31 luglio 2007
Messa tridentina: le precisazioni "preventive" di Mons. Bagnasco
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Precisazioni in merito ad una eventuale promulgazione di "Motu proprio" per facilitare l‘applicazione dell’Indulto sull’uso del Messale così detto di San Pio V
Poiché recentemente nell'Arcidiocesi sono circolati commenti anche fuorvianti, a proposito di una eventuale promulgazione di Motu proprio per facilitare l'applicazione dell'Indulto sull'uso del Messale, così detto di San Pio V, si ritiene pastoralmente utile chiarificare quanto segue:
1) il Papa, in forza della sua suprema autorità, ha la facoltà di porre in essere atti giuridici e pastorali universalmente validi e vincolanti;
2) la celebrazione legittima e fruttuosa dell'Eucaristia richiede la piena comunione ecclesiale, di cui - in ultima istanza - è garante il Sommo Pontefice che personalmente ha ricevuto dal Signore Gesù Cristo la missione di confermare i fratelli nella fede (cfr. Lc. 22, 32; Mt 16, 17-19; Gv 21,15-18); quindi, è proprio il Vescovo di Roma a presiedere, con grande misericordia e gioia, la carità universale, non smettendo mai di cercare l'unità di tutti coloro che credono in Cristo;
3) il Concilio Vaticano II non ha abolito o chiesto di abolire la Messa di San Pio V; piuttosto ne ha chiesto la riforma dell'ordinamento come risulta in modo chiaro dalla lettura della Costituzione sulla Sacra Liturgia, capitolo III, numeri 50-58 (cfr. EV 1/86-106);
4) l'ampliamento dell'indulto riguardante la liturgia cosiddetta di San Pio V, non equivale in alcun modo a sconfessare il Concilio Ecumenico Vaticano II, né il Magistero dei Papi Giovanni XXIII e Paolo VI;
5) lo stesso Papa Paolo VI - che nel 1970 promulgò il Messale Romano, secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II -, concesse personalmente a Padre Pio da Pietrelcina l'Indulto per continuare a celebrare, anche pubblicamente, la Santa Messa secondo il rito di San Pio V, sebbene, dalla Quaresima del 1965 fosse in attuazione la riforma liturgica;
6) già il Papa Giovanni Paolo II aveva offerto, il 3 ottobre 1984, con la Lettera "Quattuor abhinc annos" - della Congregazione per il Culto Divino (cfr. EV 9/1034-1035) -, la possibilità ai Vescovi Diocesani di usufruire di un Indulto, onde poter celebrare la Santa Messa usando il Messale Romano secondo l'edizione del 1962, promulgato da Papa Giovanni XXIII. Inoltre lo stesso Pontefice, col Motu Proprio: Ecclesia Dei adflicta, (2 luglio 1988 cfr. EV 11/1197-1205), stabiliva, tra le altre cose, in forza della sua autorità apostolica: "... dovrà essere ovunque rispettato l'animo di tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina, mediante un'ampia e generosa applicazione delle direttive, già da tempo emanate dalla Sede Apostolica, per l'uso del Messale Romano secondo l'edizione tipica del 1962";
7) nella Chiesa sono in vigore - ad incominciare dal IV secolo -, differenti liturgie o riti che, pur rispondendo a tradizioni e sensibilità diverse, esprimono la stessa fede cattolica; tale varietà è segno tangibile della vitalità della Chiesa cattolica;
8) il Concilio di Trento non volle unificare con atto d'imperio i riti allora esistenti nella Chiesa latina; infatti, in base al principio stabilito dallo stesso San Pio V - che su richiesta del Concilio attuava la riforma -, le chiese e gli ordini religiosi che da almeno due secoli avevano il loro proprio rito di veneranda tradizione, poterono conservarlo. Col passare degli anni, di fatto, il Rito romano si affermò ma mai in modo esclusivo; emblematico il caso del Rito ambrosiano diffuso in alcune valli del Ticino (denominate "Valli Ambrosiane"), in tutta l'Arcidiocesi di Milano ma, anche qui, con eccezioni: Monza, Trezzo, Treviglio;
9) due espressioni valide della stessa fede cattolica - quella di San Pio V e quella di Paolo VI - non possono essere presentate come "esprimenti visioni opposte" e, quindi, tra loro inconciliabili;
10) in ambito liturgico, le decisioni e l'operato dei Papi - segnatamente Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI - e dei Concili - Tridentino e Vaticano II - non possono essere presentati in modo conflittuale e, tanto meno, alternativo fra loro.
Sito Arcidiocesi di Genova
Sapete quale data reca questo documento? 29 novembre 2006! Mi piace la chiarezza espositiva di queste precisazioni.
Raffaella
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Grazie a Francesco, possiamo leggere:
Invito del Vescovo di Alba a proposito della concessione della Messa in latino: «Non agitatevi. Dal punto di vista pastorale cambia ben poco»
Celebriamo bene la liturgia del Concilio
di SEBASTIANO DHO
«Non agitatevi!», così si è rivolto ai fedeli il card. Ricard, presidente della Conferenza episcopale francese, presentando la concessione del Papa circa l’uso del vecchio messale preconciliare con la Messa in latino. Così dico anch’io ai sacerdoti e alle comunità nostre, forse frastornate da tanti enfatici annunci e affermazioni inesatte, tipiche dei mass media poco edotti in liturgia. Riservandoci di ritornare a tempo debito sul tema in modo più preciso e completo, diciamo subito che concretamente parlando per noi dal punto di vista pastorale non cambia assolutamente nulla o quasi. Quali sono infatti i punti più importanti del documento da conoscere e tenere presenti come guida autorevole per le nostre liturgie?
1. Il messale di Paolo VI (l’attuale) è e rimane pienamente valido quale "forma ordinaria" per la Celebrazione eucaristica; anzi è richiesto espressamente a coloro che celebrano con quello di San Pio V di riconoscerlo come tale.
Il messale preconciliare (in latino) di cui viene concesso l’uso, oltre che ai sacerdoti che lo desiderano solo celebrando senza popolo, a determinati gruppi e a determinate condizioni, rappresenta la "forma straordinaria" di Celebrazione eucaristica. Quindi nessun sacerdote, tanto meno nessun vescovo, nessuna comunità parrocchiale "è obbligata" a celebrare in latino, o meglio con il Messale preconciliare e nessuno li può obbligare.
2. Il Papa sia nel decreto di concessione sia nella Lettera ai Vescovi ribadisce ciò che peraltro dovrebbe essere scontato, perché già affermato solennemente dal Concilio e dallo stesso Benedetto XVI nella esortazione Sacramento della carità, che ogni vescovo nella sua diocesi, sopratutto nei casi di eventuali difficoltà per l’applicazione di questa concessione, è e rimane il garante dell’unità liturgica e della comunione ecclesiale con una sua responsabilità ineludibile.
3. Per quanto spetta ai gruppi di eventuali richiedenti la celebrazione della Messa preconciliare, non è affatto detto "liberi tutti", ma si esige testualmente che si tratti di «un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica che esiste già in forma stabile»; evidentemente non può sorgere ora all’improvviso; la cosa sarebbe per lo meno strana. Se infatti come è certo per la nostra Diocesi, in questi quasi 40 anni ormai trascorsi dalla riforma liturgica, nessuno, né sacerdote né laico, singolo o in gruppo, ha mai sentito il bisogno di richiedere la celebrazione secondo il vecchio rito (cosa perfettamente possibile a norma dell’indulto di Giovanni Paolo II), l’eventuale richiesta odierna sembrerebbe sicuramente pretestuosa o ideologica. C’è di più: per i fedeli desiderosi di celebrazioni con il rito preconciliare il Papa in persona nella Lettera ai Vescovi pone ancora una condizione. «L’uso del messale antico presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina; sia l’una che l’altra non si trovano di frequente»; il che è profondamente vero e non solo per i fedeli…
Concludo con due brevissime note:
• innanzitutto ringraziamo ancora una volta il Concilio per il dono grandissimo della liturgia rinnovata e insieme tutti coloro, vescovi, sacerdoti e laici, che in questi decenni si sono impegnati grandemente per una applicazione nelle nostre diocesi, specie piemontesi, (nella nostra poi in maniera veramente esemplare), fedele, equilibrata, positiva e serena, senza resistenze cocciute e senza fughe avventate; la controprova ci è data dal fatto che appunto non sono registrati fenomeni di divisioni, contrapposizioni di sorta nelle nostre parrocchie;
• impegniamoci sempre di più tutti, sacerdoti e laici, perché le nostre liturgie siano veramente una celebrazione del Mistero (non in senso magico o misteriosofico da iniziati), ma Mistero cristiano, cioè della fede, valorizzando pienamente i segni, curando la qualità della partecipazione «consapevole, attiva e fruttuosa» (Sc n. 10), e, come afferma il Papa nella Lettera ai Vescovi, «con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo messale (l’attuale)».
+Sebastiano Dho,
vescovo
Una domanda: che cosa accade a chi non ha mai avuto la possibilita' di assistere alla Messa tridentina perche' il Vescovo ha rifiutato l'autorizzazione? Tanto per fare un esempio, i fedeli di Pisa?
Mi sembra che sia una serpente che si morde la coda: non c'erano Messe tridentine prima? Bene...non ci sono nemmeno ora! Che senso ha allora chiedere al parroco?
Raffaella
© Copyright La Gazzetta di Alba, 17 luglio 2007
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LA NEO-NEOSCOLASTICA
Che cosa unisce e che cosa divide quelli che vogliono riscoprire la teologia anche nelle università pubbliche
di Marco Burini
Di cosa parliamo quando parliamo di teologia? Il prefisso piace, lo si usa molto per chiacchierare sui giornali.
Teocon, teodem, teopop, teoprogressisti(letto pochi giorni fa sul Corriere), giochini lessicali anche divertenti ma utili soprattutto a defilarsi di fronte alla parola tutta intera che non si sa mai bene come maneggiare. Tolto il logos resta il teo, una sillaba da lessico sms, un cappelletto, ma la teologia tutta intera non è un accessorio, è un abito completo.
La provocazione del cardinale Scola, che nell’ultimo numero di “Jesus”, il mensile delle Edizioni Paoline, ha caldeggiato il ritorno dell’insegnamento della teologia nelle università statali, increspa le onde di uno stagno culturale troppo cheto. Il patriarca di Venezia ha speso quarant’anni in università: prima studente di filosofia alla Cattolica di Milano, dov’è stato pure presidente della Fuci dal ’65 al ’67 e responsabile degli universitari dell’allora nascente Comunione e liberazione, quindi studente di teologia all’Università di Friburgo, Svizzera, poi docente di antropologia teologica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, dall’82 al ’95, infine rettore della Pontificia Università Lateranense dal ’95 al gennaio
2002. Il pedigree è quello giusto. Da tempo sta dispiegando un suo progetto culturale fatto di omelie, convegni, riviste, e interventi
come questo, in cui rimette sulla piazza la teologia non senza avergli dato prima una bella sferzata: “Non riesce più a interloquire con la realtà, perché si pone in modo eccessivamente difensivo; diventa assai sofisticata, afferra l’obiezione e la sminuzza articolatamente.
Ma intanto, senza rendersene conto, finisce per assumere la logica dell’avversario.
Formalmente lo batte sui contenuti, ma di fatto ne sposa la logica”. Intanto, i corsi di scienze religiose disseminati per ogni dove sembrano guidati più da uno spirito enciclopedico (apprendere l’islam, il buddismo, le nuove religioni, ecc.) che da un’effettiva volontà di elaborare un sapere critico della fede.
Scola però non esplicita il modo in cui la teologia potrebbe tornare negli atenei statali. Quando si tratta di scendere nel concreto, preferisce sponsorizzare la Facoltà teologica del Triveneto, frutto del suo dinamismo imprenditoriale, tipico della migliore tradizione ciellina, che ha irritato i teologi della casa madre milanese da cui si è staccata, poco tempo fa, quella Facoltà teologica dell’Italia settentrionale nata a Milano nel ’67 per impulso del cardinale Colombo. Giuseppe Angelini e Pierangelo Sequeri, le due colonne della facoltà, si sono sentiti scavalcati
e messi in minoranza dalle mosse dell’episcopato. Anche la recente nomina dell’attuale preside della facoltà, Franco Giulio Brambilla, a vescovo ausiliare della diocesi di Milano va in questa direzione. Brambilla, subentrato ad Angelini con un cambio di linea politica, ha sempre avuto un atteggiamento dialogante con Tettamanzi e ha tenuto a battesimo la neonata Facoltà del Triveneto. Questi particolari da retrobottega non sono insignificanti.
La teologia italiana è fatta di correnti e di scuole le più diverse, di aree di influenza che si evolvono, di parrocchie talvolta litigiose e gelose, di splendidi solisti e di abili divulgatori; la dialettica col magistero a volte è turbolenta, in altri casi si fatica a distinguere l’una dall’altro.
Chi sta al centro di questo mondo è Piero Coda, docente di teologia dogmatica alla Lateranense e presidente dell’Ati, l’associazione dei teologi italiani: “L’intervento di Scola è una provocazione importante e pertinente, speriamo che inneschi un dialogo ampio e approfondito.
Materia per discutere ce n’è.
In Italia e in Europa assistiamo a un periodo di radicale transizione e la stessa università va ripensata in base ai parametri del processo di Bologna”. Secondo Coda, si tratta di “una questione di vita o di morte: la cultura contemporanea si è costituita per opposizione al sapere teologico, ma oggi si avverte la necessità di ristabilire un contatto”. Per farlo, “bisogna uscire dagli stereotipi ideologici. Per fortuna ci sono intellettuali avveduti che l’hanno capito”. E Coda prova a dialogare con loro: a settembre è in programma il congresso dell’Ati, che quest’anno ha come tema “L’identità e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana nel farsi dell’umano”, e come ospiti Umberto Galimberti e Laura Boella. Resta il fatto che “la teologia cristiana non è mai asettica, si radica in una esperienza pastorale che rende produttivo il dialogo” con chiunque sia interessato a ragionare sulla fede. In questo senso, “più che facoltà di teologia nelle università statali punterei a un maggior numero di insegnamenti teologici nel tessuto che già esiste e a laboratori di ricerca”. La solita parola d’ordine, interdisciplinarietà:
“No, penso piuttosto a una transdisciplinarietà, a uno spazio relazionale tra le discipline in maniera tale da far emergere dati, conoscenze, che una disciplina da sola non potrebbe raggiungere”.
E’ l’idea di Edgard Morin: “Le scienze, i saperi sono come il grano, ma il pensiero e la filosofia sono come il mulino. Le une hanno bisogno dell’altro”.
Il sociologo francese nell’ingranaggio non contempla la teologia, che nel romanzo del sapere occidentale recita la parte della gemella assente, ma senza di essa le pale di quel mulino non girerebbero nemmeno agli occhi di Don Chisciotte. Lo sa bene Emanuele Severino, il principe dei nostri filosofi, che di sacro commercio con la teologia è avvezzo da una vita. Allievo del neotomista Gustavo Bontadini, dal ’54 al ’70 ha insegnato filosofia teoretica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, che lasciò quando la Congregazione per la Dottrina della fede dichiarò l’incompatibilità del suo pensiero con la dottrina. “Il cardinale
Scola è stato mio allievo in Cattolica, mi fa piacere che ricordi ancora qualcosa delle mie lezioni. Sono d’accordo con lui quando mette in primo piano il tema della verità. D’altra parte non è una questione trascurata dai teologi.
Non mi pare che Pierangelo Sequeri possa essere accusato di non occuparsi del problema della verità, e nemmeno Piero Coda o Bruno Forte, anche se Sequeri e Coda hanno familiarità col mio discorso filosofico”. Severino si riferisce in particolare a “La struttura originaria” (prima edizione 1958) e agli “Studi di filosofia della prassi” (prima edizione 1962) in cui la verità scaturisce dal nesso fede-ragione. I problemi nascono quando si tratta di precisare i due termini, e qui la distanza del filosofo di Brescia con la teologia cristiana è evidente.
Ciò non toglie, anzi stimola il suo interesse per la proposta del patriarca di Venezia: “Scindere filosofia e teologia non ha senso. Una facoltà di teologia è auspicabile, purché non si discosti dall’insegnamento filosofico”. Sì, ma quale teologia? “Una facoltà di teologia deve tenere conto delle diverse religioni, non dovrebbe esserci una semplice lettura cristiana delle altre religioni”. In realtà, Severino non pensa a una filosofia della religione o delle religioni, peraltro già presente negli atenei, ma a “una teologia che non sia accaparrata dal cristianesimo”. Anche in termini pratici, “dovrebbe essere una facoltà autonoma dal magistero, altrimenti sarebbe controproducente, contrasterebbe
con la necessità del dialogo. E’ come se un genitore volesse imporre il proprio punto di vista, alla fine otterrebbe il contrario”. Insomma è d’accordo con Cacciari: “Una facoltà con docenti nominati complicherebbe solo le cose e tra l’altro imporrebbe una revisione del concordato”. E se si perseguisse anche
questa strada? “Lo facciano, se sono capaci e hanno la maggioranza. Resterebbe comunque un atto di forza”. A parte le interpretazioni sul Sessantotto in cui Scola e Benedetto XVI divergono, benevolo il primo e critico il secondo, l’iniziativa del cardinale può essere inscritta nel solco del pontificato ratzingeriano, quello della fides quaerens intellectum?
Severino ritiene che la razionalità a servizio della fede “è un’impresa consistente: per il Papa la ragione è vera solo se unita alla fede, sulla scia di Bonaventura, Anselmo e Agostino. In questo senso va anche il lavoro di Scola. Ma anche il discorso di Sequeri è lo stesso: adottando il mio concetto di struttura originaria del sapere, il teologo milanese sostiene che la ragione è tale solo se unita alla fede. Così facendo, però, tutti costoro si discostano dalla neoscolastica elaborata in Cattolica e a Lovanio, dove si intendeva tener ferma la capacità della ragione di sostenersi da sola, autonomamente, secondo il modello del duplex ordo cognitionis”. Una svolta che a Severino non piace: “Mi pare il sintomo di un arroccamento per paura che l’avversario entri nella fortezza”. In realtà non sembra che il timore sia l’atteggiamento dominante tra i teologi, che invece hanno una gran voglia di spiegare e spiegarsi. A partire dall’attuale Pontefice, cresciuto nell’ambiente universitario tedesco dove ancora esistono
facoltà statali di teologia (Hochschulen).
Con un Papa teologo qualcosa potrebbe cambiare anche da noi. Oppure no. Ma che la questione gli stia a cuore è fuor di dubbio. Il discorso di Ratisbona era incentrato proprio sulla sua passione per l’università, di cui si sente ancora parte, un luogo in cui fare esperienza “del fatto che noi formiamo un tutto e lavoriamo
nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni”. Niente di troppo barboso, intendiamoci, se lo stesso Benedetto XVI era pronto a scherzarci sopra: “Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c’era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – Dio”.
Il fastidio mal dissimulato di molti cattedratici per quelle che sono viste come delle indebite intrusioni (ma come, un uomo di chiesa che ragiona e invita a ragionare?), questo sì assomiglia molto a un arrocco. Quasi quotidianamente si leggono opinioni malmostose e disinformate.
Pochi giorni fa Luciano Canfora* sul Corriere parlava del “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI e sentenziava che “la ricostruzione biografica della persona di Gesù è un esempio concreto, e autorevole, di incursione acritica nello studio del passato” che “allontana le menti dal piacere dell’indagine storico-critica sul passato”.
A parte il fatto che il libro del Papa non è una biografia, non si vede dove manchi di discernimento.
Forse, è solo un altro modello di lettura. Se è vero che lo spirito critico nacque dall’analisi dei testi sacri, per continuare a vivere non gli conviene tagliare il ramo su cui è seduto, magari in nome di un’intangibilità del metodo che sa tanto di feticismo. E allora si capisce che di teologia, insieme a Spinoza, c’è bisogno. Perché la teologia non è dogmatismo così come il dogma non è quella caricatura che tanti amano fare.
A proposito di scrittura, è da prendere in considerazione l’accusa di Pietro Citati: “Perché tanti teologi e studiosi cattolici scrivono così male? Lo stile non è un ornamento, ma il segno”. In
questo, però, sono in ottima compagnia con il resto dell’accademia. Dove sarebbe interessante far entrare una ventata d’aria fresca. Sarebbe anche un modo per dare più spazio alle donne, che non da oggi macinano teologia di altissimo livello. Teologia pubblica, teologia in pubblico, senza accontentarsi di prefissi e di rendite di posizione.
© Copyright Il Foglio, 31 luglio 2007
* Non ho trovato l'articolo di Canfora.
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La teologia? Torni all’università
di Alberto Laggia
Il patriarca di Venezia, esponente di primo piano del movimento di Comunione e liberazione, ritiene giunto ormai il tempo per mettere fine all’ostracismo della teologia cattolica dalle facoltà italiane. E tratteggia i contorni di quella «nuova laicità» per cui, anche nell’istruzione, vale la formula «meno Stato, più società».
Il progredire dell’autonomia universitaria e l’emergente interesse per il fenomeno "religione" potrebbero portare a un riavvicinamento "storico" tra l’insegnamento della teologia e l’università statale in Italia. Anzi questo riavvicinamento sta già procedendo, in forme di collaborazione tra facoltà. L’ipotesi è del cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia ma soprattutto uomo che nelle università ha speso quarant’anni della propria vita: prima come studente (a Filosofia presso la Cattolica di Milano, dov’è stato pure presidente della Fuci dal 1965 al ’67 e impegnato come responsabile degli universitari dell’allora nascente Comunione e liberazione, poi a Teologia all’Università di Friburgo, in Svizzera), quindi come docente (Antropologia teologica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia dal 1982 al 1995), infine come rettore della Pontificia Università Lateranense dal luglio 1995 al gennaio 2002.
Quasi un’esistenza intera vissuta tra le aule degli atenei, trascorsa "in prima linea", in modo "militante" si sarebbe detto qualche tempo fa, dentro le associazioni studentesche cattoliche proprio a partire dagli anni in cui dentro le università passava la critica più radicale della società. Un’esperienza che trasforma: «Considero quello dell’università il tempo privilegiato nella vita di un uomo e di una donna. Non verrà più un tempo così», commenta con passione.
Lo abbiamo intervistato su questi temi, "pubblicamente" di fronte a un centinaio di studenti all’Università di Ca’ Foscari, a Venezia, in occasione del 25° anniversario di fondazione della Casa studentesca Santa Fosca, centro della diocesi veneziana. Dalle considerazioni di Scola, esponente di primo piano di Comunione e liberazione e unico cardinale del movimento fondato da don Luigi Giussani, esce un’immagine assai poco scontata dell’università: gli atenei universitari sono un «microcosmo della società», palestre di «laicità», in debito sì di partecipazione, ma con un ruolo sociale «paradigmatico» di fondamentale importanza.
L’università è il luogo del pluralismo. Eppure oggi non esistono cattedre o facoltà di teologia all’interno delle università statali italiane. Esistono ancora le condizioni che portarono a quell’esclusione? È pensabile un ritorno della teologia nelle aule delle università?
«Bisogna, anzitutto, fare almeno un cenno al dato storico: le facoltà di teologia non esistono perché sono state soppresse, a loro tempo, da leggi non certo clericali. Però, quando ciò è avvenuto erano già diventate filiformi. Bisognerebbe iscrivere questo dato storico nel processo evolutivo dell’università in Italia e in Europa. Negli Stati Uniti è stato ben analizzato dal filosofo morale Alasdair Macintyre in Enciclopedia, genealogia e tradizione. A partire dalle scienze antiche del Trivio e del Quadrivio, l’università sorge di fatto, nel Medioevo, dalle facoltà di teologia. Poi, dopo il grande passaggio della modernità, la scoperta delle scienze sperimentali, la filosofia autonoma, il "ricominciar daccapo" di Cartesio, il "nuovo" mondo, la rottura dell’unità tra i cristiani, e il progressivo moltiplicarsi dei saperi, (come diceva Popper, "il bisogno della demarcazione dei saperi") spingono la teologia sempre più ai margini. Quest’ultima non riesce più a interloquire con la realtà, perché si pone in modo eccessivamente difensivo; diventa assai sofisticata, afferra l’obiezione e la sminuzza articolatamente. Ma intanto, senza rendersene conto, finisce per assumere la logica dell’avversario. Formalmente lo batte sui contenuti, ma di fatto ne sposa la logica».
La crisi della teologia è la stessa che avrebbe poi coinvolto la filosofia?
«Sì, rendendola sempre più astratta e arida. La filosofia sopravvive nell’università perché ha rinunciato a porsi la grande domanda che, secondo il filosofo positivista francese Auguste Comte, non andava più posta: che cos’è la verità? Quale senso ha quell’esserci singolare dell’uomo – il dasein come direbbe Martin Heidegger – che si pone delle domande. Quindi la filosofia rischia di sopravvivere unicamente come una somma di filosofie; quelle che quarant’anni anni fa si chiamavano "filosofie seconde": ermeneutiche delle scienze, filosofia dell’arte, dell’estetica, eccetera. Ma non si gioca più sulla sostanza, e cioè sulla domanda: Quid est veritas?».
Così la teologia è stata tolta dal contesto delle materie scientifiche e la filosofia messa ai margini. Ma che fare, allora? È possibile in altri termini un’università nuova che riponga la domanda fondamentale?
«Anzitutto, bisogna accettare la provocazione della realtà. Nelle università italiane sono state introdotte le lauree specialistiche, tra le quali quelle in Scienze religiose. Purtroppo sono ancora un insieme un po’ confuso di discipline ancora abbagliato dalla pretesa, come spesso avviene per la tentazione enciclopedica, di possedere tutti i saperi: bisogna imparare il buddhismo, imparare l’islam, eccetera. Comunque sia, c’è un ritorno massiccio del "religioso", e non più solo sotto le mentite spoglie delle "scienze umane" (psicologia della religione, sociologia della religione, o simili). Ora la questione viene fuori frontalmente, sia pure dentro questo clima un po’ sincretistico, di carattere interreligioso».
E dunque?
«Io credo che si debba accogliere positivamente questa provocazione e accettare la sfida culturale che l’oggi ci lancia: anche qui sta il senso e il fascino di una presenza cristiana in università. Partendo dall’esperienza cristiana vissuta, è impossibile che non riemerga anche l’interrogativo circa quella visione sistematica e critica dell’esperienza cristiana, che è la teologia. Credo, insomma, che la soppressione e insieme l’autoesclusione della teologia possa essere superata nei fatti affrontando la novità delle cose».
Segnali positivi in questo senso?
«Un fenomeno molto interessante è la neonata Facoltà teologica del Triveneto, sorta come "facoltà a rete", con una sede centrale a Padova, ma frequentabile in tutti i capoluoghi del Nordest. Si tratta di un percorso teologico finalmente agganciato alla realtà. Per esempio lo Studium Generale Marcianum si sta preparando a lanciare l’anno prossimo le prime lauree specialistiche in Beni culturali e in Bioetica. Non più quindi una teologia che sta fuori del reale, ma neanche una teologia che deve accettare di ridursi ad ancella di una scienza umana per avere la dignità e il diritto di cittadinanza in università. Ora, se l’autonomia universitaria va avanti, credo che la dislocazione giuridica della facoltà di Teologia rispetto all’università statale possa non essere più un’obiezione insormontabile, tanto è vero che si sono stabiliti già moltissimi rapporti. Per esempio a Verona quest’anno prenderà avvio un master frutto della collaborazione tra la nostra facoltà di Teologia e la facoltà di Scienze dell’educazione».
Veniamo ai problemi delle nostre università. Recenti indagini negli atenei evidenziano la tendenza degli studenti italiani a vivere in modo sempre più individualistico l’esperienza universitaria: frequenza in aula e agli esami e poco più. Siamo, cioè, lontani dallo stile "campus". Come trasformare l’università in comunità e luoghi di confronto di idee e d’esperienze?
«Reputo un grave limite l’uso "individualistico" dell’università e la sistematica "non frequenza" alle lezioni, una tendenza troppo diffusa in Italia. La dimensione comunitaria dell’università, che è communitas docentium et studentium, o societas, come dicevano i fondatori medievali, è componente essenziale della vita universitaria, la più potente risorsa per realizzare al meglio lo scopo dell’università, cioè l’apprendimento critico, sistematico e organico del sapere da parte dello studente. Proprio questa componente di "sodalizio" è il "di più" che oggi offrono le università più avanzate, da quelle inglesi a quelle americane».
Le viene in mente qualche esempio?
«Ho sempre davanti agli occhi l’esperienza che ho vissuto al Mit di Boston, visitando il grande MediaLab di Nicholas Negroponte, questo edificio spettacoloso di molti piani con laboratori a cui sono ammessi, su concorso, soltanto quattrocento studenti provenienti da tutto il mondo, con altrettanti docenti a loro disposizione. Quel che impressiona qui sono certamente gli spazi comuni di ricerca e di lavoro in tutte le tecnologie mass mediatiche, ma soprattutto il fatto che è la comunità studentesca a farsi carico di tutto. Non c’è un bidello, non c’è un inserviente. Fanno tutto gli studenti: dal tenere pulite le toilettes fino al servizio di caffetteria, così si pagano sia la retta che il posto in collegio. E stanno insieme dalla mattina alla sera. E, cosa assai interessante del MediaLab dove si realizzano moltissimi brevetti, il diritto al brevetto dello studente è rigorosamente rispettato. Cioè, quando all’interno dell’équipe è lo studente a fare la scoperta, è lui che la brevetta, anche se è soltanto una matricola. Insomma, si ha di fronte una comunità naturale, internazionale, aperta, che potenzia enormemente le capacità del singolo. È evidente, d’altra parte, che lo studio e la ricerca possiedono un’insopprimibile dimensione personale. Hegel diceva che a nessuno è risparmiata la fatica del concetto. Ma questa capacità personale di studio e di ricerca fiorisce su un terreno comunitario. E l’humus comunitario, come ci ha insegnato chi in Europa l’ha reso universalmente accessibile, cioè il benedettinismo, ha bisogno della stabilitas loci, cioè una residenza nella sede universitaria. Basta conoscere Oxford o Cambridge per capire la forza dei collegi».
Lei importerebbe questo modello d’insegnamento in Italia?
«Questo modello di insegnamento, che ha i suoi limiti, mette al primo posto il rapporto personale docente-discente, rispetto al modello della lezione magisteriale. Credo che in Italia si dovrebbero fondere i tre grandi modelli: il nostro, che si basa sulla lectio magistralis, quello appunto oxfordiano o comunque anglosassone, fondato sul rapporto docente-studente, e quello americano caratterizzato dal percorso sui grandi autori, sui grandi libri».
A proposito di scarsa partecipazione degli studenti alla vita universitaria, lei ha vissuto in prima persona l’esperienza del ’68. Allora era presidente della Fuci milanese. Che giudizio dà della cosiddetta "rivoluzione studentesca"?
«Anzitutto mi chiederei perché uno studente partecipa, cioè prende parte a un’opera comune. Qual è il movente che lo spinge? Due sono le possibilità: o partecipa perché intuisce che questa è la modalità più adeguata per raggiungere l’obiettivo compiuto dell’essere in università, cioè acquisire una dimensione stabile di "edificazione", perciò di rapporto di lavoro con la realtà. Perché intuisce che la responsabilità verso quel luogo, verso l’alma mater, fa parte del compimento del proprio io. O lo fa per calcolo: con un movente, come dire, "politico", che però non gli permette di afferrare fino in fondo la realtà. Questo era il concetto di partecipazione della mia generazione. In università la partecipazione era mediata dalle associazioni studentesche dei vari partiti in cui si preparavano i quadri in vista della carriera politica. Ma quando è arrivato il ’68, ha spazzato via tutti. Nessuno all’inizio aveva colto questa novità, tanto era abissale il distacco dell’associazionismo dalla realtà. Pure le nostre associazioni cattoliche non avevano neanche lontanamente percepito il ’68. Eravamo, appunto, fuori dalla realtà».
Cosa è stato, dunque, il ’68?
«Sul ’68 ho un giudizio un po’ diverso rispetto a quello che molti – spesso anche cattolici – danno. Considero l’inizio di quell’avventura come una cosa formidabile, al di là di talune esagerazioni. Ma l’iniziale spinta di autentica novità è stata soffocata quasi subito, soprattutto in Italia, quando sono arrivate dalla Normale di Pisa le famose "tesi del potere studentesco". Quando cioè le forze sociali più organizzate – le varie forme di marxismo-leninismo – si sono impossessate ideologicamente di un fenomeno che era nato come fenomeno di popolo nell’università. E questo nei primi mesi delle rivolte a Parigi si è visto molto bene. Come lo si è visto alla Cattolica a Milano. Da qui poi la saldatura con il metodo della violenza, che purtroppo ha trovato nei "guru" del pensiero di allora dei giustificatori invece che dei critici».
Passiamo a un altro tema a lei caro: la laicità dell’università. Quale università sogna?
«Cominciamo dalla questione della natura laica dell’università. Io sono profondamente convinto che noi non risolveremo in maniera accettabile e pacifica il problema della convivenza tra soggetti personali e comunitari così differenziati nel nostro Paese (quello che io ho chiamato "una nuova laicità"), se l’università non tornerà a essere un luogo che testimonia in actu exercitu che una realtà plurale e rispettosa di ognuno riesce a valorizzare tutti i soggetti. In questo senso sono convinto, contrariamente a quanto si tende a sostenere, che l’università possieda un ruolo di paradigma, di "microsocietà", che è inesorabilmente, nel bene e nel male, ancora oggi trainante. E lo sarà in modo particolare per la situazione italiana. I tanti lamenti circa la crisi dell’università, perciò, sono fuori luogo. Da secoli si parla di questa crisi: già Nietzsche si allontanò dall’università da giovane, perché era un istituto in crisi».
Quale futuro vede per l’università, allora?
«Penso che l’università, in ordine al tasso di democrazia sostanziale che una società è capace di proporre ai suoi cittadini, abbia una funzione sociale paradigmatica. E sono convinto che una vera societas laica sia quella in cui tutti i soggetti presenti sono incentivati a manifestarsi pubblicamente, a raccontarsi, in vista di un comune riconoscimento e della costruzione di una vita buona. Nella realtà di un Paese, diversa è la società civile rispetto all’organismo statuale: la società civile è il luogo in cui vive la partecipazione del popolo, in cui la democrazia si attua, in cui la pluralità di soggetti si incontra, si confronta e si racconta per riconoscersi. Perciò il bonum, il bene comune, si realizza nella società civile. Il compito dello Stato, delle autorità statali, è di regolare questa vita. E ciò che si può fare nella società, nell’università lo si dovrebbe poter fare all’ennesima potenza. Ecco perché è un delitto sottrarsi alla testimonianza e alla partecipazione».
In concreto cosa significa questo per l’università?
«Quando propugno una libertà di educazione, non intendo affatto, utilitaristicamente, ridurre la portata del discorso agli aiuti alla scuola cattolica, ma chiedo di ridisegnare il sistema scolastico-universitario del Paese. Di tutto il Paese. Modulando diversamente il peso della società civile, che dev’essere prevalente, soprattutto laddove si tratta di ricerca, di insegnamento e di studio, rispetto al peso dell’organismo di controllo, dello Stato. Dico che lo Stato deve governare e non gestire. E in questo senso spero che l’autonomia dell’università vada veramente avanti. Spero che l’idea delle Fondazioni di partecipazione si faccia strada. Spero che si possa introdurre anche in Italia il metodo della detassazione da parte di chi si dispone ad aiutare l’università. Ad esempio, è chiaro che a Venezia occorre inventare un’università tutta particolare, data la peculiarità della città; non si può dipendere in continuazione da circolari ministeriali che vengono da Roma e che sono le stesse per Ca’ Foscari, la Bocconi, il Politecnico o La Sapienza. Bisogna modulare l’università sulle nostre esigenze. Insomma bisogna dare alla communitas docentium et studentium, ben governata, l’autonomia necessaria per costruire università di questo tipo».
© Copyright Jesus, luglio 2007
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Che la Madonna non sia Dio è vero. Anche se i cristiani la venerano, con indomabile amore, come Theotócos: Madre di Dio. Un appellativo teologicamente corretto, su cui si pronunciò il Concilio di Efeso del 431, e che dunque induce a non banalizzare argomenti di tanto livello.
Resta il fatto che il provvedimento di archiviazione, emesso dalla procura bolognese, relativamente alla denuncia per vilipendio nei confronti degli autori di una blasfema e squallida manifestazione contro la Vergine, può anche essere in linea con le disposizioni in materia del codice penale, così come residuate dalla falcidie operata a più riprese dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. La quale peraltro, è bene ricordarlo, ritenendo evidentemente legittima ed opportuna una tutela penale del sentimento religioso, ha più volte invitato il legislatore a rinnovare le disposizioni del codice penale del 1930 per armonizzarle con i principi e le norme della Costituzione.
Ma ora il problema è un altro. Qui non si tratta di tutelare penalmente Dio, Maria o i santi: che non hanno assolutamente bisogno delle nostre tutele. Qui si tratta di non ledere il sentimento religioso di chi crede; di non permettere che si possa offendere impunemente chicchessia.
Singolare, a questo riguardo, lo strabismo della nostra società che reagisce, e giustamente, alle offese recate al sentire delle minoranze e delle diversità le più varie, ma che non si sdegna con eguale vigore nel caso che le offese riguardino la tradizione cattolica ed un numero non trascurabile di cittadini.
Il problema ovviamente non è solo penale. Il problema è anche e prima di tutto culturale, educativo, di civismo, perché il ben vivere di una società è legato anche ad una politesse nei rapporti pubblici; la salute di una democrazia dipende pure da una correttezza formale nelle relazioni tra consociati. Come diceva René Remond, un minimo di inquadramento etico è indispensabile allo Stato di diritto e all e libertà pubbliche.
In effetti, i vincoli di appartenenza vanno alimentati, ma offese a persone e a gruppi li illanguidiscono e li tranciano. Atti offensivi di quanto alcuni hanno di più nobile e di più caro non compromettono, irreparabilmente, ogni possibilità di stima tra persone che pure sono chiamate a convivere? Non rendono impossibile qualsiasi dialogo e difficilmente perseguibile la tanto conclamata tolleranza? E la pubblica autorità non deve, forse, preoccuparsi di ogni cosa che possa minacciare l'armonia e la pace sociale?
Colpisce pertanto che coloro che hanno influenza sull'opinione pubblica, e tra questi innanzitutto i mass-media che di fatto svolgono potentemente una funzione culturale e persino pedagogica, non avvertano l'insostenibilità di certe contraddizioni e non impegnino le loro forze di moral suasion contro degradazioni del vivere comune che non fanno bene a nessuno.
Anche questa è, a ben vedere, una questione di laicità.
© Copyright Avvenire, 31 luglio 2007
Bologna, decisione di Enrico Di Nicola: «Per documentarmi ho studiato anche nei fine settimana». Trasmessi gli atti al prefetto
«La Madonna non è divinità. Non c'è bestemmia»
Il procuratore archivia l'accusa contro gli organizzatori di «Maria piange sperma»
Giulia Ziino
MILANO — Era cominciata e finita nel giro di pochi giorni. Una polemica estiva ma di quelle che toccano gli animi: la prevista messa in scena, a Bologna, di uno spettacolo dal titolo «La Madonna piange sperma». Ora, la parola «fine», arrivata dopo poco più di un mese dagli eventi, rischia di riaccendere la miccia: perché a chi gridò alla bestemmia, il procuratore capo di Bologna risponde che così non fu. Il motivo? Tecnicamente, bestemmia solo chi offende una divinità, «e la Madonna non lo è».
Partiamo dall'inizio: a metà giugno nel quartiere San Vitale, compare sui muri delle case il programma di una manifestazione estiva ospitata negli spazi di vicolo Bolognetti.
Tra gli spettacoli in cartellone c'è una performance, promossa dall'associazione gay «Carni scelte », dal titolo «La Madonna piange sperma». Scoppia il caso: la curia cittadina parla di «bestemmia abominevole», il sindaco Cofferati di «inaccettabile volgarità che offende credenti e non credenti», l'arcivescovo Carlo Caffarra celebra una messa «riparatrice» nel santuario di San Luca. La polemica cresce — l'evento, tra l'altro, è patrocinato dal ministero delle politiche giovanili, dalla Regione e dal Comune — e non si placa finché gli organizzatori non decidono di cancellare lo spettacolo (previsto in scena per il 29 giugno scorso).
Storia finita per tutti, ma non per Fabio Garagnani, deputato bolognese di Forza Italia, che denuncia per vilipendio gli organizzatori della performance incriminata. La pratica va avanti e finisce sotto gli occhi del procuratore capo di Bologna Enrico Di Nicola. Che ora, a un mese e mezzo di distanza, rende nota la sua decisione, maturata — dice — dopo lunghe riflessioni e in una lettera, inviata al gip di Bologna pochi giorni fa, fa richiesta di archiviazione per la denuncia di Garagnani. Motivo: in questo caso, il reato di vilipendio alla religione non sussiste. «Perché — dice oggi Di Nicola al Corriere di Bologna — per il codice la bestemmia è tale solo se indirizzata a santità o divinità e la Madonna, per i teologi, non rientra in nessuna di queste categorie».
Per dirimere il caso, Di Nicola si è appellato alla sentenza della Corte costituzionale del 18 ottobre 1995, che dichiara l'illegittimità costituzionale del primo comma dell'articolo 724 del codice penale («Bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti ») che considera colpevole di bestemmia chi offende «i simboli o le persone venerati nella religione dello Stato». Dopo quella sentenza, il reato di bestemmia è limitato a chi oltraggia la «divinità». E se la Madonna divinità non è (ma «simbolo» o «persona ») bestemmia non c'è stata.
Ineccepibile dal punto di vista giuridico. Da quello teologico, Di Nicola dichiara di essersi documentato per settimane, «studiando anche nei weekend». Ma non cita le sue fonti. Vedremo cosa ne penseranno curia e fedeli che, dopo aver vinto la battaglia di metà giugno, ora si vedono non offendere, ma addirittura negare la natura divina della Vergine. E dopo le scuse in tv (le fece, tra gli altri, un ospite a cui scappò una bestemmia durante una trasmissione di Maria De Filippi, nel '99) e le più varie proteste di innocenza («Invocavo Zizou, non Gesù» disse una volta Tullio Solenghi) vedremo se la vicenda di Bologna farà scuola.
© Copyright Corriere della sera, 29 luglio 2007
Ma certo! Fara' scuola, vero? Si potra' bestemmiare senza pudore? Ma che bravi! Una domanda: si potra' insultare solo la Santa Vergine o anche Maometto? Mi pare che egli sia un profeta e non una divinita'. Sara' permesso anche questo? E poi? E poi? E dopo?
Raffaella
Se il tribunale non rispetta la Madonna meglio una giustizia all’americana
di Redazione
Quando i giornali ci raccontano le vicende di giudici che ormai non solo fanno politica ma cancellano con un tratto di penna persino la divinità della Madonna, penso che la giustizia italiana dovrebbe funzionare come quella che siamo abituati a vedere in certi film americani. Dove il giudice alle prese con casi particolari che investono la coscienza del Paese, prima di leggere la sentenza, batte il martelletto sul suo scranno, chiede silenzio e poi spiega con poche, meditate parole le ragioni della decisione che sta per prendere. E allora immagino quello che il magistrato di Bologna avrebbe dovuto dire agli imputati in piedi nell’aula davanti a lui, accusati di aver oltraggiato la figura della Madonna con una mostra che appare più crudele di una bestemmia perché nella performance della «Madonna che piange sperma» traspare ben di più di un semplice insulto.
Qualcosa che suonasse più o meno così: «Speravo mi venisse risparmiato di essere chiamato un giorno a dover misurare con il metro della giustizia la cattiveria e la stupidità dell’uomo, anche in materia di religione. Vi ho ascoltato dire, signori imputati, che non avete fatto nulla di male dal momento che la Madonna non è una divinità e quindi secondo le nostre leggi chiunque ha la libertà di raffigurarla come più gli piace. Non avete compreso lo spirito della legge ma soprattutto non avete voluto comprendere chi sia e cosa rappresenti Maria, una donna chiamata a diventare la madre di Dio. E questa è una mancanza grave per chi si assume il compito di fare cultura, sia pure attraverso lo strumento dello scandalo e della provocazione. Perché la divinità di Maria sta proprio qui: essere parte dell’umanità e delle sue sofferenze e al tempo stesso parte del progetto di Dio che si fa uomo perché l’uomo possa imparare a conoscerlo e a trovare in Lui la ragione che gli sfugge della sua esistenza. Guardando alle violenze del mondo, papa Wojtyla disse una volta: “Fermatevi davanti al bambino, nei bambini c’è tutta la nostra speranza di un mondo migliore”. Allo stesso modo ritengo che tutti noi, cristiani e non cristiani, abbiamo il dovere di fermarci davanti alla figura della madre di Dio. In quella figura c’è molto di più di un semplice simbolo o di una semplice persona, c’è una sacralità che ognuno di noi non può disconoscere e che non merita di essere offesa a meno che non riteniate sia lecito offendere Dio stesso. Signori imputati, se guardiamo bene alle nostre leggi e a quello che ci dicono riguardo al vilipendio della religione, questo senso del limite è proprio ciò che comunque cercano di comunicarci. E quindi vi ritengo colpevoli del reato che vi viene ascritto e vi condanno all’unica pena che giudico adeguata: una visita al santuario di Fatima. Andateci con spirito libero, andateci pure con l’animo di chi non crede: quel luogo vi parlerà meglio di quanto possa aver fatto in quest’aula di tribunale un semplice magistrato, di religione e di rispetto, della divinità di Maria e della natura degli uomini».
Mi piace immaginare così ciò che avrebbe potuto dire il procuratore capo di Bologna, Enrico Di Nicola, se solo avesse voluto farlo. Ha preferito invece riscrivere la storia del cristianesimo e sentenziare che l’oltraggio alla Madonna non è una colpa. Ma sono sicura che la prima a perdonarlo - quanti di noi non sanno quello che fanno - sarà proprio la Madre che ha deciso di non riconoscere.
© Copyright Il Giornale, 31 luglio 2007
Quella bestemmia del giudice sulla mostra blasfema di Bologna
di GIANFRANCO MORRA
Piangeva, la Madonna, non lacrime, ma ****. Chi, invece, ha pianto lacrime è stato l'onorevole Fabio Garagnani, di Forza Italia, cattolico devoto e già "destro" della Dc. Egli ha denunciato gli organizzatori di una "performance" per vilipendio della religione. Lo spettacolo, programmato per giugno da un'associazione gay, con i soldi del ministero per le Politiche giovanili, della Regione e del Comune, era intitolato: "Carni scelte. La Madonna piange ****". Doveva essere allestito, subito dopo i festeggiamenti della Madonna di San Luca, protettrice della città, in quel Bronx di Bologna che è la zona universitaria. Lo spettacolo è stato cancellato (ma la brochure-programma è stata distribuita). Il cardinale Caffara ha tuonato e celebrato una Messa riparatrice, anche il sindaco Cofferati s'è incazzato. Ma ormai l'offesa alla Madonna c'era stata e la giustizia doveva seguire il suo corso. Siamo o non siamo in uno stato di diritto e nella sede della prima e (nel medioevo) più famosa Facoltà di giurisprudenza? La denuncia è stata esaminata nientemeno che dal procuratore-capo di Bologna, Enrico Di Nicola (tanto nomini!), il quale ha concluso che «il fatto non sussiste». La decisione di questo alto magistrato, che non pochi definiscono "di sinistra", è stata presa dopo un lungo studio «nei fine settimana» (forse ne aveva bisogno). La richiesta di archiviazione sarebbe giustificata dal fatto che il reato non c'è, per una ragione semplice: che la bestemmia riguarda la divinità, mentre lo sperma è stato attribuito alla Madonna, che divinità non è. Davvero una bella scoperta. Per sapere che la Madonna non è Dio, non c'era bisogno dell'acume del procuratore. La Chiesa non ha mai affermato la natura divina della Madonna. La quale è un essere umano, dotato, per volontà divina, di qualità superiori all'umano, definite dai due dogmi dalla "Concezione immacolata" (è priva del peccato originale) e della "Assunzione al cielo" (in anticipo su tutti gli altri mortali). Ma la Madonna, che non è Dio, ma Madre di Dio, è anche, ci dice il Concilio Vaticano II, «corredentrice», non per sua natura, ma perché ha nobilitato l'umanità (dice Dante) al punto che «il suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura». Garagnani non ha denunciato una «bestemmia», ma un «vilipendio alla religione». Non c'è bisogno di offendere Dio per fare vilipendio, basta oltraggiare le persone e i simboli più cari e sentiti dalla popolazione (chi potrà negare che il primo di tutti sia proprio la Madonna?). In fondo il criterio proposto dal procuratore, se applicato coerentemente, giustificherebbe altre performance, intitolate "Quello ****** di Mosé", "Buddha, un ******risentito", "******* Maometto". Nessuno dei tre, infatti, è una divinità, eppure il vilipendio della religione ci sarebbe tutto. E la coscienza religiosa dei fedeli di quelle religioni non lo consentirebbe. Noi riteniamo le note vignette su Maometto (ben meno offensive della performance) siano libera espressione della creatività artistica, ma gli islamici vi hanno visto un vero vilipendio alle loro convinzioni più radicate. Eppure, per loro, Maometto non è Dio, dato che solo Allah merita questo nome, e si offendono se li chiamiamo "maomettani" - meglio dire "islamici", cioè sottomessi e obbedienti. Anche per gli islamici la Madonna è "tutta santa"; come per Lutero, che ha scritto pagine sublimi su Maria. La mia prima impressione, che sono pronto a modificare quando leggerò nella sua integrità le argomentazioni del procuratore (per ora anticipate ad un sinistrissimo giornale bolognese), è che si tratti di un puro sofisma, non sappiamo quanto politicamente condizionato. Opportunamente il Catechismo della Chiesa Cattolica di Giovanni Paolo II sottolinea che la bestemmia riguarda in primo luogo la divinità, ma anche le parole «contro i santi e le cose sacre» (par. 2148). Per fortuna il sentimento religioso degli italiani è ancora così forte, da non accettare, oltre alle offese alla divinità, quelle, squallide e volgari, anche se pagate con danaro pubblico dagli amministratori dell'Ulivo, alle figure e ai simboli più sentiti e venerati dalla loro religione.
© Copyright Libero, 31 luglio 2007
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ATOMICA, LE PAURE DEL PAPA
Arrigo Levi
L’appello, lanciato domenica da Benedetto XVI al suo rientro a Castel Gandolfo, «per un più attuale ed urgente impegno di incoraggiare la non proliferazione delle armi nucleari» e «per promuovere un progressivo e concordato disarmo nucleare», rende più concreto e mirato il suo intervento di una settimana prima sul tema della pace, a cui aveva offerto l’occasione il ricordo dell’accorato, inascoltato appello del 1° agosto 1917 di papa Benedetto XV contro l’«inutile strage» della Grande guerra.
Questa volta è stato il 50° anniversario dell’Aiea (l’«Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica», di cui lo Stato vaticano è membro fin dalla sua fondazione) a stimolare la riflessione del Papa su un tema che l’impegno iraniano per munirsi di un potenziale nucleare, e le aspre polemiche fra Russia e America sull’installazione in Polonia e Cecoslovacchia di un sistema di missili antimissili, rendono ogni giorno attuale. Appare particolarmente importante aver affiancato alla condanna della proliferazione nucleare l’invito alla riduzione degli arsenali nucleari già esistenti: un impegno teorico assunto fin dalla firma, il 5 marzo 1970, dal Trattato di Non Proliferazione, e riaffermato in successivi trattati, dal Salt I del 3 ottobre ’72, fino al trattato Sort russo-americano, firmato a Mosca da George W. Bush e Vladimir Putin il 24 maggio 2002. Quest’ultimo trattato, tuttora in vigore, impegna le due parti a ridurre entro il 31 dicembre 2012 a 1700-2200 il numero delle testate nucleari strategiche (al momento della firma quelle americane ammontavano a 7295, quelle russe a 6094).
L’elenco dei principali trattati sul tema delle armi nucleari è lungo (sono 21, se non ho contato male); ha inizio col trattato del 10 ottobre 1963 per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, nello spazio e sotto i mari, e comprende anche il trattato Abm fra Usa e Urss del 3 ottobre 1972 per la messa al bando dei missili antimissili, considerato il fondamento della «pace del terrore» (Mad, o Distruzione Reciproca Assicurata), ma denunciato dagli Stati Uniti il 13 dicembre 2001. Rimane in vigore il trattato Inf del 1° giugno 1988, che mise al bando i missili «intermedi», ponendo fine alla sfida lanciata da Breznev con la costruzione dei missili SS 20. È di fatto in vigore anche il trattato Cfe del 1990 (rinnovato a Istanbul nel 1999) per la limitazione delle forze convenzionali in Europa; anche se l’Occidente chiede, per ratificarlo, il ritiro delle truppe russe da Moldavia a Georgia.
Questa complessa struttura di trattati miranti a ridurre il pericolo di un conflitto nucleare, capace di distruggere la nostra civiltà, e forse ogni forma di vita sulla superficie terrestre (so bene di suscitare qualche segno di incredulità quando ripeto questa purtroppo incontestabile verità), dà in realtà diversi segni di invecchiamento.Il divieto di costruire missili «intermedi» pone soprattutto la Russia in condizione di inferiorità nei confronti dei Paesi confinanti (non europei) che fanno oggi vanto del possesso di questi missili. Anche il trattato Abm per la messa al bando dei missili antimissili, denunciato dagli Americani, appare superato dalla fine della Guerra Fredda come strumento di dissuasione, non più indispensabile per garantire l’invulnerabilità del proprio territorio; mentre lascia scoperti e vulnerabili Russia e Occidente, in un nuovo e pericoloso mondo multipolare, di fronte alla minaccia del lancio di missili nucleari da parte di nuove potenze atomiche minori, e al pericolo di imprese di «terrorismo nucleare». Molti Stati (fra essi la Corea del Sud, l’India, il Giappone, e la stessa Russia) si stanno già dotando di difese antimissili. La creazione di basi antimissilistiche americane nell’Europa Orientale risponde alla stessa logica: ma ha ragione Zbigniew Brzezinski quando definisce questa iniziativa goffa e irritante, per la collocazione ingiustificata «nella porta accanto» alla Russia. Come previsto, ha dato pretesto a inaccettabili, minacciose reazioni nazionalistiche da parte russa.
Torniamo al monito e all’invito del Papa. Benedetto XVI ha mille volte ragione di invitare a un «più attuale ed urgente impegno» contro la proliferazione e per un disarmo nucleare «progressivo e concordato». Anche se questi non sono obiettivi raggiungibili in un prossimo futuro, anzi proprio per questo, dovrebbero essere in cima alla lista delle priorità politiche delle maggiori potenze, oggetto di intensi negoziati miranti a dar vita a nuovi trattati vincolanti e controllabili, più rispondenti alle vaste minacce di questo nuovo mondo (cito Carlo Jean) «complesso, imprevedibile e pericoloso»: più di quanto sia forse mai stato.
© Copyright La Stampa, 31 luglio 2007
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L’allarme del vescovo di Alba
“La messa in latino rischia di creare Chiese parallele”
ROBERTO FIORI
Il ritorno al vecchio messale preconciliare con la messa in latino, sancito dalla lettera apostolica di Benedetto XVI? «Rischia di provocare di fatto una specie di Chiesa parallela, difficilmente componibile con la comunità parrocchiale intera». E’ una delle valutazioni espresse da monsignor Sebastiano Dho, vescovo di Alba. Raggiunto alle soglie della partenza per un pellegrinaggio a Lourdes, monsignor Dho riflette sul recente provvedimento «motu proprio» del Papa, rimandando a un commento più generale scritto per le pagine del mensile paolino «Vita pastorale».
Spiega il vescovo di Alba: «La concessione di Benedetto XVI che liberalizza in qualche misura l’uso del messale preconciliare di Pio V non comporta solo il latino, ma tutta un’impostazione liturgica diversa, tipica, com’è logico, del periodo precedente la riforma del Vaticano II». Scopo principale del Pontefice, con questo provvedimento, sarebbe quello di recuperare gli aderenti allo scisma di Lefèbvre e soprattutto coloro che pur non essendo tali si sono sempre sentiti affezionati al vecchio rito, anche a causa degli abusi avvenuti in qualche regione nell’applicazione non fedele della riforma conciliare. «Ci auguriamo – dice monsignor Dho – che l’intenzione alta del Pontefice sia veramente colta come gesto di carità squisita e di ricerca di comunione e non come premio alla disubbidienza».
Infatti, «se il messale di Paolo VI rimane pienamente valido quale “forma ordinaria” per la celebrazione eucaristica, quello preconciliare in latino di cui viene concesso l’uso, oltre che ai sacerdoti che lo desiderano solo celebrando senza popolo, a determinati gruppi e a determinate condizioni, rappresenta la “forma straordinaria” di celebrazione eucaristica. E per le nostre comunità non vedo cambiamenti all’orizzonte. Tant’è vero che ad esempio nella diocesi di Alba, in questi quarant’anni trascorsi dalla riforma liturgica, nessun sacerdote, né laico, ha mai sentito il bisogno di richiedere la celebrazione secondo il vecchio rito. E l’eventuale richiesta odierna sembrerebbe pretestuosa o ideologica».
Tuttavia, il punto forse più delicato sembra essere quello riguardante non l’uso della liturgia tridentina, ma la facoltà data direttamente ai parroci di «concedere la licenza di usare il rituale più antico nell’amministrazione dei sacramenti del battesimo, del matrimonio, della penitenza e dell’unzione dei malati». Osserva monsignor Dho: «E’ difficile non temere a ragione che una prassi del genere rischi di provocare di fatto due forme parallele di vita comunitaria, ognuna fedele al proprio rito». E aggiunge: «Grazie al Concilio abbiamo ottenuto il dono grandissimo di una liturgia rinnovata, non vedo perché si debba tornare indietro. Impegniamoci sempre di più, tutti, sacerdoti e laici, perché le nostre liturgie siano veramente una celebrazione del mistero cristiano, valorizzando pienamente i segni, curando la qualità della partecipazione “consapevole, attiva, fruttuosa”».
© Copyright La Stampa, 31 luglio 2007
Certo che i vescovi sembrano atterriti dalla possibilita' che qualche fedele chieda la celebrazione del rito tridentino. Ma non sono quattro gatti? Certo che questa "infima minoranza" appare molto rumorosa agli occhi di qualcuno. Non c'e' ragione di temere, caro vescovo di Alba, e forse sarebbe meglio non offendere il Papa ed i fedeli parlano di passo indietro. Ma come mai le argomentazioni sono sempre le stesse? Cambiamo musica, maestri!
A "La Stampa": perche' non intervistiamo anche coloro che sono entusiasti del motu proprio.?
Lo stesso vescovo Dho viene intervistato da "L'Unita'". Si', avete capito bene...ecco i primi frutti di un certo "incoraggiamento" all'ostruzionismo. Il titolo:
Messa in latino, il fronte del no prende coraggio: Il rischio è una Chiesa parallela
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Il primo, l'unico
di Renzo Foa
Scrivo da profano e ammetto che il «Cristo della storia» mi incuriosisce. Lo riconosco, quando sulla sponda del Lago di Tiberiade entri in un piccolo museo dove è conservata la barca di un pescatore di duemila anni fa, ritrovata nella melma e analizzata in tutti i suoi dettagli, e il reperto archeologico è indicato come «la barca di Pietro», puoi cadere ingenuamente nella tentazione di fare un salto nel tempo e di raffigurarti un pescatore che tira le reti e parla con Gesù, magari con tutti gli altri apostoli. Avverti immediatamente un legame affettivo. Ma sai bene che questo legame non ci sarebbe senza il Cristo dei Vangeli. Il link regge perché c’è un messaggio che non appartiene al passato, ma è parte della nostra contemporaneità.
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A chi non è mai capitato di usare Cristo? Comincio da un ricordo personale, da una giornata di caldo particolarmente opprimente e umido nel bordo più meridionale della piana del Tonchino. L’autista doveva essersi perso e non riusciva a ricevere indicazioni sufficienti dalle rare persone a cui si fermava a chiedere la strada. Finché non vide, in lontananza, la facciata di una piccola chiesa in mezzo alle risaie e la puntò imboccando una pista non asfaltata. Nelle vicinanze non c’era un villaggio e neanche case. Una stranezza, ma la provincia di Ninh Binh era stata uno degli epicentri del cattolicesimo vietnamita e il simbolo era la famosa cattedrale di Phat Diem, costruita in puro stile architettonico orientale, al punto che sarebbe stata scambiata per una grande pagoda se non ci fosse stato il crocefisso sulle punte. Bisognava però parlare al passato, perché dopo gli accordi di Ginevra del 1954 c’era stato l’esodo verso il Sud, con centinaia di migliaia di persone che si erano messe in marcia dietro i parroci, in lunghe processioni dal senso più politico che religioso. Chissà, forse in giro c’era meno gente del solito affollato Tonchino a causa di questo spopolamento di diciott’anni prima. Ci fermammo davanti all’edificio e scendemmo dall’auto. Il portone era chiuso, ma la chiesa era ancora consacrata. Arrivarono dei bambini, ce n’erano sempre e sbucavano dal nulla. Ma nessun adulto. L’autista suonò ripetutamente il clackson. L’interprete si mise a osservare la facciata e cercò un argomento di conversazione. Mi disse: «Sembra un po’ barocca e un po’ gotica». A me sembrava semplicemente brutta. Magari in passato non lo era stata, ma la mancanza di manutenzione l’aveva privata di ogni colore e di ogni rilievo. Erano mura umide e basta. Lo dissi, ma il giudizio non fu preso bene. Un vietnamita mediamente istruito era orgoglioso di qualunque vecchio edificio in pietra e ci teneva a mostrare pubblico rispetto per i simboli religiosi.
Replicò, la discussione si trascinò per un po’, finché non apparve un vecchio sacerdote in tonaca, un po’ sorpreso dall’arrivo inatteso di una macchina e di uno straniero. Si presentò, spiegò che apparteneva alla «Chiesa patriottica», quella che sosteneva il regime e che per questo era rimasto lì, quando gli altri se ne erano andati via. Gli vennero subito chieste le indicazioni e le risposte furono considerate sufficienti per proseguire il viaggio. Ma poi fu lui a domandare. Voleva parlare un po’. Quando gli dissi che venivo da Roma, esplose sul suo volto un grande sorriso. Citò San Pietro, pronunciando il nome in uno stentato italiano. Tornò a utilizzare l’interprete per dire che non mi poteva invitare a visitare l’interno, perché era arrivato di corsa e aveva dimenticato le chiavi. Più probabilmente non c’era nulla da vedere. Poi bisbigliò di nuovo qualche sillaba in italiano - «Roma», «basiliche» - e lasciò cadere in un altrettanto stentato latino: «Domine, quo vadis?». Era un modo per dire che c’era stato. O almeno capii così. Facendo finta di rispondergli, spiegai all’interprete che si trattava di una chiesetta sulla via Appia, testimonianza di un mito suggestivo, quando a Pietro in fuga dalle persecuzioni di Nerone apparve Gesù che rispose «Venio Romam iterum crucifigi», lasciando sul marmo le impronte dei suoi piedi. Il vecchio sacerdote ascoltò il mio breve racconto senza alcuna reazione, avvertì che avevo compreso qualcosa che voleva dirmi, si fermò lì. Era dimenticato fra le risaie della provincia di Binh Dinh e lì sarebbe rimasto, come parroco della «Chiesa patriottica» che gli dava da vivere e che gli consentiva di essere il pastore dei fedeli rimasti. Per comunicare non aveva parlato di Dio, ma di Cristo. Per caso aveva incontrato uno straniero che conosceva bene la chiesetta sull’Appia e che era affascinato da quel lapidario e leggendario dialogo di quasi duemila anni prima, anche se sapeva che con ogni probabilità non si era mai svolto. Era bello in sé e questo bastava. Poi fra sorrisi e reciproci ringraziamenti ripartimmo nel caldo e nell’umidità.
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Continuo a scrivere da profano e ho sempre pensato che il rapporto con Dio possa essere relativamente facile, mentre quel che è davvero difficile è il rapporto con Cristo, che è presente dappertutto, che è evocato ovunque. Anche volendo, non riesci a sfuggirgli. La sua figura ha resistito per venti secoli a ogni avversità e continua a resistere, è rappresentata e riproposta in primo luogo dal crocefisso. Con Dio è diverso. O, almeno, così mi pare. Intanto puoi trattenerlo in una dimensione personale e interiore, puoi non credere neppure alla sua esistenza. Ti puoi anche limitare a leggere la «verità» nell’ambito di una regola di comportamento morale. Il famoso «come se Dio esistesse». In altre parole a me sembra soprattutto un problema individuale. Non molto diverso è il discorso da fare quando irrompe nella sfera pubblica. Anche in questo caso c’è linearità, perfino quando sorgono piccoli o grandi conflitti, lungo il confine tra il bene e il male. So che sono argomenti eternamente discussi e molto impegnativi, ma mi vengono in mente almeno due episodi. All’indomani della Shoah, venne posta una semplice domanda, certamente angosciante: «Dove era Dio ad Auschwitz?». Vennero date molte risposte, il dibattito teologico fu intenso, ma non si può non cogliere ancora adesso, dopo tanto tempo, la relativa semplicità del contrasto che può crearsi fra la fede e il destino dell’uomo. Fu quella domanda una «maledizione divina»? In parte probabilmente lo fu. Il secondo episodio - a cui si potè assistere in diretta, anche se la televisione era ancora tristemente in bianco e nero - fu quando Papa Montini celebrando in Laterano la messa di suffragio in memoria di Aldo Moro, appena ucciso dalle Br, volse lo sguardo al cielo e si rivolse direttamente a «Dio della vita e della morte», declinando il «lamento» perché non era stata «esaudita la nostra supplica per la incolumità di questo uomo buono, mite, saggio, innocente e amico». Fu un’omelia straordinariamente poetica, ma mi suonò come una sorta di «maledizione divina», come la manifestazione di un rapporto chiaro, intenso per quanto tormentato, ma capace di esprimere anche la linearità di un conflitto. Per non parlare poi del punto estremo, di quel che accade in questa stagione del mondo, cioè del kamikaze che uccide nel nome di Dio e che rende oggetto di repulsione sia il kamikaze quanto il Dio a cui si riferisce, perché entrambi rappresentano la distruzione e la morte. Con Cristo nulla di tutto questo sarebbe possibile. La sua caratteristica è l’unicità nella storia, nella fede, nella filosofia, nel pensiero, nell’arte. La sua presenza è pervasiva. So bene che Cristo e Dio rappresentano nella dottrina la stessa «verità», so ovviamente che per i cattolici il primo è il figlio del secondo, ma so anche che il Dio delle religioni monoteiste va declinato al plurale e che Cristo, al contrario, ha finito con l’essere non solo riconosciuto ma anche amato dai non credenti. È universale. Con lui non riesci ad avere alcun conflitto.
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È il soggetto di un’appassionata e costante ricerca. Lo è da sempre. Lo è il suo essere stato uomo, lo è nei Vangeli, lo è nella dottrina della fede. Lo è nella nascita, nella predicazione, nella passione, nella resurrezione. Credo che su nessun altro siano stati scritti e pubblicati tanti libri. Non c’è bisogno di statistiche, che probabilmente ci sono e che non conosco. È la storia del pensiero a dirlo. È la frequentazione delle librerie a confermarlo, se perfino un best-seller come il Codice da Vinci di Dan Brown ha avuto come trama la controversa fiction su Gesù dopo Gesù, con tutte le polemiche che ne sono seguite. Ma al di là dei diversi punti di vista, qualunque ricerca, qualunque testo sottolinea i vari fili che continuano a dipanarsi dopo duemila anni e che evidenziano, direttamente o indirettamente, la centralità di un messaggio e la sua indistruttibilità.
I fili, appunto. Sempre da profano, non mi è facile scrivere dell’ultimo libro di Papa Ratzinger, il Gesù di Nazaret. Mi fermo su un dettaglio, su un passaggio dedicato ai manoscritti di Qumran e al movimento degli esseni descritto come «un gruppo che si era staccato dal tempo erodiano», che «aveva dato vita nel deserto della Giudea a comunità monastiche, ma anche a una convivenza di famiglie fondata sulla religione» e che - sembra - «Giovanni il Battista e forse anche Gesù e la sua famiglia fossero vicini a questa comunità». In ogni caso, «i manoscritti di Qumran presentano molteplici punti di contatti con l’annuncio cristiano». Lo stesso dettaglio che mi aveva colpito, quando in Ladri nella notte, Arthur Koestler aveva raccontato delle interminabili discussioni nel kibbutz della Torre di Esdra, dove nel 1937 giovani ebrei in fuga dall’Europa passavano le ore libere a macerarsi e a dividersi non solo sul socialismo laburista e sul comunismo, non solo sul conflitto con gli arabi, ma anche sul modello comunitario ed egualitaristico degli esseni, di cui tra l’altro si sapeva ancora meno di quanto si sappia oggi. Era la stessa terra dove avevano vissuto e predicato duemila anni prima quegli uomini vestiti di bianco, spazzati anch’essi via da Tito e dalla diaspora. Sarebbero rimasti a bocca aperta quei giovani sionisti se solo avessero immaginato che, settant’anni dopo, un Papa romano avrebbe parlato dei possibili punti di contatto di quel modello con «l’annuncio cristiano».
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Non sono un grande consumatore di testi sul «Cristo storico». Ma ho scoperto, leggendo Processo e morte di Gesù di Chaim Cohn che, appena fondato lo Stato di Israele, mentre era in corso la prima guerra per la sua sopravvivenza, la Corte suprema appena istituita venne subissata di richieste di revisione del processo più famoso e controverso della storia, che per discrezione, visti i cattivi rapporti del cattolicesimo con l’ebraismo, venne avviata un’inchiesta riservata e non ufficiale, ma che non si rinunciò ad affrontare l’argomento. Così come ho scoperto - grazie allo studio di Èric Edelmann dal titolo Jésus parlait araméen - che è ancora usato in Siria un Vangelo scritto in aramaico, che quasi certamente è all’origine dei quattro testi «ufficiali» da lì tradotti in greco. Fa anche una certa impressione riprendere in mano il Gesù ebreo di Riccardo Calimani, dopo che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ricomposto sul piano teologico la «famiglia giudaico-cristana» che, sul piano politico, è stata rapidamente assunta a unica tradizione. Non sono neanche un grande esperto di tutti i tentativi di appropriazione compiuti nella storia della figura di Cristo, a cominciare dal momento in cui Maometto lo assunse tra i profeti del Corano, anche se gli storici hanno sempre avvertito la parzialità dell’operazione di sincretismo. Quello che mi ha sempre colpito, invece, è stata la facilità con cui è stato definito «il primo socialista». Camillo Prampolini, il fondatore del «riformismo padano», ha lasciato una sua celebre Predica di Natale in cui proprio Cristo veniva definito come l’iniziatore «della grande rivoluzione sociale». Ho solo da constatare che da duemila anni siamo in presenza di una figura inclusiva, la più importante della storia, che per i cattolici è il figlio di Dio e che parla a tutti gli altri.
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Continuo a scrivere da profano. Ma proprio per questo mi è difficile non notare che Cristo è davvero ovunque, è un’immagine che sovrasta quella di Dio. So che è impossibile distinguerne il messaggio, nella dottrina e nella fede. Ma anche venti secoli di storia dell’arte e della letteratura testimoniano che la raffigurazione del bello e della perfezione, tanto nella serenità quanto nella sofferenza, portano la sua effige. Lui è l’essere umano, il Creato e la verità sono lo sfondo. Mi vengono in mente due sole somme eccezioni, La divina commedia e il Pater noster. Quel Pater noster che si può leggere anche come la poesia più coinvolgente mai ascoltata e recitata. Ma il resto - e non è poco, dai mosaici della cattedrale di Aquileia fino al cantiere della Sagrada familia di Antoni Gaudi - testimonia la costante attrazione ora verso il bambino, ora verso il predicatore, ora verso il sofferente testimone della passione, ora verso l’uomo crocefisso. Non c’è nulla di simile, da nessuna parte, in nessuna altra epoca. So che per i cattolici tutto questo ha delle implicazioni più complesse, ma a me sembra che si tratti essenzialmente dell’immagine più completa della resistenza dell’uomo alle avversità, alle sofferenze e alle ingiustizie in nome della vita e della ricerca della verità.
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Una domanda forse banale. La Chiesa di Roma ha potuto esistere tanto a lungo per la capacità e la cultura dei chierici o per la forza del messaggio trasmesso dai Vangeli e del pensiero che vi si è alimentato? Non sarebbero stati solo dei passanti nella storia San Paolo e Costantino, Sant’Agostino e San Benedetto, San Francesco e San Tommaso? C’è una stratificazione di idee e di opere che coniugano passato e presente e che sono capaci di rappresentare qualcosa in più di una religione, qualcosa in più del misticismo, qualcosa in più del rapporto con Dio. So bene che tutto ciò si chiama «civiltà». So anche che questi duemila anni di storia sono stati complicati, spesso implacabili, segnati da fratture, lacerazioni, scontri, dal potere e dalla politica. Mi è capitato di assistere a una messa celebrata con il vecchio rito tridentino, quello della controriforma, di vedere l’officiante che volgeva le spalle ai fedeli per rivolgersi a Dio come se fosse solo lui a poterlo fare, come se fosse depositario di una funzione esclusiva. Mi è servito stare in quella fredda chiesa, dove si ricordavano le vittime della rivoluzione ungherese del 1956 e si pregava per le loro anime, perché, facendo un rapido raffronto, ho avuto la conferma di quanto invece Cristo abbia trasmesso un messaggio universale. Perdipiù essendo stato il primo a farlo, introducendo il concetto di persona, che da allora è sempre riemerso nonostante tutti i tentativi di cancellarlo, fino al Novecento dei totalitarismi con il paganesimo nazista e con l’ateismo e il collettivismo sovietico. Quando mai, prima di lui, un pescatore o un falegname o una prostituta erano stati considerati degni di nota, degni di entrare nella memoria, uguali agli altri?
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Confesso di aver capito male, per molti anni, il significato del crocefisso. Confesso anche che nella mia prima scuola, una Montessori, non ci avevo fatto caso. Alle maestre si dava del tu e si passava la giornata in un allegro clima di uguaglianza. Mi accorsi della sua esistenza quando, cambiando casa e quartiere, scoprii che al maestro bisognava rivolgersi con il lei. La cattedra rappresentava l’autorità e sulla parete dietro la cattedra, nell’ordine dell’aula, era appeso il crocefisso che mi sembrava appartenere a una sfera lontana e separata, a un’altra gerarchia. Lo si vedeva anche male, non si distingueva il volto, era poco più di un’abitudine. Era la stagione precedente al Concilio giovanneo. Devo invece a Natalia Ginzburg la più bella lezione che ho sentito, molti anni dopo, sul senso di quella croce. In occasione di una delle tante polemiche sui simboli religiosi nei locali pubblici, scrisse che il «il crocefisso è il simbolo del dolore umano», che «fa parte della storia del mondo» e che «rappresenta tutti coloro che «sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future» per una ragione molto semplice. Questa: nessuno prima di Cristo «aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini». Il prima o il dopo Cristo non è solo una data sul calendario. Non è solo la definizione temporale di una religione. È piuttosto l’inizio di una lezione. Si dimentica troppo spesso, ma quel «date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio» è l’atto fondativo della laicità. Si tende a dimenticarlo, ma la forza di una fede (e di una cultura) è misurabile anche in dettagli come questi. Perché nessun altro, prima di lui, aveva introdotto una simile distinzione? Una distinzione che ancora oggi viene indicata come la prova della modernità, spesso sbagliando bersaglio polemico. E il concetto di bontà nella condotta privata e pubblica a chi si deve? Per non parlare del capitolo più importante, quello della libertà e della responsabilità.
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So che Cristo può appartenere a tutti, al di là della fede, ma so anche che senza la fede non ci sarebbe.
© Copyright Liberal n. 42 - agosto-settembre 2007
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