31 marzo 2007

Rassegna stampa del 31 marzo 2007


Cari amici, anche oggi ci tocca la nostra buona dose di reazioni politiche, ma tranquilli: non mi dilunghero' troppo perche' la stampa e' piu' o meno all'unisono sulle dichiarazioni di Bertinotti (Presidente della Camera, quindi carica super partes) e di Mons. Bagnasco. Motivo del contendere? La Nota della CEI.
Piu' tardi vorrei segnalare alcune interviste dell'allora cardinale Ratzinger su alcuni temi fondamentali.

Raffaella



DICO E VESCOVI / Scola: non sostituiamo la politica ma lo Stato non sia neutro
Bertinotti: la Chiesa sfida la sovranità delle Camere
Bagnasco: la nota Cei non parla solo alla fede ma alla ragione

MILANO — «Lo dico con grande misura, spero. Vedo una responsabilità anche della gerarchia ecclesiastica, ovvero che ci sia una propensione della gerarchia ecclesiastica di alienare la sovranità del legislatore». Fausto Bertinotti lo afferma in un colloquio con il direttore del Tg1 Gianni Riotta, andato in onda ieri sera a Tv7. E la sua è una replica, a distanza, proprio al cardinale Angelo Scola, intervistato prima di lui. Così, dopo le esternazioni di qualche giorno fa, il presidente della Camera con questo affondo è entrato ancora più a gamba tesa nell'accesissimo dibattito sui Dico. Difendendo la laicità dello Stato e invitando le gerarchie ecclesiastiche «a non alienare la sovranità del legislatore».
Il suo, ieri sera, è stato un ragionamento a distanza proprio con Scola: «Ha detto delle cose assai importanti su due terreni che secondo me sono significativi del caso italiano. Questa idea secondo cui la vivacità — ma la vivacità è un termine improprio — la vitalità, la creatività della società civile italiana, è una risorsa straordinaria che non usiamo. Questo che potrebbe essere il terreno di un confronto proficuo è sostanzialmente sotterrato da quello che chiamiamo l'agenda politica».
«Qui — ha proseguito sempre Bertinotti — mi tocca l'obbligo di dire due cose. Una è che, lo affermo con grande misura, vedo una responsabilità anche della gerarchia ecclesiastica. Quando almeno lascia intendere, la metto così da come io fruisco questa informazione, che ci sia una propensione della gerarchia ecclesiastica di alienare la sovranità del legislatore».
Il cardinale Scola, intervistato sempre dal direttore del Tg1, invece, ha prima di tutto approvato «l'arrivo del meticciato delle culture, perché la pace si ottiene imparando ad ascoltare. Ma soprattutto una nuova laicità per me consiste nello sviluppo della società civile, perché la Chiesa cattolica collabora e sostiene la politica ma non la sostituisce». Però, per Scola, il nodo è un altro. E cioè, «che riaffermato il valore laico dello Stato, riaffermato che la Chiesa non sostituisce la politica, lo Stato non deve essere neutro. Perché la pace arriva attraverso la verità». A domanda, poi, su John Fitzgerald Kennedy e il suo concetto di «cattolico che rispettava la laicità dello stato», Scola ha ribadito: «Va bene. Purché il politico cattolico non accetti che da questo concetto derivi quello di neutralità».
E ieri sul tema è intervenuto anche il presidente della Cei, Angelo Bagnasco: «La nota che il consiglio permanente della Cei ha presentato a proposito della famiglia fondata sul matrimonio cerca di parlare all'intelligenza dei credenti, ma soprattutto all'intelligenza comune attraverso delle motivazioni di tipo puramente antropologico». Un modo «per non cadere nella facilissima accusa che i cattolici vogliano imporre la propria fede al popolo in un contesto di chiaro pluralismo e di frammentazione culturale, religiosa, filosofica ed etica».
Quindi, ha concluso sempre Bagnasco, «quando viene a cadere un criterio oggettivo per giudicare il bene e il male, ma il criterio dominante è l'opinione generale, o delle maggioranze vestite di democrazia, allora è difficile dire dei no».
R. P.

Corriere della sera, 31 marzo 2007



A proposito della Nota

Quale autonomia nelle questioni antropologiche?

Francesco D'Agostino

Non è un mero stilema dialettico, quello che conclude la "Nota" del Consiglio permanente della Cei sulla famiglia, nel punto in cui si offrono le riflessioni elaborate nel testo alla coscienza di tutti. È evidente che i destinatari privilegiati della "Nota" sono i cattolici. Ma è anche evidente che il tema trattato non è confessionale. Ciò che è in gioco, quando si parla di famiglia, è il bene umano, come bene comune.
Forse qualcuno (a torto) sorriderà, leggendo nel testo della "Nota": «Ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna». Si tratta di una verità semplice, semplicissima, ma proprio per questo fondamentale e universale. Chi è introdotto «nel mondo complesso della società» grazie ai genitori e alla sicurezza del loro affetto possiede «un patrimonio incalcolabile di sicurezza e di fiducia nella vita». E questo patrimonio «garantito dalla famiglia fondata sul matrimonio» va custodito per il bene di tutti, letteralmente di tutti.
Non è necessario un grande sforzo concettuale, ma solo la capacità di una lettura senza pregiudizi, per percepire che queste considerazioni della "Nota" sono profondamente laiche, e si rivolgono quindi a tutti gli uomini di buona volontà, come peraltro è reso evidente dal fatto che mai nella "Nota" si fa richiamo alla dimensione sacramentale (essa sì confessionale) del matrimonio.
La richiesta di coerenti comportamenti politici ai politici cattolici che emerge dalla "Nota" va quindi intesa in questa chiave: non si tratta di una richiesta di fedeltà cieca ed ottusa al magistero della Chiesa; è una richiesta di fedeltà consapevole e intelligente al bene dell'uomo, della cui promozione, in questo come in ogni altro caso, i vescovi si fanno carico, nella consapevolezza che è l'unico modo per rispettare il mandato evangelico. È per questo che tale richiesta presuppone il discorso (filosofico e teologico) sulla libertà di coscienza e non lo manda affatto in soffitta, come da qualche parte si è detto. Libertà di coscienza significa in primo luogo dovere di riflettere sulla verità delle cose, dovere di confrontarsi con tutte le istanze che possono dire parole autorevoli in materia (e quindi con l'insegnamento del magistero) e soprattutto dovere di non soggiacere al proprio narcisismo individualistico (al "nostro caro Io", come diceva Kant), ma piuttosto di usare nei confronti di se stessi la critica più rigorosa e coerente. Il principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica è sacrosanto, ma per l'appunto solo per questioni politiche, che riguardino cioè l'occasionalità di scelte essenzialmente contingenti, anche se di grande rilievo. Sono ad es. libero, in quanto cattolico, di optare politicamente per la monarchia o la repubblica, per la destra o la sinistra, per un'economia di mercato o per un'economia dirigista, per il monopolio o per la liberalizzazione dei servizi pubblici: potremmo andare avanti con infiniti esempi. Ma non posso ricondurre a una mia pretesa autonomia la decisione su questioni antropologiche fondamentali, sulle questioni non negoziabili, che mettono in gioco l'essenza stessa della persona: la discriminazione razziale, la disponibilità della vita, la libertà religiosa (per tutti), la libertà dell'educazione dei giovani, l'attenzione per i più deboli e per gli anziani, l'identità della famiglia… queste non sono questioni politiche, ma antropologiche; possono ricevere dalle leggi dello Stato determinazioni giuridiche variabili, ma solo nel contesto di chiarissimi e inequivocabili principi fondativi.
Come non pensare che la coerenza che la "Nota" richiede ai politici (e non solo a quelli cattolici) non sia un bene politico fondamentale, anzi, forse, l'unico vero bene politico su cui tutti dovremmo convenire?

Avvenire, 31 marzo 2007


IL FILOSOFO CATTOLICO REALE

«Le gerarchie? Mi aspetto inviti e non ordini»

Armando Torno

MILANO — Il fondo di Francesco D'Agostino, apparso sull'Avvenire di ieri, è stato un serio invito a riflettere sulla «Nota» del Consiglio permanente della Cei sulla famiglia. Dopo la lettura dei due testi, sorge spontanea una domanda: quali sono i limiti dell'autonomia decisionale dei cattolici nel dibattito delle attuali questioni antropologiche? E ancora: quanti e quali sono i temi non negoziabili?
Ne abbiamo parlato con Giovanni Reale, il filosofo cattolico che è stato chiamato direttamente da Giovanni Paolo II: il pontefice, dopo un loro incontro, decise di affidargli la pubblicazione delle sue opere. Reale dirige la collana «Il pensiero occidentale» (edita da Bompiani), ormai la più vasta del panorama editoriale filosofico italiano, e dopo la lettura dei due testi ricordati si è rivolto a chi scrive con una domanda: «Per dirsi cattolici oggi, in cosa bisogna credere?». E si è dato una risposta: «Essere un cattolico significa credere in Cristo come Figlio di Dio che si è incarnato ed è diventato uomo per prendere su di sé tutti i mali, compreso il nemico ultimo: la morte. Significa soprattutto credere nel mistero pasquale di morte e resurrezione». Certo, il cattolico realizza la sua fede anche attraverso una tradizione, che comunque Reale vede implicita nei grandi misteri ricordati.
Detto questo, egli fa un passo avanti. Precisa: «A volte mi sembra che ci sia una notevole confusione, soprattutto quando si parla di autentica fede cattolica in dimensione socio-politica, se non addirittura la si offre con delimitazioni giuridiche». Per Reale, in altri termini, il cattolico ha dei punti di riferimento indiscutibili e non dei vincoli che lo limitano nel pensiero e nell'azione.
Per questo chiama in causa il grande magistero di Agostino, sul quale ha riflettuto anche l'attuale pontefice Benedetto XVI: «Il santo e filosofo, che ci ha lasciato un'opera come
La città di Dio, ci ha esplicitamente detto: prima uniamoci a Lui per mezzo della fede, per essere poi vivificati per mezzo dell'intelligenza. Perché noi abbiamo creduto per poter conoscere; se infatti avessimo voluto conoscere prima di credere, non saremmo riusciti né a conoscere né a credere». In altri termini, in queste parole che riprendono quelle di Agostino, si invita a rovesciare la prospettiva di tanti dibattiti attuali: la fede non deve essere la conseguenza di una serie di vincoli, ma ogni vincolo può essere superato e capito attraverso la fede.
Reale, sia chiaro, riconosce sia al documento della Cei che al commento ricordato saggezza e valori che possono essere utili oltre il mondo cattolico. In particolare, rileva che non è il caso di aggiungere figure giuridiche diverse dal matrimonio, pur non provando paure o problemi nel parlarne. Anche perché «l'uomo democratico si realizza con la capacità di sentire il diverso». E questo, sottolinea Reale, in un tempo in cui «si desidera praticare una libertà che sconfina nella licenza, giacché non riconosce alcun vincolo». Precisa ancora: «Qualunque proposta del magistero ecclesiastico non può essere impositiva ma soltanto propositiva; deve essere un invito e non un ordine: a me pare che Cristo si comportasse in questo modo».
Insomma, le nuove formulazioni della famiglia non riescono a sostituire il matrimonio, non devono danneggiare i figli e non vanno formulate come leggi-tornaconto. Ma il dibattito ci deve essere e i cattolici è bene che ad esso partecipino con fede e non armati di codicilli giuridici.
Platone, aggiunge Reale «che diede un duro colpo all'idea di famiglia (tra i custodi del potere e della difesa) in fondo anticipò — stando alle più accreditate interpretazioni — gli ordini monastici. Come dire: tu non riconoscerai il tuo figlio fisico, ma li amerai tutti come se fossero tuoi. Certo, con Platone gli orizzonti si ampliano a dismisura. Il filosofo che ha universalizzato la famiglia forse non aveva presente i dibattiti del nostro tempo e i drammi in essi contenuti».
Il filosofo Giovanni Reale insegna dal 2005 nella nuova facoltà di Filosofia del San Raffaele di Milano

Corriere della sera, 31 marzo 2007

Il commento del Prof. Reale spiega perfettamente il comportamento della CEI: la nota non e' un'imposizione, non prevede sanzioni per determinati comportamenti, ma invita coloro che si dichiarano cattolici alla coerenza.
Troppo comodo presentarsi come "cattolicissimi" in campagna elettorale e poi pretendere di agire come se la Chiesa non esistesse...




Ora i "cattolici democratici" chiedano scusa

di LUCA VOLONTÉ

Ora Alberigo e Melloni chiedano scusa ai loro lettori. Il primo è un grande esperto in Scienze Religiose, ma appare sempre più da bocciare sul Catechismo cattolico, non riesce a digerire il Papa, i vescovi, i parroci, la fede stessa. C'è da immaginare che 2000 anni fa incontrando Gesù con i discepoli potesse commentare che erano dei perditempo. È così facile invece comprendere l'ipotesi cristiana di un Dio che interviene nella storia, che lascia una compagnia sulla terra, che prosegue nella storia con Pietro e i suoi successori. No, pare che cercando punti di intesa tra le religioni si sia trovato a prescindere dalla Cattolica e questo lo disturbi molto. Così, senza leggere la Sacramentum Caritatis, la dileggia, senza approfondire la Nota su famiglia e Dico incita i parlamentari cattolici a disobbedire ai vescovi. Lo storico Melloni si è fatto conoscere per la sua polemica contro Pio XII nel 2005. Per settimane intere ha impiastrato le pagine del Corriere della Sera con fantasmagoriche interpretazioni di documenti per dimostrare la particolare simpatia del Papa verso il nazismo e le conversioni forzate. Peccato che venne totalmente smentito dai documenti originali e in questi ultimi giorni emerga dai dossier conservati nell'ex DDR un faldone di notizie del Terzo Reich che considerava il Papa un pericoloso e tenace oppositore. I due "cattolici democratici" hanno il dovere della coerenza, le scuse saranno ben accette visto le originali teorie infami sostenute. Ma se avessero la coscienza, meglio sarebbe il silenzio operoso e orante. Intanto i "Cattolici del No", settantenni alla riscossa rispolverati da Marco Politi, si riattiveranno con lo stesso rancore di sempre, ma stavolta andranno in piazza con le stampelle a difendere Grillini e Luxuria e saranno accompagnati dai finanziatori dei Valdesi, Camilleri, Eco, Fo, Rame. A Tor Pignattara è accaduta un'ennesima vicenda inquietante di bulli contro maestri. Una banda di bambini di sette anni, armati di coltelli, minacciano di morte la maestra. Che fare? Di analisi ne ho lette molte, di inviti alle responsabilità educative dei genitori pure. Dobbiamo cambiare passo. Introduciamo pene vere verso questi mariuoli. Che ne dite di reintrodurre la "bacchetta" per addomesticare i più violenti? Meglio i metodi naturali, come i ceffoni di quel padre la cui figlia è stata costretta al sesso orale, che il Prozac introdotto dalla Turco nelle farmacie italiane. Deve esserci uno stato di assuefazione totale al ministero della Salute, se ci si occupa solo di cannabis e pilloloni vari per drogare i bambini. C'è una logica del bambino come "buon selvaggio", che solo per colpa dei genitori si trasforma in bestiolina violenta. La "bacchetta" in classe e la responsabilità giuridica dei genitori per gli atti dei figli sono forse banali, ma molto più efficaci.

Libero, 31 marzo 2007

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