4 maggio 2007

Botta e risposta fra Giuliano Ferrara e Gianni Baget Bozzo


Vedi anche:

Rassegna stampa del 4 maggio 2007


Al direttore

Il meccanismo terrorista nasce dalla potenza della parola, è la parola che arma la mano ed è la parola che costruisce un accorporamento di uomini. E oggi la parola può rivolgersi a tutti mediante quello strumento universale di comunicazione che è Internet. Il terrorismo degli anni Settanta è stato preparato dagli anni del Sessantotto. Lei tende a sottovalutare la potenza della parola e la responsabilità di quelli che la usano. Ma la chiesa sa di suscitare l’odio del mondo, duemila anni di storia le hanno insegnato a sentire il vento prima che arrivi la tempesta. Ci sono due forze oggi contro l’occidente. Una è la sfida islamica, l’altra è la sfida interna all’occidente che odia se stesso. Oggi l’odio antioccidentale emerge nel mondo, unisce l’America latina al mondo islamico. E figure che hanno espresso l’identità dell’occidente e l’unità dell’occidente come Bush, Blair, Berlusconi e Aznar, non hanno più tanto potere da suscitare odio. L’unica figura odiabile dagli occidentali di occidente e dagli antioccidentali d’occidente è la chiesa cattolica. E segnatamente questo grande Papa, che ha difeso l’appartenenza all’occidente della cristianità assieme all’universalità della fede cristiana. Un cattolico sente sulla sua pelle l’odio del mondo e sa bene che uccide più la lingua della spada, lei in altre occasioni non ha mostrato di credere a questo principio. Ma lei, cui i cattolici debbono molto, non compia una seconda volta l’errore di credere all’innocenza della parola.

Gianni Baget Bozzo

Risposta del Direttore

Quel che dice, caro don Gianni, mi convince, e non solo passionalmente. Sono uno dei più sicuri assertori del potere anche maligno della parola, e negli anni Settanta feci anche più del mio dovere contro la parola cattiva e terrorista, sopportandone a lungo le conseguenze. Però legga una mia opinione a pagina II dell’inserto, la prego.

Il Foglio, 4 maggio 2007


Agnes, non agnelli

Anche il compassato Osservatore Romano, nel suo piccolo, qualche volta perde le staffe

Le note approvate in Segreteria di stato (quando serve), quell’aria pigra da quotidiano del pomeriggio, quell’aura ancora molto elegantemente “”non expedit style” e quell’aplomb diplomatico da giornale che si rivolge a tutto il mondo.
Anche quando, umano troppo umano, regola qualche partita interna o allunga lo sguardo giusto sull’altra sponda del Tevere. Eppure, nel suo piccolo, ogni tanto anche l’Osservatore Romano perde le staffe. E lascia partire certe bordate pesanti di cui, per altro, subito dopo quasi sempre cristianamente si pente (di aver perso le staffe, non del giudizio espresso, per quanto nemmeno in Segreteria di stato pretendano l’infallibilità in materia giornalistica). Ma le fa
partire. Poi magari tocca a monsignor Lombardi, direttore della Sala stampa del Vaticano, correre a smussare, a far capire che forse si è usata la parola sbagliata, che l’importante è “non trasformare una sciocchezza in tragedia”. Ma i motivi che fanno perdere le staffe al giornale del Papa sono tanti. Spesso tosti.
Ad esempio di recente sono partiti siluri contro la marcia a favore dei Dico, “una carnevalata” isterica organizzata da “persone irrispettose”.
Altre volte l’oggetto della polemica appare più volatile, come quando Mario Agnes sfidò a singolar tenzone Nonno Libero, alias Lino Banfi, definendo “una polpetta da sceneggiata di terzo livello” la sua fiction zapaterista con figlia lesbica. E allora, nei modi felpati dei Sacri palazzi, gli fecero capire che, magari, alla critica televisiva può pensarci qualcun altro.
Meglio un editore eterno
Il fatto è che anche i giornali hanno una vita biologica, a poco a poco invecchiano assomigliando ai loro direttori di lungo corso. Così è vero che, negli anni, l’Osservatore si è fatto più bizzoso e
un po’ ruvido come il suo direttore Mario Agnes, irpino segaligno e ascetico tanto quanto suo fratello Biagio, che ai tempi belli di De Mita e degli irpini e del potere vero, era un democristianone pacioso, affabile, persino laicamente tollerante. Lui, Mario, medievalista e antico presidente dell’Ac, non è mai stato così, e l’Osservatore che dirige da ventitré anni somiglia a lui, testardo e
attaccato ai suoi suoi punti di vista. Capita anche a un giornale che ha un editore potenzialmente eterno come il Papa, e uno di riferimento che sta ancora più in su. A conferma del fatto che non
ci sia come avere un padrone dichiarato e ingerente per garantirsi la libertà di stampa e di parola. Diversamente, non sarebbe durato tanto così a lungo, navigando imperterrito tra le accuse di essere troppo equivicino alla politica italiana, vuoi troppo di sinistra, vuoi troppo di centrodestra. Tra le accuse di essere troppo sensibile al suo amico e mentore cardinal Crescenzio Sepe.
Umano troppo umano, il giornale della Santa Sede. Ma avesse il fiato sul collo di un patto di sindacato, sarebbe certo meno libero di dire la sua.

Giuliano Ferrara

Il Foglio, 4 maggio 2007


Il nuovo dramma della chiesa nello spazio pubblico

Gianni Baget Bozzo, a proposito di “anticlericalismo e terrorismo”, dice nella rubrica delle lettere di oggi che la chiesa è martire nel suo sapere storico, sa riconoscere da lontano e per tempo la parola d’odio che la investe, e aggiunge considerazioni condivisibili sulla figura di questo Papa, che non è più nemmeno nella sua carta intestata Primate d’occidente, e non lo è più per sua scelta, ma del significato di quella parola decisiva è l’ultimo serio ed effettivo custode, per tante ragioni che sarebbe lungo enumerare.
Aggiungo qualche considerazione sparsa a quelle di Baget, motivate dal sospetto, infondato, che bacchettando amichevolmente l’Osservatore romano per una polemica condotta con un timbro troppo aggressivo, coltivassimo un equivoco lassismo.
Intanto, bisogna sempre ricordare che il predecessore di Benedetto XVI fu colpito da mano assassina, sopravvivendo a stento, in un tempo, ventisei anni fa, che è parte della nostra storia presente nonostante la sconfitta successiva del mandante Yuri Andropov, il capo del braccio di intelligence dell’Unione Sovietica, con la Polonia e la caduta poi del muro di Berlino.
Insomma, martirio non è solo una parola liturgica, quando si parla della chiesa. E lo dimostrano anche le cifre dei martiri meno conosciuti, da quelli raccontati da Maurizio Crippa sabato scorso nel suo splendido pezzo su Pedro Arrupe S.J., ai molti altri su cui
ci ragguagliano, voci nel deserto, i nostri amici Antonio Socci e Bernardo Cervellera.
Tuttavia, visto che qui si sta parlando di un Rivera qualunque, un cantantista o comicista da Raitre cui nessuno, tranne la folla sbracata dell’inaudito concertone edonistico-sindacale, dà un soldo di credibilità, bisogna fare il punto. Perché quella reazione dell’Osservatore appare sproporzionata e indice di un fraintendimento. Mica la pensiamo come Michele Serra, che vuole protestare contro le minacce orrende a Cofferati (Repubblica di ieri), ma vorrebbe derubricare a minacce di passaggio, e in fondo
carine, quelle a monsignor Bagnasco, perché così il lettore si rassicurerà del fatto che si è in salotto tra sicuri laici. Tuttavia
la chiesa, nel suo comunicare, deve riuscire a essere robusta e maliziosa. Capire che avrà daffare con altri Rivera, e deve saper essere egemone nel trattare la faccenda.
Partendo dalla sua propria gloria, che è anche una gloria culturale.
Effettivamente, a parte il suo mestiere canonico di evangelizzazione, cioè la sua sostanza, la chiesa è ormai anche sul terreno della realtà umana vivente nella sua dimensione pubblica, dei comportamenti degli uomini e delle donne del secolo, funzione
che ha rivendicato ottenendo un posto di interlocuzione laica. La chiesa ovviamente non è laica, e non è agente politico, ma rivendicando una vita come se Dio ci fosse al mondo moderno che per solide tradizioni culturali fa il contrario, ha inevitabilmente messo se stessa dentro uno spazio pubblico che nessuna rete concordataria può proteggere come un tempo.
Alimentando la reazione, che va dall’anticlericalismo religioso dei radicali, quello di cui parlò in un suo piccolo e bel pamphlet
Angiolo Bandinelli, a quello al barolo, ottocentesco, fino a quello malmostoso, di nuovo conio, che appunto, come dice Baget Bozzo, prende di mira la chiesa e il Papa
come prendeva di mira i leader politici dell’occidente, riversando equivoco e odio su un’istituzione di cui non vede la libera funzione sacra e di risacralizzazione del mondo, ma solo quella presuntivamente politica. Distinguere tra violenza vera e genericità polemica, nemici pericolosi e caciaroni senza molto da dire e troppo da gridare, diventa importante. Per non esporsi all’accusa di intolleranza e oscurantismo censorio, che è un’arma carica sempre nelle mani degli anticristiani anticattolici di tutti i tipi. L’ironia è l’arma più forte, scrivemmo delle nostre stesse
campagne sulla sacralità della vita, a suo tempo.
Ecco, oltre alla dura e giusta reazione contro i violenti, la chiesa che con Wojtyla era ancora abbastanza risparmiata dal dileggio, per l’impatto carismatico dell’atleta di Dio, mentre adesso con Ratzinger ha precisato con immensa forza teologica la sua legittima aspirazione a impicciarsi del secolo, deve saper calibrare la polemica anche contro il dissenso(o gli stupidi).

Giuliano Ferrara

Il Foglio, 4 maggio 2007

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