30 luglio 2007
"Gesu' di Nazaret": il commento di Mons. Rino Fisichella
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Lui, tra noi
di Rino Fisichella
«Chiunque intraprende il discorso sulla persona e la vita di Gesù Cristo deve sapere fin dall’inizio, e molto chiaramente, ciò che vuole fare e i limiti imposti a ogni ricerca su questo tema» &1. L'espressione del grande filosofo della christliche Weltanschauung Romano Guardini, può indicare efficacemente la condizione da acquisire quando si deve iniziare a scrivere qualcosa su Gesù Cristo; a maggior ragione quando si deve presentare il libro di Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. È un dato di fatto: la sua persona appartiene più intensamente a quella parte indicibile del mistero che non è possibile esprimere con le sole categorie umane. Nel momento in cui ognuno riflette seriamente sulla propria condizione personale, senza lasciarsi andare a passive forme di casualismo, sente di appartenere al mistero. Se questo principio vale per ogni persona, a fortiori deve essere applicata a Gesù di Nazaret che crediamo e proclamiamo nella fede Figlio di Dio. Lo studio su Gesù Cristo costituisce il cuore di ogni teologia, perché segna il punto iniziale di ogni riflessione critica della fede su se stessa, ma rappresenta pure il suo punto finale come esperienza della contemplazione del mistero dinanzi alla figura divina. Centro di ogni cristologia è l’affermazione «Gesù è il Cristo», che esprime nello stesso tempo l’inizio consapevole della fede della comunità primitiva e il suo contenuto privilegiato. Ciò significa che ogni discorso che vuole riflettere su questa fede dovrà esplicitare i due poli del suo discorso: Gesù e Cristo. Pensare che tra i due termini esista una conflittualità da riportare a tendenze diverse, che lo sviluppo storico ha determinato in forza di posizioni differenti, equivale a non voler entrare con libertà all’interno dell’analisi dei testi neotestamentari. Una lettura non pregiudiziale dei Vangeli, infatti, consente di verificare che questi testi hanno una solida base storica. È possibile, quindi, un’analisi che permette non solo di giungere a risultati scientificamente certi, ma soprattutto di stabilire che la fede aveva il suo radicamento nella storicità di un fatto che non può essere scientificamente contestato né eluso. Altri approcci che volessero a tutti i costi giungere alla conclusione che tra il Gesù della storia e il Cristo della fede vi è una discontinuità dovuta all’atteggiamento dei discepoli - o successivamente alle posizioni dei diversi Padri nei concili - non solo è superata dalla moderna esegesi, ma si squalifica da sé, perché non riesce a dare spiegazioni almeno plausibili sull’origine di questa fede.
Il contesto
«Il pensiero contemporaneo tende a dire che ognuno dovrebbe vivere la propria religione, o forse anche l’ateismo in cui si trova. In questo modo arriverebbe alla salvezza. Un’opinione simile presuppone un’immagine molto strana di Dio e una strana idea dell’uomo e del mondo corretto dell’essere uomo. Cerchiamo di chiarirci questo punto con un paio di domande pratiche. Forse qualcuno diventa beato e verrà riconosciuto come giusto da Dio perché ha rispettato secondo coscienza i doveri della vendetta del sangue? Perché si è impegnato con forza per la e nella “guerra santa”? O perché ha offerto in sacrificio determinati animali? O perché ha rispettato abluzioni rituali o altre osservanze religiose? Perché ha dichiarato norma di coscienza le sue opinioni e i suoi desideri e in questo modo ha elevato se stesso a criterio? No, Dio esige il contrario: esige il risveglio interiore per il suo silenzioso parlarci, che è presente in noi e ci strappa alle mere abitudini conducendoci sulla via della verità; esige persone che “hanno fame e sete della giustizia” - questa è la via aperta a tutti; è la via che approda a Gesù Cristo». (p. 117) Ci sembra di trovare in questa espressione di Benedetto XVI una chiave ermeneutica per entrare nell’intenzionalità dell’autore. Gesù di Nazaret, di fatto, viene a collocarsi all’interno di un contesto che alla fine confluisce nella stessa conclusione. In questi mesi è dato costatare una serie di pubblicazioni - a onor del vero non particolarmente serie dal punto di vista scientifico - che tendono a screditare la fede dei cristiani. Dal Codice da Vinci a Dio non è grande sembra di assistere a un revival dell’Alethes logos di Celso: i cristiani sono gente ignorante, creduloni, non hanno né forza della ragione né grandezza di civiltà, fanno adepti tra i più umili perché gli intellettuali non potrebbero mai aderire a favole come le loro. Il contenuto della nostra fede viene ridotto a un romanzo, scritto senza neppure molta genialità, oppure Gesù diventa oggetto di un’inchiesta condotta da un detective con già mediocre dimestichezza con i thriller che da buon ateo pretende, con l’arroganza che lo caratterizza, di insegnare ai cristiani in chi e come credere. A ognuno la libertà di esprimere le proprie idee, pubblicando i propri romanzi e a ognuno la libertà di giudizio sul quoziente di intelligenza di quanto viene scritto. D’altronde, la scienza non si compra al mercato né è determinata dalle copie vendute di un libro; è, invece, frutto di fatica che impegna nella dimostrazione della proprie tesi con argomenti che si fanno forti della ragione critica che non si stanca mai di interrogare per raggiungere certezze che vanno oltre la sfera della pura razionalità.
Un secondo contesto su cui porre il libro di Benedetto XVI è certamente più scientifico e fa capo a una lunga serie di studi esegetici che hanno avuto lo scopo di raggiungere una conoscenza più adeguata della formazione dei Vangeli e della storicità del loro contenuto. Gli studiosi classificano questa problematica sotto il capitolo del «Gesù storico». «Io sono indubbiamente del parere che noi non possiamo sapere più nulla della vita e della personalità di Gesù, poiché le fonti cristiane non si sono interessate al riguardo se non in modo molto frammentario e con taglio leggendario e poiché non esistono altre fonti su Gesù»&2. Questa espressione del teologo luterano Rudolf Bultmann potrebbe segnare il punto dialettico che sintetizza le ricerche e gli studi di circa tre secoli di storia riguardo il problema del Gesù storico. Ciò che si affaccia violentemente allo sguardo di noi studiosi di questa problematica si può condensare nell’espressione «gioco all’opposizione». La teologia liberale, infatti, oppone al Cristo del dogma la ricerca sulla vita di Gesù; la scuola di Bultmann oppone ai liberali il Gesù del cherigma primitivo; i post-bultmaniani oppongono a Bultmann stesso il Gesù della storia mentre noi, oggi, continuiamo la ricerca, mostrando la continuità tra i due momenti con l’applicazione di una criteriologia che permette di giungere a risultati certi circa la persona, i segni e il linguaggio di Gesù di Nazaret. L’interesse costante che in questi secoli si è avuto per il tema e la molteplicità delle soluzioni, anche tra le più svariate e contrastanti che sono state raggiunte, è indice della complessità dell’oggetto di studio che, inevitabilmente, non si lascia rinchiudere in schemi prefissati. Ognuno pensa di aver trovato la soluzione al rebus della storia e una volta giunto alla fine si accorge, invece, che è arrivato solo a un ulteriore punto di partenza. La legge dell’opposizione non serve in genere nella ricerca scientifica e certamente non aiuta in quella teologica, che è la prima a essere interessata in questa materia. È necessario, infatti, sfatare la pretesa di molti autori dei nostri giorni, che hanno trovato il modo per occupare i primi posti nelle classifiche librarie, i quali scrivono con una certa facilità su questi argomenti senza avere mai preso tra le mani un testo di teologia. Si improvvisano esperti della materia senza neppure una qualifica o almeno qualche corso di sostegno di quelli che a buon prezzo si possono trovare nel nostro Paese. È bene diffidare da questi esperti dell’ultima ora che certamente con molta arguzia e poca scienza fanno passare, ad esempio, l’apocrifo Vangelo di Tommaso come una scoperta delle ultime settimane, tenuta naturalmente nascosta dalla gerarchia della Chiesa per la paura di perdere potere. Essere o non essere cristiani e ancora di più cattolici non è frutto di manipolazione, ma scelta di profonda libertà che possono compiere solo persone in ricerca di quella verità che non si ferma ai teoremi matematici.
Il Gesù «storico», ricostruito per quanto possibile fin nei minimi particolari quale è esistito in Palestina, non si oppone a quello ufficiale del dogma della Chiesa né quello predicato dalla comunità dopo Pasqua è differente da quello sperimentato prima della risurrezione. Certo l’uno e l'altro non coincidono perfettamente e i vari difensori delle differenti posizioni dovranno pur ammetterlo, ma non potranno escludere, in ogni caso, che il Gesù della storia non si oppone a quello della fede. Si dovrà giungere, pertanto, a una visione d’insieme del problema; la gradualità e complementarità delle soluzioni che si sono proposte nel corso dei decenni mostrerà più chiaramente che la legge da adottare dovrà essere quella della continuità nello sviluppo, piuttosto che dell’opposizione nell’alterazione.
L’originalità del Gesù di Nazaret
Il libro di Benedetto XVI ha ripetuti accenni a questa prospettiva descritta e le pagine del Gesù di Nazaret non sono altro che una risposta pacata, ma decisa a superare questo «gioco all’opposizione». Egli riesce a mostrare come la persona di Gesù non è un fatto da relegare nelle secche di una mera ricerca archeologica, ma un evento che riguarda l’uomo di oggi con le sue provocazioni e i suoi problemi.
Gesù - afferma Ratzinger - non è un’idea, ma un fatto, un evento che ha segnato la storia: «Gesù non è un mito, è un uomo fatto di carne e sangue, una presenza tutta reale nella storia. Possiamo visitare i luoghi e seguire le vie che egli ha percorso. Possiamo per il tramite di testimoni, udire le sue parole. Egli è morto ed è risorto. Il mistero della passione del pane l’ha, per così dire, aspettato, si è proteso verso di lui, e i miti hanno aspettato lui, in cui il desiderio è diventato realtà» (p. 316).
Primo fra tutti, egli ha determinato la storia di persone che hanno creduto in lui e nella sua parola. Questo fatto è determinante. I discepoli non avrebbero mai potuto agire come hanno fatto se non avessero creduto che quell’uomo con cui avevano condiviso tre anni della loro vita «lasciando tutto» e seguendolo non fosse stato realmente l’ultima parola che Dio rivolgeva agli uomini per ottenere la salvezza che nel corso dei secoli aveva promesso. Il valore della storia, che Ratzinger sottolinea perché la fede abbia il fondamento e lo spessore dovuto, è ciò che consente di affidarsi ai Vangeli come testimonianze credibili di quanto narrano: «Quale fede “testimonia” se si è lasciato, per così dire, la storia alle spalle? Come può rafforzare la fede se si propone come testimonianza storica - e lo fa con grande vigore - ma non n’offre poi informazioni storiche? Io penso che qui ci troviamo di fronte a un’idea errata di ciò che è storico, a un’idea errata di ciò che è fede e di ciò che è lo stesso Paraclito: una fede che lascia cadere in questo modo la dimensione storica diventa, in realtà “gnosticismo”. Si lascia alle spalle la carne, l’incarnazione, la vera storia appunto» (p. 268). L’incarnazione, che segna nello stesso tempo l’originalità della fede cristiana nel contesto delle religioni e il mistero più grande che viene offerto all’intelligenza dell’uomo, rimarrà sempre come l’evento che pone in primo piano il valore della storia che il cristianesimo assume in sé. La storicità per noi non è solo assunzione del tempo da parte di Dio che entra nel tessuto umano condividendone l’esperienza, ma anche il senso e il significato che la storia assume a partire da questo evento. Prescindere, quindi, dal valore della storicità di Gesù impedirebbe di esprimere al massimo la novità cristiana come portatrice di senso nell’esistenza personale. È per questo motivo che lo studio del Gesù storico e l’imprescindibile valore che esso possiede nel cristianesimo permane come un elemento essenziale non solo per la teologia, ma soprattutto per la fede di ogni credente. Lo ribadiva con efficacia don Giussani quando scriveva nel suo All’origine della pretesa cristiana: «L’imperativo cristiano è che il contenuto del suo messaggio si pone come un fatto. Ciò non sarà mai sottolineato a sufficienza. Un’insidiosa slealtà culturale ha reso possibile, per l’ambiguità e la fragilità anche dei cristiani, la diffusione di una vaga idea di cristianesimo come discorso, dottrina e perciò magari favola o morale. No: è anzitutto un fatto, un avvenimento, un uomo che è entrato nel novero degli uomini» (p. 41).
Il problema del Gesù storico
Per entrare ancora più direttamente nel merito di questa problematica sottesa al Gesù di Nazaret, a cui Benedetto XVI più volte fa riferimento, è importante conoscere la storia di questo processo. Ne facciamo un rapido cenno con schematici richiami rimandando il lettore volonteroso a studi più completi&3. L’espressione «Gesù storico» è un termine tecnico con il quale si intende indicare ciò che scientificamente si può conoscere intorno alla persona di Gesù vissuto circa duemila anni fa. Questa problematica ha subíto una lunga metamorfosi che si può distinguere storicamente in tre periodi, ognuno dei quali possiede metodologie proprie nell’impatto allo studio di Gesù. Tre tappe che segnano il progresso della ricerca le indichiamo così: dalla fine del secolo Diciottesimo fino a tutto il secolo Diciannovesimo; dall’inizio del secolo Ventesimo fino al 1953; dal 1953 ai nostri giorni. Il primo periodo che segna il mutato interesse per il problema del «Gesù storico» abbraccia un arco di circa 150 anni (1778-1919). A. Schweitzer nel suo Von Reimarus zu Wrede. Eine Geschichte der Leben-Jesu-Forschung del 1906, ha tracciato un panorama di questo periodo individuando in Reimarus l’inizio e in Wrede la sua fine; non si rendeva conto, invece, che la critica posteriore avrebbe scelto proprio lui come vertice conclusivo di quel movimento che lui stesso aveva descritto. Caposcuola di questo processo è Hermann Samuel Reimarus (1694-1768). Professore di lingue orientali nell’università di Amburgo e profondamente influenzato dal deismo inglese, rappresenta una delle forme più radicali del razionalismo nei confronti dei Vangeli. Partendo da a priori filosofici, più che da una attenta critica storica, Reimarus pone le premesse per la distinzione tra la predicazione di Gesù e quella della Chiesa primitiva. Nelle quattromila pagine del suo scritto, pubblicato dieci anni più tardi da Gotthald Ephraim Lessing, si delinea la personalità di Gesù come quella di un Messia politico, che aveva l’unico scopo di liberare gli ebrei dal dominio romano. Interpretando il grido di Gesù in croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato» (Mc 15,34), come il riconoscimento del fallimento della sua impresa, Reimarus costruisce da qui la vicenda dei discepoli i quali, sperimentando il fallimento dei propri progetti, inventano le prove per la proclamazione messianica di Gesù come Signore: rubano il cadavere, annunciano la sua risurrezione e lo presentano come il Messia apocalittico. Nel 1840 David Friedrich Strauss (1808-1874) pubblica la Vita di Gesù, un’altra tessera si aggiunge al mosaico. La comprensione dei Vangeli viene ora interpretata alla luce del mito. Ciò che viene presentato nei testi neotestamentari, sostiene Strauss, è un personaggio impregnato di elementi mitici; la comunità, soggetta all’influenza ellenistica e giudaica, trasferisce nel mito la storia di Gesù creando una separazione incolmabile tra l’uno e l’altro. Una distinzione, diventata in seguito fondamentale, viene data da Martin Kälher (1835-1912) nel 1892 con la sua opera: Il cosiddetto Gesù storico e il Cristo storico biblico. Egli distingue tra historisch, per indicare i fatti cronologici, quelli che si possono raggiungere con la scienza storica e con geschichtlich, invece, definisce i significati che sono stati dati ai fatti storici. Il suo pensiero è costruito in maniera tale da contrapporre il «cosiddetto» Gesù storico (historisch), al Cristo biblico (geschichtilich), quello che viene annunciato nella predicazione della comunità primitiva. Per Kälher, solo il Cristo biblico è comprensibile e degno di attenzione, perché solo possiede un significato permanente per la vita; ciò che importa, insomma, è il Cristo annunciato dai Vangeli.
Potrà apparire paradossale, eppure, è proprio il desiderio di un incontro con la storia che in questo processo si inserisce Rudolf Bultmann (1884-1976). Si deve a lui lo spostamento di interesse dalla persona di Gesù alla predicazione della comunità primitiva. Bultmann sostiene che mancano le fonti a cui far riferimento; Gesù non è altro che un profeta ebraico che nulla ha a che fare con il cristianesimo; questo, infatti, sorge solo con la predicazione della comunità che sta alla base della fede nella risurrezione. Fedele alle sue premesse di convinzione luterana, Bultmann ritiene che l’unica cosa importante sia verificare in quale modo i discepoli hanno compreso la loro esistenza alla luce della fede in Gesù. Egli non mette in dubbio la sua esistenza storica, solamente sostiene che questa non interessa la fede e, quindi, non deve essere oggetto di studio. Ciò che importa, invece, è la sua predicazione perché in essa si dà risposta agli interrogativi che permettono all’esistenza di raggiungere un senso. Con il suo metodo storico-critico, egli si ripropone di risalire oltre le fonti scritte dei Vangeli per raggiungere ciò che le ha ispirate: la tradizione orale. Il suo metodo consiste, quindi, nell’investigazione della storia del materiale evangelico nella sua trasmissione orale; in quel periodo di tempo, quindi, che intercorre dal primo formarsi della tradizione fino alla formulazione scritta, e nello studio delle leggi che operano in questo processo. Individuata la comunità primitiva come fonte del cherigma, cioè del primo annuncio, Bultmann la descrive come una realtà creatrice del mito di Gesù, come Cristo e Signore. In corrispondenza alla cultura ellenistica e forti della tradizione apocalittica, gli apostoli hanno mitizzato Gesù; cioè, hanno trasferito in lui i tratti peculiari di divinizzazione che erano comuni all’epoca. Nei Vangeli, egli sostiene, la vita del Maestro è descritta in modo mitico e con il suo linguaggio corrispondente. Gesù, infatti, viene descritto come preesistente, capace di fare miracoli, in grado di avere un rapporto particolare con la divinità che si esprime con visioni o trasfigurazioni e, infine, annunciato come risorto. Queste forme espressive, afferma Bultmann, potevano colpire l’uomo del Primo secolo; oggi, però, non sono più in grado di provocare la decisione di fede nel contemporaneo. Si deve, pertanto, operare una demitizzazione, cioè la trasposizione del messaggio dei Vangeli in un sistema filosofico differente che sia in grado di farsi comprendere dal contemporaneo. L’unica cosa certa che possediamo per Bultmann è che Gesù è nato ed è morto in croce mentre tutto il resto è frutto del mito che trova il suo apice nella risurrezione. La conclusione a cui questo processo ha portato la si trova in una considerazione che Benedetto XVI pone nella sua Introduzione: «Come risultato comune di tutti questi tentativi è rimasta l’impressione che, comunque, sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo in seguito la fede nella sua divinità abbia plasmato la sua immagine. Questa impressione, nel frattempo, è penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità. Una simile situazione è drammatica per la fede perché rende incerto il suo autentico punto di riferimento: l’intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende, minaccia di annaspare nel vuoto» (p. 8).
I primi a verificare le debolezze di questo sistema, comunque, furono gli stessi discepoli di Bultmann. Nell’impossibilità di ripercorrere l’intero processo storico di questi studi, merita una parola un autore cattolico che ha avuto il merito di usare lo stesso metodo di Bultmann per approdare a risultati completamente opposti ai suoi. Heinz Schürmann (1913-1999) ha studiato la vita interna del gruppo dei discepoli prima di Pasqua, e ne ha ricavato un risultato non affatto trascurabile: «Una fede in Gesù comporta in modo speciale l’accettazione della sua parola». Detto in altri termini, i discepoli hanno percepito e creduto che quanto veniva rivolto loro dal Maestro era la parola definitiva che Dio rivolgeva agli uomini; per questo le sue espressioni e i suoi gesti assumevano presso i discepoli un’importanza del tutto particolare. Questo fa pensare che il suo insegnamento non solo fosse preso in seria considerazione, ma nello stesso tempo anche tramandato senza doverlo alterare per rispetto e venerazione verso il loro Maestro. La prima conclusione a cui egli giunge è che «l’esistenza di una cerchia di discepoli comporta per se stessa gli aspetti i quali fanno supporre che le parole di Gesù venissero conservate e mantenute gelosamente» senza alcuna alterazione. Sullo stesso orizzonte di pensiero si pone Benedetto XVI quando scrive: «Solo se era successo qualcosa di straordinario, se la figura e le parole di Gesù avevano superato radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell’epoca, si spiega la sua crocifissione e si spiega la sua efficacia. Già circa vent’anni dopo la morte di Gesù troviamo pienamente dispiegata nel grande inno a Cristo della Lettera ai Filippesi (cfr 2,6-11) una cristologia, in cui si dice che Gesù era uguale a Dio ma spogliò se stesso, si fece uomo, si umiliò fino alla morte sulla croce e a lui spetta l’omaggio del creato […] L’azione di formazioni comunitarie anonime, di cui si cerca di trovare gli esponenti, in realtà non spiega nulla. Come mai dei raggruppamenti sconosciuti poterono essere così creativi, convincere e in tal modo imporsi? Non è più logico, anche dal punto di vista storico, che la grandezza si collochi all'’inizio e che la figura di Gesù abbia fatto nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio?» (pp. 18-19). Si deve logicamente ammettere, pertanto, che Gesù durante la sua vita ha trasmesso ai discepoli dei «detti» con la precisa intenzione di offrire loro dei «sussidi» per l’attività missionaria che già svolgevano prima della sua risurrezione, quando venivano mandati a predicare il Vangelo nei villaggi, anticipando la sua venuta. È altamente probabile, quindi, che Gesù abbia dato alla sua predicazione, o perlomeno al suo insegnamento verso i discepoli, una forma tale da rimanere impressa nella loro mente così come lui stesso la formulava, perché se ne servissero sia come strumento di evangelizzazione sia come riferimento per la loro vita in comune dopo la sua morte. Non si dimentichi, in questo contesto, che per gli antichi era molto facile l’apprendimento mnemonico, molto di più dei nostri giorni. La mancanza di una forte tradizione scritta portava naturalmente a imparare a memoria ed è facile mostrare come molti «detti» di Gesù abbiano una composizione tale da essere subito impressi nella mente. L’esempio della prima professione di fede pasquale presente nella prima lettera ai Corinzi, dove l’apostolo attesta di trasmettere ciò che ha ricevuto, mostra con chiarezza questa tecnica. In quattro verbi viene racchiuso il mistero della fede in Gesù: morto, sepolto, risorto e apparso (cfr 1 Cor 15,3-5).
L'’ultima fase della ricerca sul Gesù storico giunge fino ai nostri giorni con la formulazione di criteri che sono in grado di far raggiungere la storicità dei testi. Sono circa quindici i criteri che gli studiosi hanno formulato e permettono un’analisi e una critica testuale in grado di far emergere lo strato più antico e storico della predicazione e di Gesù e dei racconti dei miracoli. Con l’applicazione dei criteri di autenticità storica al materiale evangelico si cerca di superare la distanza che separa il cherigma pasquale dalla vita di Gesù. A scanso di equivoci, questi criteri non sono utilizzati solo per i Vangeli; appartengono alla normale critica interna che viene fatta a qualunque testo antico, permettendo di ricostruire non solo il tessuto ambientale e culturale su cui porre un personaggio ma anche l’originalità che il suo messaggio porta nella continuità o discontinuità con il pensare comune dell’epoca. Questi criteri, insomma, permettono di accedere con ancor maggior fiducia ai Vangeli in quanto testi che pur nella peculiarità del loro genere letterario hanno una solida base di veridicità storica all’interno della quale collocare la persona di Gesù, il suo agire e la sua predicazione. Senza questo solido fondamento, Gesù Cristo sarebbe ridotto a mera speculazione filosofica così come senza la fede della Chiesa si cadrebbe in un troppo facile storicismo. La frammentarietà dei risultati raggiunti nel corso di circa tre secoli di storia ha portato certamente a una solida base su cui si fonda la riflessione teologica, facendo emergere sia il valore storico sia l’apporto dogmatico. Questa conquista scientifica, pertanto, non può certamente essere messa in discussione da qualche romanzo anticlericale che si vuole spacciare per una rigorosa ricostruzione dei fatti in questione.
Un libro attuale
Dopo questa breve ma necessaria ricostruzione è possibile ritornare all’originale e bel volume di Benedetto XVI che ha il pregio di tenere insieme e in equilibrio tutti gli elementi della ricerca teologica di questi decenni senza eccedere a posizioni unilaterali nell’interpretazione dei testi. Non si dovrà dimenticare, da questa prospettiva, un accenno a cui lo stesso Benedetto XVI aveva fatto riferimento in uno dei suoi primi discorsi all’indomani della sua elezione a successore di Pietro proprio nel momento solenne in cui prendeva possesso della sua cattedrale di San Giovanni in Laterano. Per il valore simbolico che quella funzione possiede - la presa di possesso della cattedra da cui è chiamato a insegnare alla città di Roma e al mondo - quelle parole rivestono un valore paradigmatico che trovano in Gesù di Nazaret la loro applicazione: «Nella Chiesa, la Sacra Scrittura, la cui comprensione cresce sotto l’ispirazione dello Spirito Santo e il ministero dell’interpretazione autentica conferito agli apostoli, appartengono una all’altro in modo indissolubile. Dove la Sacra Scrittura viene staccata dalla voce vivente della Chiesa, cade in preda alle dispute degli esperti. Certamente, tutto ciò che essi hanno da dirci è importante e prezioso; il lavoro dei sapienti ci è di notevole aiuto per poter comprendere quel processo vivente con cui è cresciuta la Scrittura e capire così la sua ricchezza storica. Ma la scienza da sola non può fornirci un’interpretazione definitiva e vincolante; non è in grado di darci nell’interpretazione, quella certezza con cui possiamo vivere e per cui possiamo anche morire. Per questo occorre un mandato più grande, che non può scaturire dalle sole capacità umane. Per questo occorre la voce della Chiesa affidata a Pietro e al collegio degli apostoli fino alla fine dei tempi». Queste parole sembrano fare da eco a quelle scritte nel suo ultimo libro: «I singoli libri della Sacra Scrittura, come essa stessa nel suo insieme, non sono semplicemente letteratura. La Scrittura è cresciuta nel e dal soggetto vivo del popolo di Dio in cammino e vive in esso. Si potrebbe dire che i libri della Scrittura rimandano a tre soggetti che interagiscono tra loro. Dapprima c’è l’autore singolo o il gruppo di autori, a cui dobbiamo un libro della Scrittura. Ma questi scrittori non sono scrittori autonomi nel senso moderno del termine, appartengono, invece, al soggetto comune “popolo di Dio”: partendo da esso parlano e a esso si rivolgono al punto che il popolo è il vero, più profondo “autore” delle Scritture. E ancora: questo popolo non è autosufficiente, ma sa di essere condotto e interpellato da Dio stesso che, nel profondo, parla attraverso gli uomini e la loro umanità. Per la Scrittura il rapporto con il soggetto “popolo di Dio” è vitale. Da una parte, questo libro - la Scrittura - è il criterio che viene da Dio e la forza che indica la strada al popolo, ma, dall’altra parte, la Scrittura vive solo in questo popolo, che nella Scrittura trascende se stesso e così - nella profondità definitiva in virtù della Parola fatta carne - diventa appunto popolo di Dio. Il popolo di Dio - la Chiesa - è il soggetto vivo della Scrittura; in esso le parole della Bibbia sono sempre presenza» (pp.16-17). In una parola: è necessario avere fiducia nei Vangeli come libri che pur presentando la fede in Gesù Figlio di Dio hanno riportato gli eventi storici di cui si fanno interpreti.
Con Gesù di Nazaret, Benedetto XVI invita a ritornare all’origine della pretesa cristiana. Tutto parte da qui, dal verificare che questa persona non è un fatto del passato ma esprime il compimento della promessa antica e possiede un significato anche per l’uomo di oggi. Colpisce non poco come il Papa sia riuscito a comporre una sintesi del tutto originale proprio su questo aspetto. Pagina dopo pagina ci si incontra con un Gesù pienamente inserito nella storia del suo popolo. Le feste ebraiche, all’interno delle quali vengono collocati diversi dei suoi insegnamenti, evidenziano sia la sua immersione nella storia del popolo ebraico sia la consapevolezza di un compimento che egli portava: «Le grandi feste del popolo di Dio forniscono l’articolazione interna del cammino di Gesù e schiudono al tempo stesso la base portante da cui si leva il messaggio di Gesù» (p. 277). Un’espressione come questa potrebbe passare facilmente sotto silenzio; essa indica, al contrario, lo scenario significativo su cui porre Gesù di Nazaret. Un esempio significativo è dato dalla spiegazione della trasfigurazione alla luce della festa delle capanne (sukkot) così come la confessione di Pietro sulla messianicità di Gesù sarebbe avvenuta nel corso della festa dello Yom Kippur. Mentre nella festa liturgica dell’espiazione per l’unica volta nel corso dell’anno viene pronunciato dal sommo sacerdote il nome di Jhwh, nello stesso tempo Pietro confessa la sua fede nel Signore. La stessa cosa per la conclusione della festa delle capanne quando Gesù si trasfigura sul monte dinanzi ai tre discepoli a conferma che i tempi del messia sono realmente presenti. «I grandi avvenimenti della vita di Gesù hanno un rapporto intrinseco con il calendario delle festività ebraiche; sono, per così dire, avvenimenti liturgici in cui la liturgia, con la sua commemorazione e la sua attesa, diventa realtà, diventa vita, che riconduce a sua volta alla liturgia e che da lì vorrebbe ridiventare vita» (p. 354). Porre sullo sfondo della persona di Gesù e del suo insegnamento la liturgia porta inevitabilmente Benedetto XVI a rivalutare il grande ruolo che essa possiede nella vita del cristiano. Le diverse interpretazioni dei segni e delle immagini che Gesù utilizza quali il vino, l’acqua, la vite, il pastore… sono inevitabilmente ricondotti al contesto eucaristico come lo spazio in cui trovano non solo il significato più profondo, ma soprattutto il riferimento alla quotidianità di quanti si pongono alla sua sequela. Gesù di Nazaret si sviluppa alla luce dell’insegnamento conciliare che nella costituzione Dei Verbum sollecitava a ritrovare il «senso pieno» della sacra Scrittura. La lettura attenta del volume di Benedetto XVI mostra con chiarezza quanto egli colga il valore di questa esigenza presentando la persona di Gesù non solo in rapporto con i Padri della Chiesa, ma soprattutto evidenziando il valore esistenziale che Cristo possiede per l’uomo contemporaneo.
L’attualità è certamente uno dei tratti che emergono. Ratzinger è riuscito a far sentire Gesù non solo un contemporaneo ma soprattutto la persona che ancora oggi - forse, si potrebbe dire più coerentemente soprattutto oggi - esprime l’ultima parola di senso pieno e definitivo sulla condizione personale: «Solo in Dio e solo a partire di Dio si conosce veramente l’uomo» (p. 327); parole che fanno da eco a quelle conciliari: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (GS 22). Ogni argomento che Benedetto XVI tratta, questo viene subito riportato all’attualità. Dalle Beatitudini alla confessione messianica, dal tema della libertà all’immagine dell’acqua e del sangue, dall’invio dei discepoli al messaggio delle parabole… ogni volta si ripropone l’interrogativo: «Chi non vedrebbe che queste parole descrivono proprio anche il nostro mondo…?» (p. 210). Un Gesù per oggi con una parola non lontana ed eterea, ma che tocca la concretezza della vita, la cultura in cui siamo inseriti e gli interrogativi che attendono risposta. All’orizzonte si trova sempre l’unico Gesù nel mistero della sua vita, della sua morte e della risurrezione; qui la salvezza viene riproposta non più come promessa ma come realtà. Certo, il crocifisso non viene svuotato del dramma che rappresenta: «La sequela del Crocifisso riguarda gli aspetti fondamentali dell’esistenza umana in generale» (p. 335), ma viene incontro come espressione culminante dell’amore che l’uomo ricerca invano altrove. Nessuna «casualità» in questa morte, ma solo ed esclusivamente una «necessità intrinseca» per rivelare in che modo Dio ama: dando tutto senza nulla chiedere in cambio.
Questo amore si trasforma in misericordia. Essa trova nelle pagine dedicate alla parabola dei «due fratelli» l’espressione più convincente perché raccoglie in sé diversi aspetti dell’esistenza personale: la ricerca di libertà e la sua vanificazione, la verità sulla propria vita e l’allontanamento da se stessi, la gioia per il ritorno a casa e il rancore per l’ingiustizia subita… Gesù rivela in cosa consiste la grandezza dell’essere figli di Dio: «La parabola da un lato si colloca molto realisticamente nel punto della storia in cui Gesù l’ha raccontata, ma allo stesso tempo trascende il momento storico, poiché l’invito supplichevole di Dio continua» (p. 247-248). La chiamata a diventare ed essere suoi figli ha una valenza universale. Solo pura trascendenza, l’uomo avrebbe con lui un rapporto di sudditanza, sempre schiacciato dal peso della divinità; se l’uomo non potesse comunicare con Dio il rischio di essere dinanzi a. Da questa prospettiva, Benedetto XVI ripropone in maniera limpida uno dei temi privilegiati che ritornano come un leitmotiv nelle sue opere: il cristianesimo è per sua natura una verità universale. Dio si fa uomo e assume su di sé il tempo, la storia e tutto ciò che si racchiude in questo spazio per riportare l’uomo nello spazio del divino. Se Dio fosse un’ipotesi inutile o ad una inconscia proiezione del suo desiderio sarebbe sempre all’erta. Solo nella misura in cui Dio si fa conoscere e agisce da Dio come uomo, allora anche per ogni uomo si apre lo spazio della vita di comunione con Dio. Gesù di Nazaret offre tutto questo nella sua vita e il mistero della sua esistenza divina non si annulla in quella umana, ma mediante quella rivela la vera vocazione a cui ogni uomo è chiamato: partecipare della natura divina e vivere in pienezza la propria trascendenza oltre il limite della morte. La missione di Gesù - e per conseguenza di quanti credono in lui - è quella di rendere evidente per tutti in ogni tempo senza distinzione alcuna di cultura, razza e lingua che il Padre che ha rivelato è veramente Dio: «Egli ha portato il Dio di Israele ai popoli così che tutti i popoli ora lo pregano e nelle Scritture di Israele riconoscono la sua parola, la parola del Dio vivente. Ha donato l’universalità, che è la grande e qualificante promessa per Israele e per il mondo. L’universalità, la fede nell’unico Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, accolta nella nuova famiglia di Gesù che si espande in tutti i popoli superando i legami carnali della discendenza: ecco il frutto dell’opera di Gesù. È questo che lo qualifica come il “Messia” e dà alla promessa messianica una spiegazione, che ha il suo fondamento in Mosè e nei Profeti, ma che dona a essi anche un’apertura completamente nuova. Il veicolo di questa universalizzazione è la nuova famiglia, il cui unico presupposto è la comunione con Gesù, la comunione nella volontà di Dio» (pp. 144-145).
Una provocazione per la libertà
Non suonerà impertinente definire questo libro una provocazione; di fatto, lo è. Il Vangelo permane come una forte provocazione per quanti vi si accostano. La persona di Gesù non può lasciare in alcuna neutralità; davanti a lui si decide il senso della vita: «La venuta di quell’uomo è una notizia trasmessa fino a oggi, fino a oggi quell’evento è stato proclamato, annunciato, come l’evento di una Presenza. Che un uomo abbia detto: “Io sono Dio” e che questo venga riferito come un fatto presente è qualcosa che richiede prepotentemente una presa di posizione personale. Si può sorriderne, si può decidere di non curarsene: ciò significherà comunque che si è voluto risolvere il problema negativamente, che non si è voluto prendere atto di trovarsi di fronte a una proposta dei cui termini nessuna umana immaginazione potrà fantasticare qualcosa di più grande» (L. Giussani). Egli stesso ha concepito la sua persona e la sua parola come un’offerta a uscire da se stessi per entrare in una vita di relazione alla luce dell’amore. Benedetto XVI con questo libro ha reso un grande servizio alla Chiesa. Ha permesso ai cristiani di ritrovare le ragioni della loro fede, permettendo loro una conoscenza più coerente del mistero in cui credono; nello stesso tempo, ha delineato per quanti sono in ricerca i tratti fondamentali della persona di Gesù e del suo messaggio con un linguaggio moderno e di spessore culturale. Una provocazione che non si nasconde dietro sofismi, ma che affronta direttamente la questione oggi sul tappeto: confrontarsi con Gesù di Nazaret che la Chiesa proclama Cristo e Signore della storia. Se una conclusione può essere raggiunta sulla ricchezza e originalità del Gesù di Nazaret, questa la ritrovo in una semplice espressione che Benedetto XVI scrive; sembra innocua mentre, invece, ha una forza sconvolgente: «Che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio» (p. 67). Una risposta di una semplicità arrendevole che, tuttavia, provoca a riflettere su quest’uomo di duemila anni fa la cui parola permane fino ai nostri giorni come fonte inesauribile di amore in cui immergersi senza mai essere sopraffatti. Non ci ha comunicato nozioni astratte, ci ha condotto direttamente nell’intimo del mistero di Dio facendoci conoscere non più solo il nome, ma mostrandoci il suo volto.
Note
1) R. Guardini, Der Herr, Basel 1944, p. VI, (trad. it. Il Signore, Milano 1976); 2) R. Bultmann, Gesù, Brescia 1972, p. 103. L’opera tradotta in italiano nel 1972 apparve per la prima volta nel 1925; 3) Si può far riferimento al mio R. Fisichella, La rivelazione evento e credibilità, Bologna 20028, 359-507.
© Copyright Liberal n. 42 - agosto-settembre 2007
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