28 maggio 2007

Ratzinger, custode del liberalismo


IL PAPA DELLA SVOLTA

Custode del liberalismo

di Robert A. Sirico

Il "conservatore" che considera la libertà il valore della Chiesa



Liberal n. 40 - maggio-giugno 2007

Proprio all’inizio del pontificato di Papa Benedetto XVI, scrissi un articolo (nota 1) in cui tentai di spostare l’accento del dibattito su che cosa avremmo potuto aspettarci dalla sua leadership sulla Chiesa cattolica. Sebbene nei media americani fosse ampiamente descritto come un «conservatore» o addirittura un «ultra-conservatore» (nota 2), quest’impressione scaturì fondamentalmente dal periodo in cui fu a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede. Infatti, dacché orchestrò alcune celebri censure di teologi dissidenti, fu visto come uno disposto a usare metodi energici per imporre la verità, secondo la tipica caricatura dell’Inquisitore. Pochi osservatori sono stati disposti a riconoscere che le azioni che intraprese in quel periodo non avevano nulla a che fare con la coercizione. I teologi che pretendono di insegnare la fede cattolica, ma che pubblicano e insegnano in profondo dissenso con questa fede o la minano alla base, sono essi stessi implicati in una forma di falsità. Censurarli non significa negare loro il diritto di insegnare e pubblicare, ma revoca semplicemente il privilegio di insegnare in nome della fede cattolica. Essi continuano a essere liberi di scrivere e pubblicare, e perfino liberi di scrivere e pubblicare come cattolici in qualunque sede si trovino. L’atto di revocare un determinato mandato di insegnamento alle università cattoliche, dunque, non è un atto illiberale, non più di quanto potrebbe esserlo, per la compagnia automobilistica Fiat, licenziare un venditore che ha venduto ai suoi clienti automobili Nissan anziché Fiat. Questo non nega alcun diritto fondamentale, ma chiarifica semplicemente i termini di un accordo contrattuale, rendendolo più onesto e più leale. Si consideri che coloro che sono stati ammoniti dall’allora Cardinal Ratzinger insegnavano nozioni come quelle della teologia della liberazione e concezioni morali completamente opposte alla tradizione cattolica, e vantavano lunghe pubblicazioni in merito. Le azioni del Cardinale sono state quindi totalmente giustificate.

Pertanto, su queste basi, non vi è motivo di descrivere Benedetto XVI come un «ultra-conservatore»: permettetemi di presentare più dettagliatamente la mia argomentazione. Avendo letto i suoi scritti nel corso degli anni, ho potuto constatare come ricorra un tema in particolare, vale a dire un fermo e rigido attaccamento all’idea della libertà religiosa e del potere di Cristo di convertire i cuori senza coercizione. Diversamente da molti tradizionalisti, il Cardinal Ratzinger non mostra alcuna simpatia per la teoria del potere temporale, secondo la quale la Chiesa dovrebbe esercitare poteri simili a quelli dello Stato. Al contrario, il Cardinal Ratzinger scrive in favore della Chiesa come forza culturale, le cui pretese di verità esercitano una certa influenza solo sui cuori e sulle menti, e sotto questo aspetto egli rientra chiaramente nella linea del Concilio Vaticano Secondo, che parla dell’aspirazione della Chiesa di «proporre» anziché di «imporre» il proprio insegnamento al cuore dell’uomo. Come molti di voi sapranno, il Cardinal Ratzinger ha pubblicato varie argomentazioni dettagliate e appassionate a favore della libertà religiosa, o di ciò che i suoi detrattori chiamano talvolta il «sistema americano» o, addirittura, l’«eresia americana» (fraintendendo peraltro il significato di quest’espressione). È di straordinaria importanza comprendere il significato di questo attaccamento alla libertà religiosa nella storia del cattolicesimo moderno. Dalla metà alla fine del Diciannovesimo secolo, in un’epoca in cui stava emergendo la democrazia, gli Stati Pontifici erano sottoposti a dura tensione e i movimenti politici radicali erano in fermento, all’interno della Chiesa cattolica emersero due schieramenti generali. Da una parte c’erano i sostenitori dell’ultramontanismo, che guardavano con favore al potere temporale e consideravano l’idea della libertà religiosa come una resa fatale al laicismo e al modernismo. Dall’altra parte c’erano i liberali, che abbracciavano la libertà religiosa e sostenevano che l’infallibilità papale dovesse essere accettata solo in termini strettamente definiti, legati alla sua competenza in materia di fede e di morale, ma non relativamente alla politica o all’economia. I liberali e gli oltramontani si trovavano in ogni Paese sul continente e in Inghilterra, e il dibattito e la divisione tra i due schieramenti durò decenni (nota 3).

Tali questioni furono discusse dettagliatamente nel Concilio Vaticano Primo. Sebbene Pio IX tendesse a preferire la parte oltramontana, il risultato finale di questo Concilio fu compatibile con la posizione cattolico-liberale. L’infallibilità del Papa non si estendeva alla politica ma si applicava soltanto alla fede e alla morale, e solo sotto strette condizioni - una visione del potere molto più ristretta rispetto a quella sostenuta dagli ultramontanisti. Persino il Sillabo degli Errori di Pio IX fu compatibile con l’idea di libertà: infatti, se da un lato condannava la visione per cui la Chiesa deve essere separata universalmente dallo Stato, dall’altro tollerava la tesi secondo cui la Chiesa può essere prudentemente e vantaggiosamente distinta dallo Stato. Questo dibattito si protrasse nel Ventesimo secolo ed ebbe fine in maniera decisiva al Concilio Vaticano Secondo, con la sua difesa della libertà religiosa; a questo proposito ritengo opportuno citare interamente la sua asserzione, poiché rappresenta la massima espressione della prospettiva cattolica liberale, ora sviluppata in dottrina autorevole: «Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità a essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società. A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e a ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze. A un tale obbligo, però, gli esseri umani non sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione esterna. Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto a una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano l’obbligo di cercare la verità e di aderire a essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato l’ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito» (nota 4).

Dopo il Concilio Vaticano Secondo, nel cattolicesimo è emerso un nuovo tipo di liberalismo che rivendica di discendere dalla vecchia visione del mondo liberale, ma che in realtà rappresenta un allontanamento dal vecchio liberalismo autentico, che non dubitò mai delle verità fondamentali del cattolicesimo. Il vecchio liberalismo era il complemento del vecchio liberalismo politico che abbracciava la libertà e la verità, e che considerava la libertà come il mezzo migliore per ricercare e promuovere la verità. Lo stesso dicasi del cattolicesimo di Antonio Rosmini, del Cardinal John Henry Newman, di Lord Acton e della loro generazione. Il nuovo liberalismo, al contrario, intende poggiare le proprie rivendicazioni non già sulla libertà religiosa, bensì sulla libertà morale della fede stessa; esso accoglie non già la democrazia come tale, ma il relativismo democratico che non avanza alcuna rivendicazione della verità. In questo modo, esso ha chiamato in causa rivendicazioni fondamentali di verità che attengono alla dottrina e alla fede, e continua a farlo, come si evince dai dissidenti presenti nella Chiesa odierna. Occorre chiarire subito che Benedetto non è assolutamente un liberale di questo tipo. Infatti, abbiamo buone ragioni per tentare di riportare la parola al suo autentico significato: la verità religiosa unita alla libertà politica ed economica. Credo che il nuovo papato abbia implicazioni in ambito economico e politico esclusivamente nella direzione di un liberalismo umano e unificante, che ripone le sue speranze nella società, nella fede e nella libertà. Prendiamo per un istante in considerazione il nome Benedetto. Quando fu annunciato che il Cardinal Joseph Ratzinger avrebbe assunto il nome di Benedetto XVI, immediatamente venne da chiedersi chi fu Benedetto XV e che cosa rappresentò, e che cosa comportava per il futuro di questo papato il fatto che si considerasse, in un certo senso, il suo successore papale. Papa Benedetto XV fu pontefice dal 1914 al 1922, e fu testimone di un’epoca di pace, prosperità e speranza che si trasformò in breve tempo in un periodo cruento, segnato dalla violenza e dallo Stato totalitario. Egli viene ricordato principalmente per la sua angosciata enciclica Ad Beatissimi Apostolorum, che cercò di porre fine ai conflitti e alle battaglie che portarono a quella che noi oggi chiamiamo la prima guerra mondiale, guerra che cancellò violentemente le speranze di molte generazioni di liberali classici del Diciannovesimo secolo.

Il potere temporale del papato venne meno, e proprio sulla spinta dell’ala liberale della fede. Essi avevano riposto le loro speranze nella capacità della fede cristiana di fiorire in assenza di coercizione e nella capacità del mondo di avanzare nel progresso verso la pace e la prosperità. Doveva essere un mondo di libero scambio, di libere menti e di ortodossia religiosa, ma non fu così: la visione del liberalismo in cui essi avevano riposto le loro speranze fu infranta completamente con la carneficina della guerra. Nel 1914, Papa Benedetto XV scrisse dei grandi pericoli derivanti da un mondo illiberale. Osservò che «il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto, e non v’è quasi altro pensiero che occupi ora le menti. Nazioni grandi e fiorentissime sono là sui campi di battaglia. Qual meraviglia perciò, se ben fornite, come sono, di quegli orribili mezzi che il progresso dell’arte militare ha inventati, si azzuffano in gigantesche carneficine? Nessun limite alle rovine, nessuno alle stragi: ogni giorno la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e feriti. E chi direbbe che tali genti, l’una contro l’altra armata, discendano da uno stesso progenitore, che sian tutte della stessa natura, e parti tutte d’una medesima società umana?» (nota 5). Benedetto XV prestò particolare attenzione ai costi umani ed economici di un mondo illiberale; scrisse infatti: «Si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e degli orfani; languiscono, per le interrotte comunicazioni, i commerci, i campi sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i poveri nello squallore, tutti nel lutto». Ovviamente, queste parole tristi presagivano quello che seguì: i crimini e i terrori del comunismo e del nazismo, la fine dell’unità europea, l’avvento delle armi di distruzione di massa e la resa dell’Occidente a ideologie d’ingegneria sociale, di laicismo, di consumismo e a ogni sorta di orrore. Queste furono le preoccupazioni terrene dei papi che succedettero a Benedetto XV, fino a Giovanni Paolo il, che ebbe un ruolo decisivo nel rovesciare le grandi tirannie del secolo scorso. Fu un periodo sconcertante per tutti coloro che credevano nelle tesi di Lord Acton e dei suoi contemporanei.

Che cosa ne è stato della speranza cristiana? La troviamo in documenti del Concilio Vaticano Secondo, l’evento più importante che segnò la vita tanto di Papa Wojtyla quanto del teologo tedesco Joseph Ratzinger. Questo Concilio non voltò le spalle alla libertà religiosa, ma anzi la abbracciò completamente, con la fiducia che le problematiche successive alla fine del potere temporale sarebbero state temporanee. Questo Concilio guardò a un mondo di rinnovato progresso spirituale e materiale, in cui un ordine mondiale di libertà - insieme al progresso tecnologico - avrebbe servito tutti i popoli in ogni luogo. Il Concilio pose un rinnovato accento non solo sulla missione salvifica finale della Chiesa, ma anche sulla sua missione temporale per la solidarietà e per il benessere umano. Quando il Concilio si concluse, molti cattolici tradizionalisti nutrivano seri dubbi sull’ottimismo che segnava lo spirito del Vaticano Secondo, in particolare quello che portò la Chiesa ad abbracciare il mondo moderno e a definire più chiaramente la necessità della libertà religiosa e dei diritti dell’uomo. Oggi, però, la saggezza del Concilio appare più chiaramente. Il comunismo e il nazismo sono venuti meno, e lo stesso pare stiano facendo anche le altre ideologie che hanno dominato il Ventesimo secolo. Viviamo nuovamente in un’epoca di rinnovata speranza (salvo cospicue eccezioni nel mondo islamico), simile a quella che diede origine alla visione liberale del Diciannovesimo secolo. Questa visione fu caldamente abbracciata da Giovanni Paolo II, e si può notare chiaramente come essa continui con Benedetto XVI, che parla in favore della libertà religiosa pressoché a ogni incontro con i leader laici. Infatti, gli scritti di Benedetto XVI su questioni di politica e di teologia ardono di passione per la libertà di pensiero, che lui ricollega alla tradizione cristiana e che fa risalire alla straordinaria affermazione di Gesù secondo cui non c’è identità tra ciò che appartiene allo Stato e ciò che appartiene a Dio. Pertanto, il cristianesimo non è una fede politicizzata; non trova il suo compimento nel potere di re, presidenti, piani centrali o in rivoluzioni scatenate per assumere il potere da parte di nuovi regimi. Inoltre, i suoi scritti sull’inviolabilità della coscienza sono tanto appassionati e politicamente inflessibili quanto quelli di Lord Acton. Le implicazioni economiche di questa posizione sono chiare da secoli. Uno Stato che tutela la proprietà privata e non interferisce con la libertà di associazione o di coscienza individuale deve tollerare l’emergere della matrice complessa dell’azione e dello scambio umani, conosciuta come economia di mercato. Non v’è dubbio che gli studiosi cattolici del Ventesimo secolo siano stati lenti nel comprendere appieno questo punto, ma dopo decenni di elaborazione della dottrina sociale cattolica, Giovanni Paolo II ha saputo trovare ragioni pastorali per chiarire definitivamente questa confusione a seguito del crollo del socialismo: la sua enciclica del 1991 Centisimus annus spiega in ottica morale e pratica l’economia di mercato come un’applicazione di interessi cattolici.

Si riscontra dunque una continuità fra Benedetto XVI e Giovanni Paolo II in materia di economia. Infatti, fu Benedetto che guidò la Chiesa cattolica in un periodo minaccioso, a causa delle teorie della «teologia della liberazione» (sostanzialmente una forma di marxismo cristiano). Questa minaccia portò a scritti sulla storia, sull’evoluzione dell’idea di libertà e sui limiti dello Stato, e grazie a essi abbiamo oggi un’ulteriore elaborazione del «diritto di iniziativa economica», tanto spesso rimarcato dal suo predecessore. Particolarmente interessante è notare come gli scritti del Papa sulla coscienza, così come concepita dai tardi scolastici, possano essere integrati in una difesa morale più completa della libertà economica. Si consideri, ad esempio, il meraviglioso tributo del Cardinal Ratzinger a Bartolomé de Las Casas, che svolse un ruolo importante alla fine dell’occupazione coloniale dell’America Latina, con le sue brutalità, ed esercitò una notevole influenza sull’insegnamento della Chiesa cattolica contro ogni forma di schiavitù umana. Nel 1987, Ratzinger scrisse che il potere della croce «sta nella sua impotenza, e pertanto deve rimanere impotente se vuole essere se stessa». Egli dedica particolare attenzione all’orientamento politico del Nuovo Testamento, che non si occupa del conquistare o rovesciare il potere, ma riguarda piuttosto una sorta di «interiorità apolitica», di «subordinazione, pazienza, ubbidienza»; sottolinea infatti che il Nuovo Testamento «fu scritto in una situazione di minoranza per la Chiesa cattolica che stava crescendo lentamente, ed è dunque diretto alla salvaguardia di ciò che è specificatamente cristiano in mezzo all’impotenza politica dei cristiani, non già all’ordinamento di un potere cristiano» (nota 6). Quando Gesù disse che dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, ha in qualche modo «infranto l’ordinamento fondamentale del mondo antico e più precisamente del mondo pre-cristiano nel suo complesso. Separando lo ius sacrum dallo ius publicum dell’imperatore, creò lo spazio per la libertà di coscienza là dove finisce ogni potere, perfino quello del dio-imperatore romano». Lo Stato diventa quindi «un imperatore puramente umano, e si trasforma nella bestia dell’Apocalisse quando ciononostante vuole rimanere Dio e nega lo spazio inviolabile della coscienza. Sotto questo aspetto, questa affermazione pone limiti a ogni potere terreno e proclama la libertà della persona che trascende tutti i sistemi politici» (nota 7).

Ora, qui ci troviamo di fronte a una difesa molto forte dell’antica visione liberale, secondo cui lo Stato non è Dio e lo Stato che pretende di essere Dio è la bestia o l’anti-dio, e secondo cui la verità deve essere collocata nella coscienza e in una struttura giuridica garante della libertà per emergere in modo culturalmente sostenibile. Questa non è semplicemente una verità strategica, ma dottrinale. Possiamo quindi affermare che Ratzinger potrebbe spingersi ancor più lontano di John Courtney Murray, il teologo più influente che scrisse su questi argomenti prima del Concilio Vaticano Secondo. Egli sostiene che negare la coscienza significa violare i diritti dell’uomo - una tesi straordinaria e meravigliosa da cui tutti noi dovremmo imparare - e che sta al centro della visione cristiana del mondo, ora e per sempre. Inoltre, a ulteriore fondamento della mia argomentazione, si consideri questo brano tratto da Theology and the Church’s Political Science: «È proprio questa separazione dell’autorità dello Stato e dell’autorità sacrale, e il nuovo dualismo che questa implica, che rappresenta l’origine e la base permanente dell’idea occidentale di libertà. Da allora, ci sono due società connesse l’una con l’altra ma non identiche, e nessuna delle due ha un carattere totalitario» (nota 8). Lo Stato non è più un’autorità religiosa che raggiunge le profondità della coscienza. La sua base morale deve riferirsi a qualcosa che sta fuori e al di là dello Stato, vale a dire la Chiesa. E la Chiesa, da parte sua, ha un’autorità che «dipende dall’adesione volontaria ed è legittimata solo a punizioni spirituali ma non civili, proprio perché, a differenza dello Stato, non ha lo status di essere accettata da tutti come qualche cosa di dato in anticipo». Ratzinger è stato apertamente critico nei confronti dei periodi storici caratterizzati dalla fusione di Chiesa e Stato; ha scritto infatti: «Questo equilibrio è stato disturbato abbastanza spesso, poiché nel Medio Evo e all’inizio dell’era moderna Chiesa e Stato si fondevano effettivamente l’una nell’altro, cosicché venne falsificata l’aspirazione della fede alla verità e trasformata in una costrizione, diventando così una caricatura di quello che intendeva essere realmente». Tuttavia, persino nei periodi più oscuri, la nozione della coscienza poté appellarsi a un’autorità che non fu mai definitivamente e completamente fusa nella società civica. «L’idea moderna di libertà è dunque un prodotto legittimo dell’ambiente cristiano, e non avrebbe potuto svilupparsi altrove».

Il cristianesimo è stato ed è unico sotto quest’aspetto. Non fu Papa Benedetto ma già il Cardinal Ratzinger a rimarcare la differenza con l’islam: «La costruzione della società nell’islam è teocratica, e perciò monista e non dualista; il dualismo, che è la pre-condizione indispensabile per la libertà, presuppone per parte sua la logica cristiana. In pratica, questo significa che soltanto là dove viene mantenuta in qualche modo la dualità di Chiesa e Stato, dell’autorità sacrale e di quella politica, esiste la pre-condizione fondamentale per la libertà». Scrive con fermezza: «Dove la Chiesa stessa diventa Stato, la libertà viene meno. Ma anche quando la Chiesa viene allontanata come autorità pubblica e pubblicamente rilevante la libertà è in pericolo, perché lo Stato rivendica ancora una volta completamente per sé la giustificazione della moralità; nel mondo profano post-cristiano, esso non agisce sotto forma di autorità sacrale, ma come autorità ideologica - il che significa che lo Stato diventa il partito stesso, e da quel momento in poi non ci può più essere altra autorità analoga. Lo stato ideologico è totalitario, e non può che diventare ideologico se non è controbilanciato da un’autorità di coscienza libera ma pubblicamente riconosciuta. Quando questo tipo di dualismo non è presente, il sistema totalitario è inevitabile». Il dualismo di ambito sacro e ambito secolare, che sta al centro dell’ideale liberale cristiano, deve essere mantenuto. «La Chiesa deve fare richieste e domande relative alla legislazione pubblica e non può semplicemente ritirarsi nella sfera privata. Peraltro, occorre assicurarsi che Chiesa e Stato restino separati e che l’appartenenza alla Chiesa conservi chiaramente il suo carattere volontario». Questa separazione definisce la posizione politica della Chiesa. Essa non deve essere «diretta semplicemente al potere della Chiesa», poiché questa sarebbe una «contraddizione diretta rispetto alla vera natura della Chiesa e, di conseguenza, andrebbe direttamente contro il contenuto morale della sua posizione politica. Essa è guidata dalla percezione teologica e non semplicemente dall’idea di un’influenza e di un potere crescente».

Per quanti conoscano i suoi scritti, l’affermazione del Papa tratta da Deus caritas est non dovrebbe suonare come una sorpresa: «Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr. Mt 22,21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano Secondo, l’autonomia delle realtà temporali». La dottrina sociale cattolica «non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui e ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato» (nota 9). Questa dottrina ha implicazioni non soltanto per la Chiesa, ma anche per i limiti imposti allo Stato nella gestione della società: «Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente - ogni uomo - ha bisogno: l’amorevole dedizione personale». Così, è per questo che non vogliamo «uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto» (nota 10). Gli scritti del Papa rappresentano quindi il culmine di secoli di riflessione su questo argomento, e le sue considerazioni possono essere meglio comprese alla luce del liberalismo del Diciannovesimo secolo, che a sua volta si rifà ad Agostino, ai Padri della Chiesa e alle parole stesse di Gesù. La libertà, non la forza, è il mezzo con cui la Chiesa convertirà il mondo. Forse un giorno sarà percepito come un’ironia della storia il fatto che un Papa ampiamente considerato come conservatore o reazionario sarà colui che metterà fine a tutte le questioni sulla posizione della Chiesa rispetto alla libertà. Guardando indietro negli anni, vedremo ancor più chiaramente che è stato proprio Benedetto XVI che ha recuperato il glorioso liberalismo cattolico emerso nel Diciannovesimo secolo, che ha avuto il coraggio di abbracciarlo al Concilio Vaticano Secondo e che ha contribuito a fargli mantenere le sue promesse nei primi anni del Ventunesimo secolo.

Note

1) True Liberalism, Acton Commentary, 22 aprile 2005; 2) Un esempio tipico è Information Please database, Pearson Education, 2006: “Benedict XVI”; 3) Il dibattito e la posizione liberale sono esposti dettagliatamente in Lord Acton di Roland Hill, Yale University Press, 2000. Cfr. anche William L. Portier, Isaac Hecker and the First Vatican Council, Edwin Mellen Press, 1985; 4) Dignitatis humanae, parte 2; 5) Ad beatissimi apostolorum, parte 3; 6) Church, Ecumenism and Politics, NY, Crossroads, 1987, pp. 165-79; 7) Church, Ecumenism and Politics, NY, Crossroads, 1987, pp. 165-79; 8) Church, Ecumenism and Politics, NY, Crossroads, 1987, pp. 152-164; 9) Deus caritas est, parte 28a; 10) Deus caritas est, parte 28b

1 commento:

francesco ha detto...

ottimo pezzo!!! e ampiamente condivisibile... la lettura del vaticano I è precisa e puntuale (lo dico da ecclesiologo in erba)
spiego molto, anche se non tutto, della cosidetta "novità" di benedetto xvi
francesco