30 maggio 2007
False accuse al Papa: parla il canonista Drigani
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Intervista al canonista monsignor Drigani:
«La segretezza è indispensabile per tutelare vittime e indagato»
Monsignor Andrea Drigani scuote la testa più volte, mentre prende appunti. Quanto si afferma nel film Sex crimes and the Vatican (nella toto un fotogramma) non lo convince affatto. Per far chiarezza sulle procedure seguite dalla Chiesa nei casi di pedofilia gli abbiamo chiesto di guardare insieme a noi, in redazione, il film della Bbc che fa discutere in questi giorni. E lui, docente di Diritto canonico alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, presidente del Tribunale ecclesiastico fiorentino e per alcuni anni anche di quello regionale, ha accettato volentieri.
Partiamo dal Crimen sollecitationis del 1962. Si afferma che fosse un «documento segreto».
«È vero che non fu pubblicato sull’Acta Apostolicae Sedis, ma fu pubblicato a parte in un volumetto a solo dalla Tipografia Vaticana. Quindi non era un documento segreto».
Cosa prevedeva?
«Riguardava quel particolare delitto che si chiama la “sollecitazione di natura sessuale” che potrebbe avvenire nell’ambito del sacramento della confessione, un delitto gravissimo che distrugge la dignità del sacramento e per questo prevedeva il massimo della pena, cioè la scomunica, riservata alla Sede Apostolica».
Quindi l’intento di quel documento non era quello di proteggere i pedofili…
«Certamente no. È evidente che la segretezza nelle indagini è fondamentale, perché non è la prima volta che ci sono state delle calunnie. Ci sono stati preti e vescovi calunniati per un eventuale tentativo di abuso».
Però è proprio la segretezza il punto più criticato.
«È vero che può essere un’arma a doppio taglio… però ha la sua ragion d’essere. La segretezza riguarda le indagini, perché siamo in una materia molto delicata. Serve per la tutela dell’indagato, quindi per difendere la sua buona fama, e per impedire l’inquinamento delle prove. È un elemento che è presente in tutti i tipi di ordinamento nella fase istruttoria».
Cosa c’entrava Ratzinger con quel documento?
«Nulla, perché nel 1962 era un semplice professore di teologia in Germania».
Il documento successivo è del 2001...
«Il 30 aprile 2001, Giovanni Paolo II, con un motu propio (Sacramentorum sanctitatis tutela) ha riorganizzato tutto il settore dei “delitti gravi” nella celebrazione dei sacramenti – e tra questi quello della Confessione – alla luce del nuovo Codice di Diritto Canonico».
E questo documento introduce il delitto di pedofilia, che prima non esisteva…
«Teniamo conto che nel 1962 non esisteva ancora nemmeno la Carta dei Diritti del Fanciullo, che è del 1989 e che le violenze contro una donna erano ritenute un reato contro la morale e non contro la persona (cambierà solo nel 1996)».
Torniamo al delitto di pedofilia. Cosa prevede il testo del 2001?
«L’ha introdotto in maniera precisa, elevando anche l’età dai 16 ai 18 anni e prevedendo che in quest’unico caso («delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età»), la prescrizione dei dieci anni decorra solo dal compimento del 18° anno della vittima. Inoltre, è prevista la scomunica riservata alla Sede Apostolica».
Nel filmato si dice che è un documento segreto.
«Assolutamente no. Fu pubblicato sull’Acta Apostolicae Sedis, si direbbe sulla Gazzetta Ufficiale della Chiesa».
Poi arriva la «Lettera» della Congregazione della fede, firmata dall’allora Prefetto Josef Ratzinger.
«Il 18 maggio 2001, la Congregazione, così come era stato richiesto nel motu proprio di Giovanni Paolo II, specifica la procedura da seguire “Circa i delitti più gravi riservati alla Congregazione per la dottrina della fede”».
Qual è la procedura?
«La diocesi manda una prima comunicazione alla Santa Sede, e questa o avoca a sé il caso, oppure autorizza il processo diocesano, ma alla fine vuole anche vedere la conclusione di questo processo».
Si dice che Roma avoca a sé per insabbiare.
«Tutt’altro. Non si è voluto lasciare alla discrezione dei singoli vescovi, ma avere un’omogeneità in una materia così delicata».
Nel filmato della Bbc si fa un po’ di confusione tra foro civile e foro canonico.
«La Chiesa dà pene spirituali, che possono essere anche gravi. Il foro civile potrà tener conto di questa pena, ma mi sembra che sia finito il tempo del “braccio secolare”! L’ordinamento giuridico dello Stato può procedere. Non c’è dubbio che si può far forte di una sentenza canonica di sospensione, però bisogna proceda lo stesso autonomamente».
Ma non c’è un obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria?
«La Chiesa deve fare la sua istruttoria. Se l’istruttoria si conclude con una sentenza, la sentenza è pubblica».
Si accusa la Chiesa anche di eccessiva lentezza nel procedere.
«In casi così delicati va fatta un’indagine molto dettagliata. L’accertamento della verità si può anche dilungare nel tempo. E poi non c’è una struttura investigativa come ha lo Stato».
Prendiamo il caso fiorentino di don Lelio Cantini. Alla fine del processo canonico il sacerdote è stato riconosciuto colpevole. Perché non è stato anche denunciato alla magistratura?
«Non c’era più l’obbligo di denuncia. Sia per la legge civile che per quella canonica i reati erano già prescritti. E anzi vorrei qui sottolineare una differenza. Nell’ordinamento giudiziario dello Stato non si può mai derogare dalle prescrizioni, in quello canonico eccezionalmente sì».
Com’è avvenuto in questo caso.
«Il cardinale Antonelli ha chiesto la dispensa alla Santa Sede per poter procedere. Questo sarebbe impensabile per l’ordinamento italiano: la deroga dalla prescrizione sarebbe la fine della certezza del diritto. Ma siccome l’ordinamento della Chiesa ha come legge suprema la salvezza delle anime, allora si può dispensare anche da una norma umana qual è la prescrizione».
Sempre rimanendo a questo caso recente, le vittime però non sono state ascoltate.
«Il Codice di diritto canonico prevede un procedimento giudiziario, con delle prove, un dibattimento e degli avvocati. Prevede un’indagine previa, affidata ad un indagatore nominato dal Vescovo, che deve ascoltare le persone, raccogliere le prove, fare confronti. Se l’indagine previa accerta che esiste qualcosa allora si fa il processo penale. L’imputato ha diritto all’avvocato, le parti lese possono costituirsi… Se però il reato è di pedofilia, tutto il procedimento è sotto la supervisione della Santa Sede, perché si comunica alla Santa Sede che può dire “lo avoco a me” oppure “procedete voi con il processo penale canonico”».
Perché allora questo tipo di processo non c’è stato nel caso di Don Cantini?
«Perché i fatti erano già prescritti e perché non era possibile la reiterazione del delitto. Si è allora autorizzato un processo penale amministrativo che dal punto di vista del diritto alla difesa è meno garantista del processo penale giudiziario. Quest’ultimo, tanto per intenderci, non avrebbe garantito di più le vittime – come si legge invece su qualche giornale – ma al contrario l’imputato. La Santa Sede ha ritenuto che, essendo già passato in prescrizione e date le ammissioni – tant’è che don Cantini ha rinunciato al diritto alla difesa – non c’era bisogno di fare il processo penale giudiziario».
E la pena inflitta era coerente con i «gravi abusi» riconosciuti?
«Sì, tenuto conto della prescrizione, dell’età e delle condizioni di salute del sacerdote. È vero che poteva anche essere prevista la dimissione dallo stato clericale, però il Cardinale stesso ha detto che, sentito la Santa Sede, ha ritenuto non fosse necessario, a motivo dell’età e della salute».
Si afferma che in Italia perseguire questi reati è più difficile perché c’è il Concordato.
«Le due giurisdizioni sono parallele e indipendenti. C’è la libertà della giurisdizione ecclesiastica, ma c’è anche quella dello Stato italiano, il quale – qualora sia aperto un procedimento penale verso un sacerdote – ha solo l’obbligo di comunicarlo al suo vescovo».
Anche da noi le diocesi sono responsabili di eventuali abusi compiuti da sacerdoti?
«L’Ente è responsabile per l’illecito compiuto da un suo dipendente. Questo è un principio giuridico accettato anche in Italia. Può avere anche conseguenze per la Chiesa che si può trovare a dover risarcire le vittime di abusi».
Tornando a Ratzinger, cosa possiamo dire del suo impegno contro la pedofilia nella Chiesa?
«Quando Ratzinger ha ricevuto i vescovi irlandesi, nell’ottobre dello scorso anno, ha usato parole durissime per condannare “gli abusi sessuali perpetrati da religiosi” e ha posto l’accento sulla necessità “che vengano aiutate le vittime e quanti sono stati feriti da tali crimini enormi”. Vorrei anche ricordare l’Istruzione sui criteri di discernumento vocazionale del novembre 2005 della Congregazione per l’educazione cattolica, che esclude dall’ammissione nei seminari di persone “con tenenze omosessuali profondamente radicate”. È vero che non dobbiamo assolutamente confondere omosessualità e pedofilia, però anche in questa occasione c’è stato un richiamo forte verso questo tipo di crimini».
Claudio Turrini
I DOCUMENTI
Il Crimen sollicitationis del 1962
«Crimen sollicitationis» («crimine di provocazione») è un documento del Sant’Uffizio, approvato da Giovanni XXIII nel 1962 e diretto in modo riservato ai vescovi. Vi si stabiliva la procedura da seguire nelle cause di «sollicitatio ad turpia» («provocazione a cose turpi»), cioè quando un chierico veniva accusato di usare il sacramento della confessione per avances sessuali ai penitenti. Raccomandando la massima segretezza delle indagini, l’Istruzione prevedeva quattro diversi esiti: se non emergevano fondamenti di alcun tipo, si dovevano distruggere i documenti accusatori; assoluzione anche in presenza di indizi vaghi, ma il caso veniva archiviato nell’evenienza che emergessero nuovi elementi; con indizi certi, ma ancora non sufficienti per istituire l’azione accusatoria, si doveva procere all’ammonizione dell’imputato, conservando gli atti nell’eventualità di sviluppi futuri; infine, in presenza di indizi sufficienti si celebrava il processo canonico. Come pene il documento prevedeva, secondo la gravità, dichiarazione di inabilità al ministero ecclesiastico, privazione di tutti i benefici, dignità, riduzione allo stato laicale, sospensione a divinis. Si trattava quindi di una pena che per sua natura diventava pubblica nel momento in cui veniva eseguita, anche se il procedimento ecclesiastico veniva portato avanti in tutta segretezza. Tra le aggravanti previste, il numero e la condizione delle persone provocate, specialmente se minorenni e consacrati a Dio con i voti religiosi; la forma della provocazione, specialmente se unita a insegnamento falso o a falso misticismo; la turpitudine degli atti commessi; la reiterazione; la recidività dopo l’ammonizione; la speciale malizia del provocante. Per «crimen pessimum» (il «crimine peggiore»), si definivano sia gli atti omosessuali che quelli compiuti con bambini (di entrambi i sessi) o animali.
Il «motu proprio» di Giovanni Paolo II
«La tutela della santità dei sacramenti, soprattutto della santissima eucaristia e della penitenza, come pure il rispetto dell’osservanza del sesto comandamento del Decalogo da parte dei fedeli scelti per vocazione dal Signore, richiedono che, per procurare la salvezza delle anime, “che deve essere nella Chiesa legge suprema” (CDC, can. 1752), la Chiesa stessa intervenga con la propria sollecitudine pastorale al fine di prevenire i pericoli di violazione». Inizia con queste parole il motu proprio «Sacramentorum sanctitatis tutela», firmato da Giovanni Paolo II il 30 aprile 2001 e pubblicato negli «Acta Apostolicae Sedis». Il documento pontificio dà delle indicazioni «per definire più dettagliatamente sia i delitti più gravi («delicta graviora») commessi contro la morale e nella celebrazione dei sacramenti, per i quali la competenza rimane esclusiva della Congregazione per la dottrina della fede, sia anche le Norme processuali speciali per dichiarare o infliggere le sanzioni canoniche».
In pratica si tratta di un motu proprio di promulgazione delle norme «Circa i delitti più gravi riservati alla Congregazione per la dottrina della fede».
Norme contenute in una Lettera dell’ex Sant’Uffizio ai vescovi di tutto il mondo, datata 18 maggio 2001 e firmata dall’allora Prefetto Joseph Ratzinger. Tra i «delitti più gravi» compare, accanto alla «sollecitazione» a peccare «in occasione o con il pretesto della Confessione», anche il «delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto di 18 anni di età». Oltre a ribadire la «riserva» alla Congregazione per la dottrina della fede per questi casi, si estende il tempo di prescrizione degli atti di pedofilia, facendo scattare i dieci anni dal compimento del 18° anno della vittima.
Lo «Statuto» dei vescovi Usa
Il 23 e 24 aprile 2002 Giovanni Paolo II convocò a Roma i vertici della Chiesa cattolica Usa sul tema dell’abuso sessuale di minori. Giovanni Paolo II usò parole fermissime: «La gente – disse – ha bisogno di sapere che non c’è posto nella vita sacerdotale e religiosa per coloro che vogliono fare del male ai bambini». E volle provvedimenti concreti. Il 14 giugno 2002 la Conferenza episcopale Usa approvò lo «Statuto per la protezione dei bambini e dei giovani», poi rivisto nel maggio 2006, con norme molto rigide verso chi fosse accusato di abusi e di tutela e aiuto delle vittime (vengono istituite in tutte le diocesi apposite commissioni). Si prevede tra l’altro che il colpevole anche di un singolo atto di abuso venga rimosso permanentemente dal ministero ecclesiastico.
Istruzione della Congregazione per l'Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri
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1 commento:
Il problema della pedofilia "ecclesiastica" ma anche quella "laica" , non può e non deve essere considerato (giustamente) un problema secondario.
Spesso ascoltiamo notizie di questo genere ma essendo assuefatti da notizie truculente non gli diamo il giusto peso.
Non dimentichiamo che si tratta di violenza a minori, le pene per i cosiddetti pedofili devono essere certe ed esemplari. Si deve fare del tutto per prevenire questi reati, qualora la prevenzione non riesca, una volta scoperto il reo si deve fare in modo che non possa più commettere reati di questo genere.
Siamo cattolici, possiamo avere pietà per le anime di questi aguzzini ma non possiamo e non dobbiamo fare in modo che con qualche cavillo legale possano farla franca.
Purtroppo a me sembra che lo Stato dia più peso a problematiche di ordine fiscale.
Recuperare le tasse evase:il cittadino o società che per sopravvivere omettono o dimenticano di pagare qualche imposta vengono puniti con multe esorbitanti, talvolta si va anche in galera.
Ma purtroppo spesso vediamo che chi si macchia di orrendi misfatti molte volte se la cava con poco o addirittura con niente.
Bisogna fare chiarezza, capire se nella scala dei valori dell'odierna società contino di più i soldi o la vita... soprattutto la vita degli indifesi.
Cordiali saluti
R.S.
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