31 maggio 2007

Il ritorno della Messa in latino...opinioni a confronto


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Il papa è pronto a liberalizzare l'antico rito

di Paolo Rodari

Oramai nella curia romana, all’interno cioè dei “ministeri” che hanno in mano l’organizzazione della Santa Sede, se ne parla senza che nessuno sappia dare risposte certe.
L’oggetto è l’attesissimo "Motu proprio" con il quale Benedetto XVI dovrebbe concedere, ai sacerdoti che lo desiderano, di celebrare - senza il previo consenso del vescovo - la messa con l’antico rito, quello di san Pio V, quello insomma che prevede l’uso della lingua latina e nel quale il prete è chiamato a celebrare sull’altare tenendo le spalle al popolo.
Un rito, di per sé, mai abolito, seppure dopo il Concilio Vaticano II i sacerdoti che desideravano avvalersene nelle proprie celebrazioni eucaristiche potevano farlo chiedendone però espressamente il permesso al proprio vescovo.
L’argomento, anche nei sacri palazzi, non è dei più semplici da affrontare: parecchi sono i vescovi e i sacerdoti che pensano che una liberalizzazione sia un pericolo per la Chiesa in quanto con essa si darebbe troppo spago alle comunità tradizionaliste.
Oltre ad alcuni vescovi di curia, è in buona parte dell’episcopato francese che si respira una aria critica e avversa alla liberalizzazione del rito.
In Francia, infatti, le chiese sono sempre più vuote, i seminari pure, e a “tenere” sembrano essere soltanto quelle comunità tradizionaliste che la leadership della Chiesa d’Oltralpe non vede di buon occhio.
Eppure, per molti presuli che lavorano in Vaticano, la liberalizzazione non sarebbe un pericolo per la Chiesa
.
È noto, infatti, che sia in Francia come in parecchie diocesi del Nord Europa, il rischio maggiore per la Chiesa viene più che altro da quei sacerdoti - e sono molti - che non solo non guardano di buon occhio la liberalizzazione dell’antico rito ma che, in modo arbitrario e del tutto scorretto, usano non rispettare neppure le norme del messale oggi in vigore, snaturando quindi gravemente la corretta celebrazione della messa così come è prevista nella Chiesa.
Un problema enorme se si pensa che la liturgia altro non è che il cuore della Chiesa: ciò in cui essa crede (lex credendi) le viene da come prega (lex orandi).
Benedetto XVI, ancora quando era un semplice cardinale, aveva avuto più volte parole di apprezzamento per l’antico rito e soprattutto in due libri - “Introduzione allo spirito della liturgia” e “Il Dio vicino” - aveva fatto intendere come orientare la celebrazione liturgica verso Oriente - verso Cristo che “avanza” e “viene incontro” - è pratica da recuperare e da valorizzare.
Recentemente anche Albert Malcolm Ranjith (segretario della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti), aveva spiegato come i due riti (quello attuale e quello di san Pio V) possano «benissimo coesistere» anche perché «i due messali sono messali della Chiesa».
Così la pensano anche quei tantissimi sacerdoti che in questi giorni hanno ordinato on-line sul sito www.ecclesiacatholica.com, copia della ristampa del “Compendio di liturgia pratica” di Ludovico Trimeloni, testo che si dimostrò parecchio utile ai sacerdoti dopo la grande riforma del beato Giovanni XXIII.
A quando dunque l’attesa liberalizzazione dell’antico rito? Difficile rispondere. Di certo pare ci sia soltanto che il testo del "Motu proprio" a firma Benedetto XVI sia pronto.
Recentemente, inoltre, sembra che il papa ne abbia parlato in udienza privata anche con Robert Spaemann, docente di filosofia all’università di Monaco, il grande intellettuale cattolico tedesco al quale lo stesso Ratzinger dedicò nel 1987 il libro “Chiesa, Ecumenismo e Politica” (Kirche, Ökumene und Politik).
Un’udienza, quella che il papa ha concesso a Spaemann, di cui si è saputo poco anche se si dice che il professore tedesco ne sia uscito col convincimento che il "Motu proprio" sarà reso noto presto, forse addirittura entro questo mese.
Oggi, all’Università Europea di Roma, un congresso internazionale rifletterà su “Cristianesimo e secolarizzazione”, le sfide per la Chiesa e per l’Europa. Presente, oltre al segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, al responsabile dei rapporti con gli Stati monsignor Dominique Mamberti e all’arcivescovo di Toledo Antonio Canizares, proprio Robert Spaemann. Tra i temi che si affronteranno non dovrebbe esserci la liturgia ma è evidente che la presenza del cristianesimo in Europa non può essere slegata dall’aspetto liturgico.
Per far fronte alla secolarizzazione dilagante del vecchio continente, la Chiesa non può che cominciare a praticare correttamente al suo interno le norme liturgiche, cuore della vita di fede.

Il Riformista, 30 maggio 2007

So che alcuni non condividono, ma io tifo per il motu proprio
:-)
Grazie a Paolo Rodari per l'autorizzazione a pubblicare il suo articolo!

Raffaella

“Ratzinger non tornerà indietro”

SILVIA RONCHEY

Il battistero è un simbolo potente, nel linguaggio dell’architettura religiosa e della liturgia. Se pensiamo ai battisteri medievali, come quelli di Pisa o di Parma, li vediamo al centro della piazza, a mostrare come la Chiesa debba uscire dal proprio luogo per incontrare il mondo. Perché «il battistero è l’edificio della soglia ecclesiale, narra il rapporto tra chiesa e mondo», spiega Enzo Bianchi alla vigilia dell’apertura, stamattina, del V Convegno Liturgico Internazionale, promosso dal Monastero di Bose in collaborazione con la Conferenza Episcopale Italiana e dedicato appunto all’architettura del battistero e alla liturgia battesimale. Un convegno che come sempre a Bose ha una chiave scientifica, riunendo i massimi studiosi delle discipline coinvolte, l’architettura sacra e la liturgia; una chiave ecumenica, nel confronto tra i rappresentanti di più chiese (i delegati anglicani e quelli ortodossi del patriarcato di Costantinopoli e di quello di Mosca); e una chiave attualizzante di riflessione teorica e politica sul presente.
L’architettura religiosa è metafora della posizione della chiesa nel mondo, la liturgia solleva il problema del linguaggio “politico” della chiesa, del suo modo di parlare alla collettività. Il dialogo fra le due indica «lo stile con cui la chiesa deve stare nel mondo» e punta il dito sull’eterno dilemma tra «l’obbligo di comparire e la tentazione di sparire», sul rischio che le due posizioni si massimalizzino, e sulla necessità, invece, che la chiesa trovi il suo ruolo proprio nella tensione dialettica tra i richiami contrapposti e contraddittori già nel Vangelo.
A Bose il discorso scientifico e la riflessione teologica si trasformano così in analisi critica dell’oggi, nella prospettiva di un Motu Proprio di Benedetto XVI che autorizzi il ritorno alla ritualità antecedente il concilio Vaticano II. «Ratzinger non lo farà», taglia corto Enzo Bianchi. «Non ci sarà la ferita alla riforma liturgica. C’è solo una minoranza un po’ nostalgica». In realtà, spiega, quanto proposto dal Concilio non è stato ancora applicato. «Il Concilio attende ancora un’architettura religiosa che applichi il suo modello», che ha tardato a formarsi, contrariamente, ad esempio, a quant’era accaduto dopo il Concilio di Trento, quando una specifica architettura “tridentina” si era subito diffusa.
Nonostante la coincidenza cronologica, non dobbiamo ascrivere ai principi del Vaticano II le brutture della moderna architettura ecclesiastica, che della riforma liturgica sono nel migliore dei casi «applicazioni semplicistiche e ingenue». Nella maggioranza esprimono, invece, altre istanze, altri fermenti di quegli anni: «Molta della deludente architettura ecclesiastica novecentesca», chiarisce Bianchi, «è più debitrice, se mai, di idee sociologiche, imperniate sul concetto di chiesa come assemblea. Ma l’ “ecclesia” cristiana non è come le altre assemblee della terra, perché ha un orizzonte escatologico. E allora l’unico modo di innovare è rinnovando il soffio, l’anima, che è data dalle fonti: tornare alla tradizione». E per tradizione non deve intendersi quella dei secoli più recenti della chiesa, anzi. «Oggi più che mai», chiarisce il priore di Bose, «è necessario lasciare il sicuro porto tridentino e prendere il largo vincendo ogni paura e resistenza. Se lo spazio liturgico non è stato mai veramente ripensato dipende dal fatto che non abbiamo saputo guardare, per procedere avanti, abbastanza indietro: alla tradizione del primo millennio cristiano».
A Bose si alza la voce del clero più colto e più consapevole dell’antichità, multiformità, profondità della storia della chiesa. «Nel viaggio della barca della chiesa nella storia nessun porto deve diventare rifugio o meta definitiva, ma soltanto luogo di passaggio e transito». Non solo è lecito ma «necessario, nelle varie epoche, coniugare il semper con l’hodie». È necessario interpretare la “verità” delle regole alla luce della storia, e dell’interpretazione storica delle consuetudini. Senza per questo essere accusati di relativismo.

La Stampa, 31 maggio 2007


LATIN LOVER

di FRANCA GIANSOLDATI

SE persino Wikipedia, anzi Vicipaedia, l’enciclopedia web più consultata del pianeta, ha deciso di aprirsi al latinorum (www.la.wikipedia.org) e se financo nelle maggiori università cinesi, nella Cina di Hu Jintao, tutta profitto e commercio, stanno sbocciando corsi per studiare le liriche di Orazio, Virgilio e Ovidio allora vuol proprio dire che Joseph Ratzinger non è il solo ad essere convinto che il latino vada resuscitato dal camposanto degli idiomi morti.
«Dopo un periodo di totale indifferenza negli atenei italiani si sta registrando una notevole crescita di interesse nei confronti del latino. I corsi sono assai più frequentati che non in passato. Sì, penso, anche sulla base della mia esperienza, che si stia assistendo al ritorno di questa lingua», sostiene il professor Claudio Leonardi, docente di latino alla Sapienza.
Numerosi segnali confermerebbero questa scelta. In Inghilterra, poco tempo fa, un quotidiano a larga diffusione, lasciando di stucco i propri lettori, è uscito a tutta pagina col seguente titolo: «Id quod circumiret, circumveniat». Lo scopo era di annunciare il ritorno del latino. Lo studio di questa lingua in Gran Bretagna è sempre stato considerato uno spartiacque classista dato che è sempre studiato solo nelle costose ed elitarie scuole private. Adesso la tendenza si è capovolta, e anche nelle scuole statali la materia è entrata dalla porta principale.
Insomma, tutti pazzi per il latino. Compreso il Vaticano. Da quando Benedetto XVI è salito sul soglio di Pietro, nella Chiesa si sta rispolverando l’uso nella liturgia. Un autentico revival rispetto al pontificato precedente. Da qualche mese sul retro dei biglietti delle udienze del mercoledì ha fatto capolino il Pater Noster in lingua originale, in modo da veicolare il più possibile la preghiera latina tra i fedeli. E ora si attende persino un Motu Proprio per dare maggiore dignità alla messa in latino semidimenticata per via della riforma conciliare. A onor del vero, più che di reintroduzione della messa secondo il rito tridentino, il Papa intende soprattutto agevolare quei fedeli che domandano con insistenza (soprattutto in Francia) la celebrazione della messa secondo le regole di San Pio V. In latino, in Vaticano, vengono pubblicati gli Acta apostolicae sedis, una specie di Gazzetta Ufficiale, e in latino c’è persino il bancomat. Tuttavia lo stile scelto dai banchieri dello Ior ha ricevuto una clamorosa bocciatura da illustri latinisti; a loro dire sarebbe un po’ maccheronico. Non appena inserita la scheda sulla videata appare la scritta: «Inserito scidulam quaeso ut faciundam cognoscas rationem», e poi via di seguito (in latino) tutte le indicazioni per ritirare i soldi.
Il Vaticano d’intesa col Cnr ha appena dedicato alla riscoperta del latino un convegno internazionale. L’inaugurazione avvenuta alcuni giorni fa si è aperta con la celebre citazione dei Promessi Sposi. Renzo irritato si rivolge a don Abbondio: «Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?». La domanda ovviamente riproposta per riflettere se in questo Occidente post-industriale c’è ancora posto per una lingua considerata morta e sepolta. Il dibattito è aperto da tempo. Lo scrittore bosniaco Predrag Matvejevic ha persino lanciato l’idea di creare un «arco latino» quale «espressione dell’alleanza di civiltà» da contrapporre come modello allo scontro di civiltà. Benché il latino non sia più parlato - nemmeno al di là del Tevere - resta saldamente ancorato alla cultura europea «attraverso una presenza lessicale in tutti i settori della riflessione teorica, dalla filosofia alla medicina, dalla giurisprudenza alla fisica e alla matematica», ha spiegato Roberto de Mattei, vice-presidente del Cnr, mettendo in risalto le potenzialità della lingua di Cicerone in una società globalizzata, dominata dalla cultura scientifica, ma sempre meno consapevole delle proprie radici culturali.
Il dibattito è arrivato a Bruxelles. Il commissario Ue, Jan Figel, difende a spada tratta la rilevanza di questo idioma nella cultura contemporanea globalizzata. «Non è affatto una lingua morta; ha applicazioni concrete, seppure limitate. Il suo studio è vantaggioso per l’apprendimento delle lingue naturali e non mi riferisco solo alle lingue romanze. Consente di aprire direttamente le porte alle ricchezze del nostro passato. E’ un allenamento per la mente», ha detto. Persino dalla lontana Cina giunge l’eco della riscoperta. Il professor Wang Huansheng, dell’Accademia Cinese delle Scienze sociali, invitato al convegno Cnr-Vaticano, ha rilevato l’interesse dei «giovani studiosi di attingere direttamente nella lingua originaria alle fonti di una civiltà millenaria di cui essi sono appassionati». La passione per gli scritti di Virgilio e Ovidio in lingua originale entra prepotente nel web. I siti per fare ricerche, i portali in latino, i dizionari on-line o i siti dedicati all’epigrafia spuntano come funghi. Uno dei più gettonati: www.latinitatis.com. A Catania gli universitari hanno dato vita ad un giornale radio chiamato «Nuntii latini italici» (www.radiozammu.it) che sta facendo da traino alla rete dei latinisti in erba. In molti hanno preso l’abitudine a comunicare tra loro in latino. Persino Asterix, l’eroe gallico che combatte contro Cesare, si è messo a parlare latino. Chissà se René Goscinny e Albert Uderzo nel 1959 quando l’hanno inventato lo avrebbero mai immaginato.

Il Messaggero, 31 maggio 2007


E’ nel melting pot degli idiomi il futuro dell’Europa

di RAFFAELE SIMONE
NEI giorni scorsi il Cnr e il Pontificio Comitato di Scienze Storiche (una strana coppia, per la verità) hanno organizzato a Roma un convegno dal titolo “Futuro Latino”, con l’obiettivo – dice il sottotitolo – di esaminare il latino come «fondamento per la costruzione e l’identità dell’Europa» e verificare che cosa può fare per la scienza. L’idea, va detto subito, non è nuova: a intervalli le più diverse istanze (accademie, centri di ricerca e altri) si fanno avanti a sostenere che il latino è una lingua viva (questo è falso), che è la base della cultura europea (questo è parzialmente vero) e che bisognerebbe insegnarlo sin dall’infanzia (questo sarebbe insensato). Si appoggiano su fatti sparsi: in Finlandia c’era (e forse c’è ancora) un giornale-radio in latino e il latino si rinnova al punto che anche bomba atomica ha il suo bravo equivalente in quella lingua.
Il latino – è innegabile – è collegato a una straordinaria stagione storica, ha prodotto una formidabile letteratura e ha contribuito a dar forma alle lingue di mezzo mondo. Dopo la caduta dell’Impero, la scienza lo adottò come sua lingua (fino all’Ottocento inoltrato) e la Chiesa fece il resto usandolo da sempre come suo idioma ufficiale. Il latino è stato davvero la prima lingua della globalizzazione.
Ma non mi spingerei a dire che l’identità europea sia fondata sul latino né che la costruzione dell’Europa futura si possa basare sul latino. L’Europa è stata sin dagli inizi una straordinaria baraonda, in cui idiomi di famiglie diverse si sono incontrati e scontrati, soggiacendo alla fine all’egemonia del latino e di alcune altre lingue. Un libro di Gianluigi Beccaria (Tra le pieghe delle parole) pubblicato nei giorni scorsi da Einaudi mostra con maestria quale altoforno di materiali diversi sia stato ciascuno degli idiomi che si parlano in Europa.
Oggi l’Europa è tornata a fermentare come nell’epoca pre-romana: le lingue slave sono uscite dai loro confini, l’arabo circola con gli islamici per l’Europa, lingue africane diverse fanno sentire per la prima volta il loro suono, il cinese è quasi di casa. Nessuno sa quali lingue prevarranno nell’Europa di domani.
Sarei quindi prudente. Lasciamo stare il latino come lingua del futuro. Già sarebbe molto se riuscissimo a farlo imparare ai liceali e se gli altri riuscissero a servirsi almeno di una parte del magnifico tesoro di frasi fatte, motti e proverbi in latino. Ma certo, si dirà: ad impossibilia nemo tenetur...

Il Messaggero, 31 maggio 2007

4 commenti:

francesco ha detto...

come sai io non condivido... e il problema non è il latino!!! in latino si può celebrare anche ora!!! il problema è la nostalgia (falsa, perchè spesso quelli che la hanno non hanno mai partecipato - e celebrato -ad una messa secondo il rito anche solo di giovanni xxiii prima del concilio) per un rito che forti limiti teologici e, giustappunto, liturgici
spero e prego che il papa sappia essere saggio e prudente come lo è stato in maniera esemplare fino ad ora... capisco che le pressioni sono forti e questi articoli vanno in quella direzione: far trovare il papa davanti ad una sorta di fatto compiuto... ah!!! la discrezione di pio xii: questa sì andrebbe ripristinata...
francesco

euge ha detto...

Basterebbe solo un motu proprio per la messa in latino per farti cambiare idea sul Papa???????????

Complimenti!!!!!!!!!!!!! per giunta Benedetto XVI sa benissimo quel che fa non ha bisogno di suggerimenti essendo prima un grande teologo con l'umiltà di riconoscere i propri limiti secondo una persona che non scende a compromessi Personalmente sono favorevole è ora che la liturgia diventi una cosa seria e non rito ripetuto meccanicamente che con l'andare del tempo ha perso in maniera quasi irrimediabile il suo valore e la sua solennità.
Eugenia

francesco ha detto...

penso che il motu proprio in questione sarebbe oggettivamente un danno per la chiesa, quanto al papa la mia venerazione per lui non mi esime dal poter riconoscere che può avere dei limiti e delle scelte non felici... anche così potrò amarlo, come ci ha insegnato nella catechesi dello scorso mercoledì: la chiesa si ama anche con i suoi limiti storici e i suoi errori... ma riconoscendoli se ci sono
il problema della liturgia, com'è scritto chiaramente nella sacramentum caritatis, è di celebrarla per quello che è senza farsene padroni... allora la liturgia attuale della chiesa splende con tutta la sua forza... non il ritorno all'indietro ci aiuta, ma il vivere con fedeltà a dio e alla chiesa l'oggi e questa - splendida - liturgia che abbiamo!!!

Anonimo ha detto...

Era ora che la Chiesa tormasse dentro i binari della saggezza. Una sola lingua - il latino - ha unito tutti i cristiani per 2000 anni, consentendo loro di partecipare attivamente al sacro rito della Messa in ogni parte del mondo. Ora basta uscire dalla propria parrocchia per sentirci smarriti! Ogni parroco ha il proprio libretto dei canti con la propria interpretazione melodica! Non ha insegnato nulla la torre di babele?!? Mi sembra di vedere i nostri politici che si illudono che l'euro possa unire tutti i popoli dell'Europa... non sanno forse che fino a quando i francesi parleranno francese, i tedeschi il tedesco e i britannici l'inglese e via di seguito, non riusciremo mai a capirci e di conseguenza unirci?!? Solo un'unica lingua riuscirà nell'impresa! I saggi lo sapevano da sempre... gli stolti lo hanno dimenticato!!" Concilio Vaticano 2° docet!!!