12 aprile 2008

Un'Europa non riconoscibile senza Gregorio e i benedettini (Osservatore Romano)


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"Roma e i Barbari": le radici del Continente in una mostra a Venezia

Un'Europa non riconoscibile senza Gregorio e i benedettini

di Pietro Petraroia

"Lo spirito che ha dato origine a questa mostra appartiene al dna di Venezia. Porta tra Oriente e Occidente", esordisce il patriarca Angelo Scola nella sua presentazione della mostra, "la nostra città nella sua plurisecolare e gloriosa storia è stata un crocevia di genti e di culture. Pienamente consapevole e fiera della propria vocazione a incontrare il nuovo e il diverso. Da sempre un laboratorio di quel processo di "meticciato", cioè di quella mescolanza di popoli e di civiltà, in cui le nostre società occidentali sono oggi più che mai coinvolte in forma imponente e inedita. Nella stessa struttura della parola "incontro" si può trovare la dinamica di ogni meticciato. La parola, infatti, contiene in sé un ossimoro: l'apertura fiduciosa dell'accoglienza dell'altro (in) e la ferita che inesorabilmente la sua irriducibile diversità provoca (contro)".
La vocazione di Venezia come capitale di confine viene in effetti energicamente riproposta nella mostra "Roma e i Barbari" - promossa e ospitata da Palazzo Grassi fino al 20 luglio, catalogo Skira - non soltanto con riferimento alla sua ubicazione geografica e al suo ruolo storico, ma anche per il suo attuale impegno di capitale delle mostre su complessi confronti fra culture - ad esempio ricordiamo la recente "Venezia e l'Islam. 828-1797".
Per spiegare il senso dell'iniziativa, il curatore del catalogo Jean-Jacques Aillagon osserva, nel saggio di apertura, che l'Europa è "nata da questo improbabile matrimonio tra la cultura romana e le culture barbariche, sotto l'egida di una cristianizzazione condivisa che ne fu, in ultima analisi, l'elemento di coesione". Intento dichiarato della mostra è "rimandare i visitatori a domande utili alla comprensione del nostro tempo": il curatore ricorda dunque che nel dibattito sul progetto di trattato costitutivo dell'Unione europea "fu sollevata spesso e con passione la questione del possibile e legittimo riferimento alle radici cristiane dell'Europa", ma "non si parlò molto delle "radici barbariche" della cultura europea". Un oblio al quale la mostra, indagando un ampio spazio cronologico che si estende dalla conquista della Gallia nientemeno che fino al decimo secolo, si propone di porre rimedio fin dalla grafica del titolo, interponendo fra le parole "Roma" e "Barbari" una congiunzione declinata per la verità in cinque lingue europee: italiano, francese, inglese, tedesco e spagnolo.
Non c'è dubbio che questa monumentale esposizione, pur nella sua innovativa specificità, intercetta un bisogno da tempo affermato negli studi, quello cioè di indagare le relazioni fra popoli dell'area afroasiatica e nord-africana fin dal costituirsi stesso dell'impero romano. In realtà, il tema delle migrazioni dei popoli e del loro fondersi, del loro assimilarsi fino a produrre modi d'essere nuovi - eppure (se guardati nel lungo periodo) connotati da tali specificità da farli apparire autoctoni - si ripresenta in modo trasversale nelle più diverse branche di ricerca e fasce cronologiche di studio dell'antichità dell'Europa centro-orientale. Ricordando pubblicazioni e convegni degli ultimi anni, basti pensare al continuo avvicendarsi di ricerche sul vicino Oriente antico, agli studi sugli Ittiti e sui biblici "popoli del mare", sulle civiltà pre-islamiche della penisola arabica, sulla civiltà della Bactriana, sui "popoli delle steppe", fino ai rapporti fra Italia e Illiria nel medioevo e nel Rinascimento; e così via. È ben noto che la storiografia sulle origini del popolo etrusco nell'Italia pre-romana sconta il periodico riproporsi della tematica della provenienza di esso dall'Oriente.
La consolidata consapevolezza che le migrazioni di popoli dall'Oriente siano alle origini di nuove identità etniche e culturali, peraltro, attraversa non soltanto i moderni studi sull'Ellade - nel suo senso più comprensivo, a partire dalla deduzione di colonie fenicie e greche in tutto il Mediterraneo - ma trova auguste origini nello stesso poema virgiliano, proprio nel viaggio da Oriente a Occidente dell'errante Enea, che, a differenza di Odisseo, non torna indietro, ma dà origine in Italia a quel nuovo genus che un giorno avrebbe dovuto confrontarsi non tanto con i Celti - come Giulio Cesare aveva previsto - ma con altri "barbari" venuti dall'Est.

Tuttavia Enea è pius, non è un barbarus; questa essenziale sua virtù offre al ceto politico e intellettuale romano, da Augusto a Tacito, la sostanziale garanzia che il meticciato culturale, da cui pure si riconosceva avesse avuto origine la romana gens, poteva contare su una superiorità intrinseca della stirpe, nonostante la malcelata ammirazione che gli storici romani nutrivano per la franchezza e il coraggio di quei Celti che a loro, in fondo, suscitavano in qualche modo nostalgia per la rudezza e la sobrietà dei loro padri più antichi.

Tornando brevemente alle indagini affini per contenuto al tema affrontato in questa occasione, vorrei qui aggiungere, a quelle citate dal curatore, almeno una mostra italiana di pochi anni fa: "387 d.C. Ambrogio e Agostino - Le sorgenti dell'Europa" (Milano, Museo Diocesano, anni 2003 - 2004). In entrambi i casi, sia pure con taglio e approccio affatto diversi, ci si propone infatti di offrire una traccia di lettura dei rapporti tra popoli e territori distanti - dal nord al sud dell'impero, dall'est all'ovest - coinvolti però tutti nell'esperienza drammatica di migrazioni e conquiste. Nel caso della mostra milanese - peraltro concentrata su un periodo ben preciso, quello in cui visse il celebre vescovo di Ippona - la chiave di lettura era offerta dall'accostamento delle personali vicende e degli itinerari di ciascuno dei protagonisti, facendo perno sull'avvenimento costituito da quella liturgia battesimale, con la quale nel 387 un coltissimo bèrbero, che però sapeva poco di greco, si fece cristiano a Milano sotto la guida di un vescovo che era stato altissimo funzionario di Roma, benché nato a Treviri.
La mostra di Palazzo Grassi, con le migliaia di oggetti esposti, sembra invece voler attenuare consapevolmente i riferimenti a personaggi particolarmente rappresentativi e suscita semmai l'idea di una sorta di "dieta", di un ampio raduno, insomma, di popolazioni diverse e talvolta poco note, provenienti da quei territori dell'est europeo ai quali oggi, consolidandosi il processo di allargamento dell'Unione, si guarda con maggiore attenzione e desiderio di carpirne l'identità specifica. Ci sentiamo, così, in qualche modo risucchiati nello stesso sguardo interrogante e pensoso che la copertina del catalogo ci impone: un efficace dettaglio dall'aureo busto ritratto di Marco Aurelio da Avenches (Svizzera), che incontriamo in una delle prime sale del lungo e affascinante percorso di visita.
Le pagine di Yann Rivière - coordinatore con Umberto Roberto del comitato scientifico della mostra - che introducono in catalogo ciascuna delle prime tre sezioni espositive, offrono sintetiche ed efficaci chiavi di lettura di una serie di passaggi storici cruciali del mondo tardo antico, che il dilagare di splendidi oggetti nelle vetrine non aiuta a evidenziare con altrettanta chiarezza.
Scorrendole sembra possibile cogliere tra le righe una tesi storiografica di fondo: fra la grande persecuzione anticristiana di Diocleziano (303 - 305) e la proclamazione del cristianesimo nella confessione cattolica quale religione di Stato per volere di Teodosio I con l'editto di Tessalonica (28 febbraio 380), il percorso è tutt'altro che lineare e, forse, il punto di svolta potrebbe essere riconosciuto non tanto nell'editto di Milano del 313, quanto nella sanguinosa battaglia di Adrianopoli, ove perde la vita l'imperatore Valente, il 9 agosto del 378.
Nel giro di un mezzo secolo era dunque per sempre tramontata un'epoca: quella in cui gli imperatori, ancora certi di poter sottolineare il loro assoluto dominio sul mondo intero dalla Mauritania all'India, facevano mettere in scultura e in mosaico l'omaggio delle fiere a loro offerte, provenienti da ogni parte della terra, come nel gigantesco mosaico pavimentale del nartece della Villa del Casale a Piazza Armerina, la cui committenza Salvatore Settis riferì significativamente a Massenzio. Un sogno definitivamente tramontato, sebbene ancora ricordato con evidente nostalgia nel Dittico Barberini del Louvre.
La cruciale sconfitta dell'impero d'Oriente ad Adrianopoli apre infatti la porta all'insediamento dei Goti all'interno del territorio stesso dell'impero romano: essi, per proteggersi dalla pressione degli Unni, vi si installano a condizioni favorevoli fra il Danubio e i Balcani. Di qui prende le mosse, in effetti, quella "nascita di un nuovo mondo" che è evocata dal sottotitolo della mostra: da allora in poi la contiguità istituzionale e culturale dei cosiddetti Barbari e dei cosiddetti Romani finirà con il generare l'assimilazione dei contenuti sostanziali del diritto romano da parte dei primi - per il tramite delle celebri compilazioni giuridiche volute fra quinto e sesto secolo da Teodosio II e da Giustiniano - ma anche una trasmissione travagliata quanto inarrestabile del cristianesimo e poi specificamente del cattolicesimo alle nuove popolazioni, in un primo tempo soprattutto ariane.
Soltanto nel settimo secolo il processo di integrazione etnica, culturale e religiosa volse alla conclusione, con l'abolizione del divieto di matrimoni misti fra discendenti dei Romani e dei Barbari; tuttavia l'origine di questo lungo percorso di assimilazione pacifica potrebbe farsi in certo modo risalire, per gli aspetti giuridici e sociali, ancora agli anni di Marco Aurelio e all'adozione, da allora in poi sempre più estensiva, di strumenti giuridici di tipo pattizio per l'inclusione nell'impero dei dediticii, come osserva Alessandro Berbero nella sua monografia Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell'impero romano (2006): una lettura utile anche per prepararsi alla mostra di Palazzo Grassi. Proprio Berbero, che ha particolarmente studiato la battaglia di Adrianopoli, ricorda del resto un significativo episodio riferito dalle fonti (Zosimo), secondo cui "l'imperatore Teodosio, quando si rese conto che l'esercito era molto assottigliato, autorizzò a venire presso di lui quelli che lo desideravano, fra i barbari stabiliti di là dal Danubio, promettendo di incorporare i disertori nelle unità militari; quelli, accettando l'accordo, vennero da lui e furono mescolati ai soldati". Una storia di battaglie, dunque, il rapporto fra Romani e Barbari, ma anche una storia di accordi e patti.
In questo lunghissimo processo di scontro, ma poi prevalentemente di fusione etnica e culturale - "in-contro", richiamando il suggestivo pensiero del cardinale Scola, ovvero di lungo sincretismo, secondo il saggio di Rita Lizzi Testa - cruciale risulta dunque il quarto secolo, soprattutto nell'accelerazione degli eventi che lo concludono; e se in questo ambito cronologico le figure di Agostino e Ambrogio appaiono quasi ignorate dalla mostra, almeno il ruolo del primo è chiaramente, sia pure sinteticamente, evocato in alcune pagine del catalogo, come quelle sul sacco di Roma (410) firmate da Jean-Marie Salamito.

Le nuove identità europee assumono peraltro contorni più stabili e riconoscibili soltanto nel passaggio fra quinto e sesto secolo - Teodorico e i Longobardi per l'Italia; il battesimo di Clodoveo per la Francia: vedi i saggi di Pierfrancesco Porena e Alain Dierkens - e soprattutto nel settimo, come sottolineano Umberto Roberto e Paolo Delogu.

In tale contesto, se Dominic Moreau riconosce che "Gregorio I, successivamente detto "il Grande", fu il Vescovo di Roma che intrattenne più rapporti con i re e le regine" e con dei "vecchi amici" del pontificato romano: i Merovingi, la complessa e ricchissima figura di questo monaco Pontefice - formatosi alla corte di Costantinopoli, strappato poi al monastero romano e divenuto sagace uomo politico, di enorme carisma e dottore della Chiesa - risulta di fatto difficile da cogliere nella mostra, così da sfuggire completamente al visitatore comune.

Purtroppo solo in parte colma questa lacuna la scheda in catalogo di Cristina Ricci-Wallraff - "Gregorio Magno e la nuova Europa".
Probabilmente un'attenta considerazione degli studi biografici e filologici dedicati non molti anni or sono a Gregorio Magno da Emilio Gandolfo avrebbe consentito una più adeguata presentazione della sua personalità e del suo ruolo storico in questa occasione espositiva, così preziosa per la ricchezza inusitata del contesto documentato. Con Gregorio Magno anche il movimento spirituale benedettino risulta sorprendentemente obliato, salvo un accenno nel saggio di Bruno Dumézil.
Si tratta forse di mancanze inevitabili in una mostra tutta concentrata sui popoli barbarici e assai ambiziosa nel tentare la presentazione, inedita, di un così vasto e articolato panorama archeologico, artistico e storico, costruito prevalentemente su corredi funerari preziosi, provenienti da un numero impressionante di località. Va positivamente sottolineata, in tal senso, la particolare generosità dei prestatori, tra i quali spiccano nettamente le collezioni statali di Francia, Italia, Germania.
Da questa mostra emerge, in conclusione, un preciso messaggio. Sarà forse ben difficile, nella costruzione di un'Europa unita sempre più ampia e multiforme, riuscire a declinare con adeguato dettaglio in sedi istituzionali tutte le radici culturali che ne hanno alimentato la crescita nei millenni; molte di esse, anche per il confronto continuo fra di loro e con il cristianesimo, hanno subito continue modificazioni; la stessa indagine sulle "radici barbariche" - come le chiama Aillagon - non chiude, ma forse rilancia con nuovi riferimenti il tema. Ma dovrà essere sempre esplicitamente tutelato il diritto-dovere di ricercare, studiare, salvaguardare, esibire liberamente in ogni popolo dell'Unione le testimonianze materiali e immateriali della sua storia identitaria; senza tuttavia dimenticare, come la mostra di Palazzo Grassi in fondo dimostra, che il cristianesimo in Europa si è posto costantemente e si pone tutt'oggi, pur tra umane contraddizioni, quale principio vivificante per la promozione delle persone in ognuna di queste molteplici culture, in una tensione appassionata verso la ricerca del vero, del buono, del bello.

(©L'Osservatore Romano - 13 aprile 2008)

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