28 giugno 2008
Card. Kasper: "San Paolo. Tra dialogo e testimonianza". (Osservatore Romano)
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Tra dialogo e testimonianza
di Walter Kasper
Cardinale, presidente del Pontificio Consiglio
per la Promozione dell'Unità dei Cristiani
San Paolo aveva una modesta statura fisica ed era tutt'altro che un brillante oratore. È stato molte volte in prigione, percosso e in pericolo di morte; per cinque volte ha ricevuto i trentanove colpi, tre volte è stato frustato, una volta è stato lapidato, ha fatto tre volte naufragio, ha patito la fame e la sete, il freddo e la nudità, è stato calunniato, perseguitato e infine giustiziato con la spada. Come ha potuto sopportare e resistere a tutto ciò?
La risposta l'ha data lui stesso, quando ha scritto "per grazia di Dio però sono quello che sono" (1 Corinzi, 15, 10) e "tutto posso in colui che mi dà la forza" (Filippesi, 4, 13). In queste affermazioni tocchiamo il punto centrale della sua vita e della sua fede. Niente di ciò che era attribuiva a suo merito; tutto riteneva dovuto a Dio e alla sua grazia. Dio era la potenza e la forza della sua vita. Il messaggio dell'apostolo è il messaggio della grazia. Abbiamo valore e dignità, salvezza e santità soltanto da Dio e dalla sua grazia. Non possiamo salvarci con le nostre buone opere. La salvezza ci è donata per la nostra fede. Questa grazia è offerta a ognuno di noi. Con la grazia di Dio, un nuovo inizio è sempre possibile. Con la grazia di Dio anche Saulo, persecutore di cristiani, è diventato Paolo, infaticabile messaggero di Cristo. Tutti noi siamo sotto la luce di questa grazia in ogni situazione, e per sempre.
Nella vita di san Paolo c'è stata una trasformazione radicale che ha cambiato tutto. Mentre egli, pieno d'odio verso i cristiani, si recava da Gerusalemme a Damasco, cadde da cavallo, travolto da una luce accecante. Nella lettera ai Galati, Paolo afferma che Dio gli rivelò suo figlio (1, 16). È stato come se gli fossero cadute le bende che gli coprivano gli occhi: ora poteva riconoscere Gesù Cristo come figlio di Dio e salvatore del mondo.
Quell'esperienza lo colpì in tal modo che egli dimenticò tutto il suo passato, protendendosi decisamente verso il futuro (cfr Filippesi, 3, 13). Adesso per lui contavano soltanto Gesù Cristo e il suo Vangelo (3, 8). Ormai sapeva di essere l'apostolo di Gesù Cristo, prescelto e inviato da Dio (Romani, 1, 1 e altro) per portare il Vangelo di Gesù Cristo fino ai confini del mondo allora conosciuto: "Guai a me se non predicassi il Vangelo" (1 Corinzi, 9, 16). Per Paolo, il Vangelo non era una dottrina astratta, bensì una persona: Gesù Cristo.
Dio non è lontano. È il Dio per noi, vicino a noi e con noi. Egli si è umiliato e si è abbassato in Gesù Cristo. Se Dio ha risuscitato Gesù Cristo dai morti, risusciterà anche noi. Allora, in ogni sofferenza e in ogni dolore, in tutte le avversità della vita, la speranza splenderà per noi anche oltre la morte.
È un messaggio lieto ma anche esigente. Dobbiamo sempre orientarci verso Gesù Cristo, verso il suo esempio, la sua vita e la sua parola. Dobbiamo sempre convertirci di nuovo, lasciarci prendere da Lui e seguirlo. Gesù Cristo è il fulcro della fede cristiana, ne costituisce l'identità e la caratteristica. La fede in Gesù Cristo quale Figlio di Dio ci distingue dai musulmani. Non dobbiamo nascondere la nostra fede, ma testimoniarla coraggiosamente come fece Paolo. Questo si attua non solo con le parole, ma prima di tutto attraverso una convincente vita di fede, attraverso la gentilezza, la disponibilità, la benevolenza, la bontà e una fattiva carità.
C'è un altro aspetto importante di san Paolo. Un aspetto che anche i vescovi cattolici in Turchia hanno descritto nella loro lettera pastorale per l'Anno paolino. I presuli hanno fatto notare che Paolo era un ardente testimone di Cristo e allo stesso tempo un uomo di dialogo. Aveva familiarità sia con la cultura ebraica sia con quella greco-romana. Parlava aramaico e greco. All'aeropago di Atene, riferendosi alle altre religioni, disse: "Dio non è lontano da ciascuno di noi (...) In lui infatti viviamo, ci muoviamo e esistiamo" (Atti degli apostoli, 17, 27-28). Il concilio vaticano ii ha fatto propria questa esortazione e ha affermato che la Chiesa cattolica "nulla rigetta di quanto è vero e santo" nelle altre religioni (Nostra aetate, 2). Il concilio ha parlato con rispetto dei musulmani, invitando alla collaborazione con loro allorché si tratta di tutelare e di promuovere la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà per tutti gli uomini (3).
Dialogare non significa mettere da parte la propria fede, né farne un flessibile adattamento. Si tratta unicamente di rendere ragione della fede con tutta la gentilezza e la pazienza dovute. Di spiegare in che cosa, come e perché crediamo. Di essere testimoni della fede in modo attivo. Come questo sia possibile, possiamo impararlo dall'apostolo Paolo. Grazie a lui la Chiesa è diventata universale. I cristiani in Turchia sono certo un piccolo gregge che non ha sempre vita facile, ma fanno parte di una grande comunità universale di credenti. Tutta la Chiesa ha a Tarso e in Turchia una delle sue radici. Per questo la Chiesa universale non può mai dimenticare i cristiani in Turchia.
(©L'Osservatore Romano - 29 giugno 2008)
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