo ha delle implicazioni più complesse, ma a me sembra che si tratti essenzialmente dell’immagine più completa della resistenza dell’uomo alle avversità, alle sofferenze e alle ingiustizie in nome della vita e della ricerca della verità.

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Una domanda forse banale. La Chiesa di Roma ha potuto esistere tanto a lungo per la capacità e la cultura dei chierici o per la forza del messaggio trasmesso dai Vangeli e del pensiero che vi si è alimentato? Non sarebbero stati solo dei passanti nella storia San Paolo e Costantino, Sant’Agostino e San Benedetto, San Francesco e San Tommaso? C’è una stratificazione di idee e di opere che coniugano passato e presente e che sono capaci di rappresentare qualcosa in più di una religione, qualcosa in più del misticismo, qualcosa in più del rapporto con Dio. So bene che tutto ciò si chiama «civiltà». So anche che questi duemila anni di storia sono stati complicati, spesso implacabili, segnati da fratture, lacerazioni, scontri, dal potere e dalla politica. Mi è capitato di assistere a una messa celebrata con il vecchio rito tridentino, quello della controriforma, di vedere l’officiante che volgeva le spalle ai fedeli per rivolgersi a Dio come se fosse solo lui a poterlo fare, come se fosse depositario di una funzione esclusiva. Mi è servito stare in quella fredda chiesa, dove si ricordavano le vittime della rivoluzione ungherese del 1956 e si pregava per le loro anime, perché, facendo un rapido raffronto, ho avuto la conferma di quanto invece Cristo abbia trasmesso un messaggio universale. Perdipiù essendo stato il primo a farlo, introducendo il concetto di persona, che da allora è sempre riemerso nonostante tutti i tentativi di cancellarlo, fino al Novecento dei totalitarismi con il paganesimo nazista e con l’ateismo e il collettivismo sovietico. Quando mai, prima di lui, un pescatore o un falegname o una prostituta erano stati considerati degni di nota, degni di entrare nella memoria, uguali agli altri?

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Confesso di aver capito male, per molti anni, il significato del crocefisso. Confesso anche che nella mia prima scuola, una Montessori, non ci avevo fatto caso. Alle maestre si dava del tu e si passava la giornata in un allegro clima di uguaglianza. Mi accorsi della sua esistenza quando, cambiando casa e quartiere, scoprii che al maestro bisognava rivolgersi con il lei. La cattedra rappresentava l’autorità e sulla parete dietro la cattedra, nell’ordine dell’aula, era appeso il crocefisso che mi sembrava appartenere a una sfera lontana e separata, a un’altra gerarchia. Lo si vedeva anche male, non si distingueva il volto, era poco più di un’abitudine. Era la stagione precedente al Concilio giovanneo. Devo invece a Natalia Ginzburg la più bella lezione che ho sentito, molti anni dopo, sul senso di quella croce. In occasione di una delle tante polemiche sui simboli religiosi nei locali pubblici, scrisse che il «il crocefisso è il simbolo del dolore umano», che «fa parte della storia del mondo» e che «rappresenta tutti coloro che «sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future» per una ragione molto semplice. Questa: nessuno prima di Cristo «aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini». Il prima o il dopo Cristo non è solo una data sul calendario. Non è solo la definizione temporale di una religione. È piuttosto l’inizio di una lezione. Si dimentica troppo spesso, ma quel «date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio» è l’atto fondativo della laicità. Si tende a dimenticarlo, ma la forza di una fede (e di una cultura) è misurabile anche in dettagli come questi. Perché nessun altro, prima di lui, aveva introdotto una simile distinzione? Una distinzione che ancora oggi viene indicata come la prova della modernità, spesso sbagliando bersaglio polemico. E il concetto di bontà nella condotta privata e pubblica a chi si deve? Per non parlare del capitolo più importante, quello della libertà e della responsabilità.

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So che Cristo può appartenere a tutti, al di là della fede, ma so anche che senza la fede non ci sarebbe.

© Copyright Liberal n. 42 - agosto-settembre 2007

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