9 luglio 2007

Messa tridentina: il commento del cardinale Ruini


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Rassegna stampa del 9 luglio 2007

La Messa precedente il Concilio

Sollecitudine per l'unità della Chiesa

Camillo Ruini

Dieci giorni fa, al termine dell'incontro dedicato al Motu proprio sull'uso della liturgia romana anteriore al Concilio Vaticano II, Benedetto XVI ha voluto illustrare personalmente i motivi che lo hanno mosso a promulgare questo testo.
Come primo e principale di tali motivi il Papa ha indicato la sollecitudine per l'unità della Chiesa, unità che sussiste non solo nello spazio ma anche nel tempo e che non è compatibile con fratture e contrapposizioni tra le diverse fasi del suo sviluppo storico. Papa Benedetto ha ripreso cioè il contenuto centrale del suo discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana nel quale, a 40 anni dal Concilio, ha proposto come chiave di interpretazione del Vaticano II non «l'ermeneutica della discontinuità e della rottura», bensì quella «della riforma, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa». Egli non fa valere così un suo personale punto di vista o una sua preferenza teologica, ma adempie il compito essenziale del successore di Pietro che, come dice il Concilio stesso (Lumen gentium, n.23), «è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli».
Allo stesso modo, nella lettera ai Vescovi con cui accompagna e mette nelle loro mani il Motu proprio, Papa Benedetto scrive che la ragione positiva che lo ha indotto a pubblicarlo è quella di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa: egli ricorda espressamente come, guardando alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si abbia «continuamente l'impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava maturando, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l'unità». Da qui deriva per noi «un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell'unità, sia reso possibile di restare in quest'unità o di ritrovarla nuovamente».
Solo ponendosi su questa lunghezza d'onda si può cogliere davvero il senso del Motu proprio e si può metterlo in pratica in maniera positiva e feconda. In realtà, come il Papa ha spiegato abbondantemente nella sua lettera, non è fondato il timore che venga intaccata l'autorità del Concilio e messa in dubbio la riforma liturgica, o che venga sconfessata l'opera di Paolo VI e Giovanni Paolo II. Il Messale di Paolo VI rimane infatti la «forma normale» e «ordinaria» della liturgia eucaristica, mentre il Messale romano anteriore al Concilio può essere usato come «forma straordinaria»: non si tratta, precisa il Papa, di «due Riti», ma di un duplice uso dell'unico e medesimo Rito romano. Giovanni Paolo II, inoltre, già nel 1984 e poi nel 1988, aveva consentito l'uso del Messale anteriore al Concilio, per le medesime ragioni che muovono ora Benedetto XVI a fare un passo ulteriore in questa direzione.
Tale passo ulteriore non è del resto a senso unico. Esso richiede una volontà costruttiva, e una condivisione sincera dell'intenzione che ha guidato Benedetto XVI, non solo a quella larghissima maggioranza dei sacerdoti e dei fedeli che si trovano a proprio agio con la riforma liturgica seguita al Vaticano II, ma anche a coloro che rimangono profondamente attaccati alla forma precedente del Rito romano. In concreto, ai primi è richiesto di non indulgere nelle celebrazioni a quegli arbitri che purtroppo non sono mancati e che oscurano la ricchezza spirituale e la profondità teologica del Messale di Paolo VI. Ai secondi è richiesto di non escludere per principio la celebrazione secondo questo nuovo Messale, manifestando così concretamente la propria accoglienza del Concilio. In tal modo si eviterà il rischio che un Motu proprio emanato per unire maggiormente la comunità cristiana sia invece utilizzato per dividerla.
Nella sua lettera il Papa, rivolgendosi ai Vescovi, sottolinea che queste nuove norme «non diminuiscono in alcun modo» la loro autorità e responsabilità sulla liturgi a e sulla pastorale dei propri fedeli: come insegna il Vaticano II (Sacrosanctum Concilium, n.22), ogni Vescovo è infatti «il moderatore della liturgia nella propria diocesi», in comunione con il Papa e sotto la sua autorità. Anche questo è un criterio di primaria importanza perché il Motu proprio possa portare quei frutti di bene per i quali è stato scritto.

© Copyright Avvenire, 8 luglio 2007

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