29 marzo 2007
Aggiornamento rassegna stampa del 29 marzo (2)
In questo post vengono trascritti alcuni editoriali di commento alla famosa nota della CEI, diffusa nel primo pomeriggio di ieri.
Piu' tardi verra' pubblicata una nuova rassegna stampa e anche un un importante articolo su Pio XII.
Raffaella
Vedi anche:
Rassegna stampa del 29 marzo 2007
Aggiornamento rassegna stampa del 29 marzo 2007
La fine del dialogo
GIAN ENRICO RUSCONI
La Nota del Consiglio episcopale italiano rappresenta una svolta nella definizione della natura e del ruolo del laicato cattolico. Contiene un passaggio centrale che è la campana a morto del cattolicesimo liberale o «progressista» in Italia. Leggiamo infatti che il cattolico «non può appellarsi al principio del pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società».
Va da sé che, nel caso specifico del dibattito sulla legge delle unioni di fatto, sono i vescovi a decidere che cosa è il «bene comune». Al laico cattolico impegnato nella società e nella politica non resta che aderire senza riserve alla linea dettata dall’episcopato. Ogni altra posizione è definita «incoerente».
«Incoerenza» può essere intesa come un’espressione relativamente morbida, in un contesto che evita di menzionare o minacciare sanzioni ai disobbedienti. Ma il testo è netto nell’escludere ogni opinione deviante che, non a caso, viene collegata ai due principi-cardine della laicità, «pluralismo» e «autonomia». Sono dunque proprio i principi laici che vengono evocati e negati.
Ma è prevedibile che nel campo cattolico italiano non si alzino proteste o dissensi. Soltanto qualche voce isolata e molto silenzio, compensato dalla soddisfazione degli agnostici clericalizzanti. Adesso lo schieramento tra i cattolici obbedienti e gli altri è chiuso a battaglia.
Emanda il segnale della fine del già faticosissimo dialogo tra cattolici e laici (presuntivamente non credenti e diffamati come «laicisti»).
Perché si è arrivati a questa situazione? La Nota dell’episcopato italiano si inserisce perfettamente nella logica della sfera pubblica aperta al confronto di tutte le opinioni. E le opinioni sono tanto più forti quanto meglio mediaticamente organizzate. Da qualche anno questo riesce bene alla Chiesa e alle sue agenzie. Mi auguro quindi che adesso cessi il lamento che la sfera pubblica in Italia esclude o mortifica la Chiesa (rimane l’equivoco di confondere la dottrina della Chiesa con la voce di Dio, ma questo è un altro discorso serio).
Non diremo neppure che è in pericolo la democrazia. Si può anzi dire che gli uomini di Chiesa hanno imparato a usare tutte le tecniche democratiche per garantire e promuovere la specifica identità dei cattolici. Le «procedure» democratiche, che un tempo erano guardate con sospetto perché presuntivamente estranee ai valori, sono utilizzate ora spregiudicatamente per difendere le proprie posizioni. Il ricorso all’«obiezione di coscienza» viene disinvoltamente evocato e usato per delegittimare normative di carattere generale.
L’invito al laicato cattolico di aderire senza riserve alla linea della gerarchia è l’ultimo atto di questa strategia. Il cattolicesimo italiano si presenta (deve presentarsi, secondo la Cei) come un corpo compatto di convinzioni e di tattiche politiche vincenti.
Certo, è paradossalmente insicuro se rimanere orgogliosamente una minoranza di «veri credenti» o viceversa avanzare come unico rappresentante della «maggioranza degli italiani», che non sarebbero affatto rappresentati dai laici. La gestione di Camillo Ruini ha oscillato tra queste due concezioni. La prima uscita pubblica del nuovo vertice Cei non ha ancora sciolto questo nodo.
La Stampa, 29 marzo 2007
Ecco il problema! Il laicato cattolico progressista!!! Io non penso proprio che la CEI, con questa nota, abbia voluto mettere a tacere le tante ed importantissime voci dei movimenti cattolici che si autoinquadrano nell'ala progressista.
Lo stesso Benedetto XVI incoraggia il laicato cattolico. Non solo! A Verona ha detto espressamente che spetta ai laici intervenire nella sfera politica (vedi "Discorso del Papa a Verona").
Il problema e' che, di recente, esponenti di questo laicato hanno espresso pubblicamente l'intenzione di agire secondo (la loro) coscienza indipendentemente dal Magistero. Occorreva, dunque, una chiarificazione da parte della CEI. E' arrivata ieri: nessuna scomunica, nessun diktat, solo un invito alla coerenza. Nessuno medico, in fondo, prescrive ai parlamentari di dichiararsi cattolici.
Raffaella
POLITICA
I laici alla prova dei Dico
di EDMONDO BERSELLI
LA NOTA del Consiglio permanente della Cei sui Dico era attesissima: su di essa si era appuntata tutta l'attenzione del mondo politico, e già questo è sintomatico del peso e degli effetti che i pronunciamenti della gerarchia ecclesiastica possono avere all'interno di partiti e schieramenti. Specialmente se un documento viene annunciato come una parola "impegnativa" per i cattolici. Si tratta di vedere quanto può essere impegnativa per un rappresentante del popolo, eletto senza alcun tipo di vincolo o di mandato, insediato in nome della Repubblica. E la risposta deve essere semplice e radicale: nulla è impegnativo per un deputato o un senatore, se non la sua coscienza.
In ogni caso, a leggere la nota dei vescovi, si ha la sensazione di una lineare quanto irriducibile continuità: sulle coppie di fatto, il primo atto dell'arcivescovo Angelo Bagnasco, neo presidente della Cei, non si differenzia in modo significativo dalle ultime attestazioni del cardinale Ruini.
Sarebbe stato per la verità irrealistico aspettarsi prese di distanza o differenze nette. Le richieste di un tono meno espressamente politico e più "pastorale", manifestatesi in seno all'assemblea dei vescovi, hanno smussato alcune asprezze della bozza precedente (che definiva "un atto gravemente immorale" la concessione del voto al riconoscimento legale delle unioni omosessuali).
Tuttavia la nota dei vescovi è destinata a provocare ripercussioni intense nel mondo politico. Se si sostiene che in base a concezioni antropologiche, filosofiche e istituzionali "la legalizzazione delle coppie di fatto è inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo e avrebbe effetti deleteri sulla famiglia", non si vede quale sia la possibilità di interlocuzione, e neppure di elaborazione giuridica. Se sulle coppie di fatto "nessun politico che si chiami cattolico può appellarsi al principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica", il discorso è chiuso.
I parlamentari cattolici che intendessero contribuire a regolare le unioni non formalizzate dal matrimonio sarebbero "incoerenti". E se si aggiunge che per avvalorare la propria verità la Cei ricorre con chiare citazioni all'autorità di Joseph Ratzinger, il cerchio si completa senza apparenti possibilità, per le componenti cattoliche della nostra politica, di trovare una via d'uscita. O l'obbedienza, o l'errore.
Ora, dato che proprio la laicità è un principio ordinatore della politica, nonché degli assetti istituzionali, si può già immaginare quali saranno le ripercussioni di questo aut aut episcopale. Non tanto a destra, dato che l'ex Casa delle libertà è comunque unita in un sostegno indiscusso, per quanto sospettabile di strumentalità, alla gerarchia ecclesiastica. Ma nel centrosinistra, e in particolare nella sua parte centrista, il pronunciamento dei vescovi avrà implicazioni vistose.
E' vero che dopo lo sforzo strenuo di mediazione e duttilità politica con cui la cattolica Rosy Bindi si era impegnata nella stesura del disegno di legge sui Dico, oggi quel testo si è inabissato al Senato, dove la Commissione Giustizia ha cominciato a valutare soluzioni legislative diverse, di tipo privatistico, connesse all'estensione di garanzie da iscrivere nel Codice civile. Ma con il documento di ieri la Cei ha segnato un solco profondo nel terreno della politica.
Ha fissato criteri, ha sancito vincoli. Come potrà, un qualsiasi parlamentare cattolico, affrontare l'accusa di "incoerenza" rivoltagli dalla Chiesa? E come potrà argomentare la sua laicità a fronte della "devozione" del fronte opposto (che pure comprende avversari e alleati)? L'effetto di confusione che il chiarissimo dispositivo della Cei determinerà sulla politica italiana sarà poi amplificato dal cosiddetto "Family Day", la manifestazione convocata in San Giovanni in Laterano il 12 maggio. Che a dispetto delle migliori intenzioni, e anche di sporadiche e volenterose adesioni a sinistra, assumerà facilmente l'aspetto di una contrapposizione frontale tra l'Italia del cattolicesimo, dell'ortodossia matrimoniale, del tributo ai vescovi e al Papa, e l'Italia della laicità: in cui a soffrire con maggiore intensità saranno proprio gli esponenti politici cattolici legati a un'idea - diciamo degasperiana? - ferma e civile di separazione tra l'ordinamento statuale e la religione organizzata.
Per tutti loro, di qui in avanti, si prepara un cammino accidentato. Ed è prevedibile che sarà molto accidentata anche la strada della politica nel suo insieme: perché è vero che la Chiesa ha il diritto di manifestare i suoi principi, e di sostenerli pubblicamente; ma l'intervento diretto e vincolante dei vescovi sui legislatori non sarebbe stato possibile se l'intero arco politico fosse unito dalla condivisione di un principio fondativo e solidale di laicità. Cioè se la politica non fosse indebolita non tanto da legittime contrapposizioni ideali e di valore, quanto dalla presenza di strumentalismi, convenienze, da quella specie di opportunismo del sacro, o dell'etica, che trasforma valori altissimi in moneta politica sonante.
Dietro la rigidità ecclesiastica si avverte forse l'assenza di quel realismo giuridico e politico che aveva fatto stilare al cardinale Pompedda, un conservatore, una sentenza non proprio ovvia per un ecclesiastico di alto livello: "Le unioni di fatto sono un fatto". Ma dietro gli opportunismi politici si avverte un antico sentore di simonia. E un cedimento tendenziale non alle guerre di religione, non è il caso di esagerare, ma a una sorta di vastissimo voto di scambio, dove la ricerca dell'appoggio della Chiesa può valere anche l'abbandono della dignità laica.
Repubblica, 29 marzo 2007
Ribadisco: nessuno impone ai parlamentari di essere coerenti con il Magistero. Essi sono eletti senza vincolo di mandato, possono votare come pare loro piu' giusto ed opportuno, possono migrare come api sui fiori da uno schieramento all'altro, possono stimare il Papa o insultarlo in vari modi...i Vescovi ed il Papa non possono e non vogliono imporre nulla. Il parlamentare che si dichiara cattolico (nessuno gliel'ha prescritto per ricetta del servizio sanitario nazionale) puo' essere coerente o meno...il nostro e', ancora, un Paese libero.
Questa è la sconfitta dei cattolici «adulti»
di Massimo Introvigne
Tutte panzane. Molti giornali ci avevano raccontato che nella Conferenza Episcopale Italiana era in atto uno scontro fra amici di Prodi e di Berlusconi, che come in un telefilm di serie B in Vaticano c'erano il poliziotto cattivo, impersonato dal Papa, e il poliziotto buono, interpretato dal cardinale Bertone che avrebbe consigliato ai vescovi italiani mano leggera sui Dico. Sciocchezze, spazzate via dal testo ufficiale della nota dei vescovi italiani sui Dico, dove non c’è traccia né di sconti né di scappatoie.
Il documento giudica la legge Bindi-Pollastrini sui Dico «inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo». Né bastano le proclamate buone intenzioni: «Quale che sia l’intenzione di chi propone questa scelta, l’effetto sarebbe inevitabilmente deleterio per la famiglia. Si toglierebbe, infatti, al patto matrimoniale la sua unicità, che sola giustifica i diritti che sono propri dei coniugi e che appartengono soltanto a loro. Del resto, la storia insegna che ogni legge crea mentalità e costume». Come è ovvio, è giudicato «un problema ancor più grave» quello «rappresentato dalla legalizzazione delle unioni di persone dello stesso sesso, perché, in questo caso, si negherebbe la differenza sessuale, che è insuperabile». Ma il «più» davanti a «grave» significa che restano gravi anche i Dico eterosessuali. Eventuali problemi concreti e casi pietosi possono essere risolti «nell'ambito dei diritti individuali, senza ipotizzare una nuova figura giuridica che sarebbe alternativa al matrimonio e alla famiglia e produrrebbe più guasti di quelli che vorrebbe sanare».
La battaglia decisiva che i «cattolici adulti» hanno combattuto sui media amici cercando qualche sponda fra i vescovi - soprattutto in pensione, però - e permettendo a qualche giornale di riferire i fatti della Chiesa in due colonne, dove all'insegnamento del Papa si contrapponeva il «magistero parallelo» del cardinale Martini, di qualche professore di teologia e giù giù fino a Rosy Bindi, non riguardava però il giudizio della Conferenza Episcopale sui Dico. Dopo una raffica di interventi chiarissimi del Papa, nessuno poteva immaginare che i vescovi si pronunciassero diversamente. La vera questione era quella del margine di manovra delle varie Bindi, pronte ad appellarsi alla libertà di coscienza e all’autonomia della politica, che è il cuore del progetto dei «cattolici adulti».
Su questo punto, dove avevano voluto portare la battaglia, i «cattolici adulti» incassano la più sonora delle sconfitte. Certamente, spiega la nota, i cattolici impegnati in politica devono decidere secondo coscienza, ma questa dev'essere «rettamente formata». Diversamente, l'appello alla coscienza potrebbe giustificare qualunque cosa. «Il fedele cristiano - spiega la nota - è tenuto a formare la propria coscienza confrontandosi seriamente con l'insegnamento del Magistero, e pertanto non può appellarsi al principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società». Per chi non avesse capito, o non volesse capire, questo significa che «il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge». Se non lo fa, è un «cristiano incoerente»: e dovrebbero trarne conseguenze precise sia il suo parroco sia gli elettori cattolici.
Il Giornale, 29 marzo 2007
Credo sia auspicabile un intervento del cardinale Martini per smentire di aver realizzaro un Magistero parallelo...
Ai politici, a tutti
La parola delle occasioni importanti
Dino Boffo
Nel giorno in cui - coincidenza non prevista, credo - papa Benedetto ricorda ai cristiani di tutto il mondo che «il vero magistero è quello impartito dai vescovi», i pastori delle nostre diocesi si pronunciano collegialmente sul tema della famiglia, avendo come riferimento l'«ampio dibattito» in corso attualmente in Italia sull'argomento. Ciò significa che, dopo settimane in cui sono stati mille e mille volte evocati e spesso anche strattonati nell'arena del dibattito pubblico, i vescovi hanno infine deciso di dire una loro parola. Non solo impegnata, com'è scontato che sia, ma anche «impegnativa», come loro stessi si premurano di chiarire. A noi che la leggiamo sembra espressa con grande garbo e senza cattiverie, e il termine non suoni stonato. Spesso, negli ultimi tempi, i vescovi sono stati invitati, più o meno garbatamente, a mostrare soprattutto misericordia, esprimendo prossimità piuttosto che giudizi verso la vita della gente. Quanta dose di malizia sia contenuta in tali rilievi non importa qui verificare. Ci preme invece osservare che nella "nota" resa pubblica ieri è impossibile non percepire che i vescovi parlano realmente per simpatia (in senso etimologico) della vicenda umana. Si approssimano agli interlocutori, uno per uno, e da amici si rivolgono al loro cuore.
Così l'eloquenza dei nostri vescovi acquista immediatamente il tono di chi racconta una storia non solo primordiale ma personale, specie là dove ricorda come «ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio, e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna. Poter avere la sicurezza dell'affetto dei genitori, essere introdotti da loro nel mondo complesso della società, è un patrimonio incalcolabile... garantito dalla famiglia fondata sul matrimonio, proprio per l'impegno... di fedeltà stabile» che essa porta con sé. Domanda: chi non si riconosce in questo paradigma esistenziale? E perché ciò che è stato sperimentato finora come una fortuna incalcolabile e una garanz ia vitale non dev'essere preservato per il benessere di tutti?
È questo - a me pare - il nocciolo del ragionamento, in base al quale i vescovi ambiscono ad un dialogo di verità con il Paese, compresa la classe politica. Di qui fanno poi discendere una rilevazione quasi sociologica: se al matrimonio si affiancano altri tipi di convivenza, si priva il patto matrimoniale della sua unicità. E dunque, anche al di là delle intenzioni, lo si indebolisce. È arduo infatti sostenere che strumenti giuridici come i pacs, o i dico, non danneggino la famiglia. Se anche non lo suggerisse l'amara esperienza di altri Paesi, ci illumina un'osservazione acuta che riprendiamo dalla testimonianza di una parrocchia (Tolmezzo): conferendo diritti e privilegi ai conviventi, è vero che di per sé non si tolgono diritti e privilegi ai coniugi, però si privano questi diritti e privilegi coniugali del motivo per cui esistono, ossia il patto matrimoniale. In altri termini, l'indebolimento non avviene tanto per qualche offesa esteriore, quanto per il disconoscimento di ciò che sta alla radice della famiglia, quel patto tra uomo e donna che le ha consentito di reggere lungo i secoli, garantendo con ciò il futuro alle generazioni.
La cosa è tremendamente seria. Tale da giustificare quindi il giudizio dei vescovi sulle ipotesi di legalizzazione delle unioni di fatto: «inaccettabile sul piano di principio» e «pericolosa sul piano sociale ed educativo». Espressioni che prima il presidente Bagnasco, e poi i suoi confratelli, non hanno scomodato a cuor leggero, assicurando nel contempo il loro rispetto e la loro sollecitudine verso tutti, comprese le persone omosessuali, per le quali non leggiamo nella nota altre valutazioni se non che, istituzionalizzando le loro unioni, «si negherebbe la differenza sessuale, che è (invece) insuperabile».
A chi si rivolge questa "nota"? Ai cattolici. Ma anche ai non praticanti. Ai cittadini come ai politici. La libertà è sacra, eppure il diritto esiste non per dare copertura a qualunque aspirazione individuale o bizzarria, ma «risposte pubbliche a esigenze che vanno al di là della dimensione privata».
Per tutti questi motivi, un cristiano che sostenesse la legalizzazione delle unioni di fatto sarebbe - scrivono i vescovi - «incoerente». Nel caso si trattasse poi di unioni gay, avrebbe il dovere morale di opporsi anche con il voto.
Il pluralismo culturale è - ovvio - fuori discussione. L'autonomia dei laici pure, poiché essa non può non rinvigorirsi nel confronto serio e veritativo col magistero della Chiesa, e in forza (anche) di questo farsi promotrice «di una visione autenticamente umana».
Chi l'avrebbe detto che ci saremmo impegnati anzitutto non per qualche «impresa cattolica», ma per il futuro dell'umanità dell'uomo?
Avvenire, 29 marzo 2007
IL VALORE DEI PICCOLI SEGNALI
di LUCA DIOTALLEVI
CI si interrogava intorno ad una possibile discontinuità tra Ruini e Bagnasco, vecchio e nuovo presidente della Cei. Se guardiamo ai testi, non mancano sfumature e toni che segnalano distinzioni. Anche se, come è ovvio, sui contenuti dogmatici non si riscontrano differenze rilevanti tra la Nota di ieri, la prolusione di Bagnasco ed il discorso con cui Ruini aveva chiuso il Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona. La novità vera sarà presumibilmente annunciata invece con la lettera del Segretario di Stato, card. Bertone, ai vescovi italiani, in cui dovrebbero essere posti in discussione gli equilibri vigenti tra Cei e Vaticano. Torniamo per ora ai testi.
Definendo “inaspettata” la propria nomina mons. Bagnasco ha fatto sì che l’affermazione di una continuità con la presidenza Ruini apparisse non scontata. Dei motivi “ruiniani” non è mancato nulla nella prolusione: il Concilio; il legame speciale delle Chiese italiane con il Papa; “il credere alla forza della ragione come capace di vero”; il valore del cattolicesimo popolare italiano; l’impegno a sviluppare il recente Convegno di Verona; il “progetto culturale”; gli interventi del magistero come sostegno e non come ostacolo alla libertà di coscienza. La presidenza appena conclusa è stata definita dal successore un “balzo” in avanti.
Il neopresidente ha poi chiarito che la Cei è e resta una “struttura di servizio”. I vescovi, autorità nelle loro diocesi, e le loro stesse Chiese, a volte vengono a trovarsi di fronte a questioni che non possono affrontare da soli. Ai presuli non è chiesto di obbedire alla Cei, ma di collaborare (il che a volte può essere persino più duro).
Ciò premesso, cosa la storia giorno per giorno richiede non è prevedibile. È per questa via induttiva, di realismo e discernimento, che si arriva all’attualità. Ed oggi al centro della parte alta dell’agenda, non dei vescovi ma della società italiana, anche Bagnasco vede la questione della famiglia. Nessun passo indietro – né nella prolusione né nella Nota – rispetto alla chiarezza con cui era stato affermato il riconoscimento dei diritti delle persone. Ciò che si contrasta è l’uso di questa esigenza legittima per introdurre nell’ordinamento un istituto paramatrimoniale. La manifestazione del 12 Maggio (il “family day”) è presentata come una “festa”, come la proposta di un’idea di bene comune, di un bene per tutti. «La Chiesa non ha come fine se stessa» chiarisce Bagnasco, né il potere come obiettivo (altrimenti sarebbe più accondiscendente).
Così, semplicemente adempiendo ai propri doveri pastorali, la Chiesa diviene portatrice, come altre forze sociali, economiche e culturali, di un’istanza di riforma del vecchio modello sociale europeo e del suo modo vecchio ed in crisi di distinguere religione e politica, fede e ragione: secondo il quale dove tace l’una parla l’altra. Parlando in pubblico, la Chiesa costringe se stessa al confronto e l’opinione pubblica ad andare oltre vecchi equilibri.
Nella vecchia Europa serpeggia una domanda di autorità. Se la si ignora rischia di assumere forme degeneri. La Chiesa italiana accoglie questa sfida non erigendo piramidi fortificate ma rimanendo tra la gente, non covando disegni fondamentalisti ma coltivando differenze e cercando il confronto con le istanze di responsabilità e di libertà.
È pronta la Chiesa nell’insieme a questa sfida? È pronta la cultura e la società italiana (per tanta parte assistite e blandite) a confrontarsi con questa proposta di maturità?
Il Messaggero, 29 marzo 2007
Chi si dichiara cattolico deve ascoltarli
di GIANFRANCO MORRA
"Bertone chiude l'era Ruini", intitolava ieri Repubblica. Uno scoop troppo facile e grossolano. Che non comprendeva o travisava i termini della questione. Il segretario di Stato, cardinale Bertone, ha detto che dei rapporti con le istituzioni politiche si occupa il Vaticano. Cosa giusta e scontata. Sempre accaduta. La Cei non è un organo politico, come invece lo è la Città del Vaticano. I suoi compiti sono "dottrinali e pastorali", è scritto nel suo statuto. Non è stata la Cei a firmare la revisione del concordato tra Stato e Chiesa del 1984, furono Craxi e Casaroli. Ma significa ciò che la Cei non possa invitare i politici che si dicono cattolici a non tradire le loro convinzioni, votando leggi contrarie alla fede e alla morale naturale? Che i vescovi, nella loro collegialità, non siano autorizzati a far sentire la loro voce sui cosiddetti Dico, che degradano il concetto di matrimonio e famiglia a quello di convivenza innaturale e casuale? Dire a un politico cristiano: cerca di essere coerente con la tua fede, non appoggiare leggi contrarie alla tua coscienza, non tradire l'insegnamento della Chiesa (non dello Stato del Vaticano), non c'entra niente con i rapporti politici tra stati di cui parlava il cardinale Bertone. La cosa inammissibile sarebbe che a invitare i politici a fare resistenza fosse proprio lui, il segretario di Stato, che, in questo caso, eserciterebbe una indebita influenza sulla politica italiana. Ma il vescovo non è un politico, è un uomo di chiesa, indipendente dalle autorità politi- che, tanto che (grande innovazione del concordato di Craxi) non giura più fedeltà allo Stato. Egli ha il diritto e ancor più il dovere di orientare tutti coloro che, per loro volontà, si definiscono cristiani. Dicendo loro: la religione è in primo luogo libertà, tanto che nessuno può costringervi ad avere una fede o a rifiutarla; ma se vi definite cristiani e spesso venite votati anche per questa vostra dichiarazione, avete il dovere di essere coerenti, non potete appoggiare una legge come quella dei Dico. Non è il vescovo che ve lo impone, ma la vostra coscienza, nella misura in cui vogliate ancora essere cristiani. I Dico, del resto, sono sì una legge politica, ma il loro oggetto è una materia etica e sociale, su cui i vescovi non possono tacere. Il nuovo codice di Diritto Canonico, promulgato da papa Wojtyla nel 1983, definisce i vescovi "pastori della Chiesa, autentici dottori e maestri di dottrina, ai quali i fedeli sono tenuti ad aderire" (375, 753). Tenuti non significa costretti. Significa solo che tutti i cristiani, politici inclusi, sono liberi, possono accettare o rifiutare tale insegnamento, ma non possono ignorarlo, se vogliono continuare a dirsi "cristiani". Tale insegnamento, infatti, non si rivolge né al parlamento, né al go- verno, ma alle coscienze dei singoli parlamentari o amministratori: fate ciò che credete meglio, ma se volete essere ancora cristiani non potete dare il vostro voto a una legge così nociva per il bene comune della società. Non è un caso che il Concilio Vaticano II ("Gaudium et spes", 43) abbia insistito sul dovere dei vescovi di "predicare il messaggio di Cristo in modo tale che siano pervase della luce del Vangelo tutte le attività terrene" (anche il matrimonio, dunque). E che Giovanni Paolo II, nel suo primo discorso sociale, a Puebla, nel 1979, indicasse nella "vigilanza sulla purezza della dottrina" il primo dovere del vescovo. La Segreteria Vaticana è un organo importante sul piano dei rapporti fra gli Stati. La Cei è qualcosa di diverso e anche di più importante. È la voce concorde dei pastori della Chiesa, presenti in mezzo alle loro comunità, che cercano di orientare i fedeli verso il bene comune. Bertone, ieri, si è recato alla Camera dei deputati, accolto da Bertinotti. Un importante gesto politico e diplomatico. Proprio di quelli che la Cei non può fare, dato che non si rivolge alle istituzioni, ma agli uomini. Come ha fatto con la nota pastorale emanata ieri.
Libero, 29 marzo 2007
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