28 marzo 2007
Aggiornamento rassegna stampa del 28 marzo 2007
Vengono pubblicati altri articoli di stampa sulla lettera che il cardinale Bertone ha inviato a Mons. Bagnasco in occasione della prolusione tenuta di fronte al Consiglio Permanente della CEI.
Seguono altri editoriali sulla situazione dell'Europa e un brano di Navarro Valls per "Repubblica". Nel primo pomeriggio riportero' alcuni articoli sul tema dell'inferno. Non manchera' l'occasione di polemizzare con un noto vaticanista...
Raffaella
Vedi anche:
Prolusione di monsignor Bagnasco al Consiglio Permanente della CEI
Rassegna stampa del 28 marzo 2007
«La guida politica torni in Vaticano»
di Andrea Tornielli
La Santa Sede intende tornare ad avere un ruolo più diretto e attivo nei rapporti con le istituzioni e la politica del nostro Paese rispetto a quanto è avvenuto negli anni della presidenza Ruini. È quanto si evince dalla lettera che il cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone ha inviato due giorni fa al nuovo presidente della Cei, l’arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco. Una missiva dalla quale traspaiono alcune precise linee programmatiche e soprattutto la volontà di far tornare nei sacri palazzi la cabina di regia nella gestione dei rapporti con la politica, che negli ultimi anni era stata affidata ai vertici dell’episcopato.
Bertone, dopo aver ricordato la «guida autorevole» che Ruini ha esercitato nella conferenza episcopale, esprime apprezzamento per le interviste rilasciate nelle ultime settimane dal neo-presidente Bagnasco, che esprimono «un segno di continuità nel consolidamento della testimonianza cristiana e nella promozione della famiglia, e incoraggeranno i pastori ad affrontare con autentico spirito collegiale, non soltanto questi temi, ma tutte le grandi sfide che attendono il futuro». Una maggiore collegialità e una gestione più condivisa all’interno della Cei erano uno dei punti che più stava a cuore alla Santa Sede.
Nella lettera il Segretario di Stato ricorda gli anni da lui trascorsi alla guida delle diocesi di Vercelli e poi di Genova, dove ha constatato «la preoccupante avanzata della secolarizzazione», ma anche «il progressivo indebolimento del tessuto ecclesiale italiano»: un accenno, questo, che appare in controtendenza con il giudizio di quanti parlano di una sostanziale tenuta della Chiesa in Italia. La priorità per i vescovi, spiega il «primo ministro» del Papa, è quella dell’evangelizzazione, della catechesi e di «una recuperata e motivata disciplina del clero». Bertone sottolinea l’importanza di «una piena valorizzazione dell’autentica collegialità», pur nel rispetto «delle prerogative e responsabilità personali» di ogni vescovo. È questo un altro punto che sta a cuore al Papa: le conferenze episcopali non devono in alcun modo surrogare o sostituirsi all’autorità dei singoli vescovi.
Nei paragrafi finali è contenuta la parte più «politica» della lettera. «Per quanto concerne i rapporti con le istituzioni politiche - scrive il Segretario di Stato al presidente della Cei - assicuro fin d’ora la cordiale collaborazione e la rispettosa guida della Santa Sede, nonché mia personale». «Negli ultimi mesi - aggiunge Bertone - ho potuto apprezzare ancor meglio il compito che i Pontefici hanno affidato a questa Segreteria, d’intessere e di promuovere le relazioni con gli Stati e di attendere agli affari che, sempre per fini pastorali, debbono essere trattati con i governi civili. Sono quindi consapevole che tale ruolo richiede particolare sollecitudine per codesto nobile Paese, intriso di fede cristiana e sul cui territorio risiede la Cattedra di Pietro». Una sottolineatura importante, nella quale sono ribadite le prerogative della Segreteria di Stato nei rapporti con i governi, compreso quello italiano. Una svolta rispetto agli anni in cui il cardinale Camillo Ruini, per incarico di Giovanni Paolo II, ha ricoperto anche questo delicato ruolo di mediazione, che ora dunque torna a essere gestito direttamente Oltretevere.
Sempre ieri è stata resa ufficialmente nota anche la lettera (anticipata dal quotidiano Avvenire) con la quale Benedetto XVI ringrazia Ruini per il prezioso ruolo svolto alla guida della Cei esprimendogli «riconoscenza sincera e profonda».
Intanto continuano i lavori del Consiglio permanente della Cei: ieri il «parlamentino» dei vescovi ha iniziato a discutere la Nota pastorale sui Dico, che verrà pubblicata nei prossimi giorni. Il testo, da quanto si apprende, non dovrebbe contenere una vincolante ed esplicita indicazione di voto per i politici cattolici. Ci sarà sì inequivocabile chiarezza e fermezza nei contenuti dottrinali e dunque nella contrarietà a qualsiasi forma di legalizzazione delle coppie di fatto e delle unioni gay. Ognuno però dovrà poi trarre personalmente le conseguenze da quei principi.
Il Giornale, 28 marzo 2007
LA ROTTURA A 14 ANNI DAL DISGELO DIPLOMATICO
E’ di nuovo crisi nei rapporti Israele-Vaticano
CITTA’ DEL VATICANO
Tasse, luoghi di culto, proprietà, restituzione del Cenacolo: crisi diplomatica fra Israele e il Vaticano. La delegazione dello Stato di Israele, attesa giovedì al Palazzo Apostolico, ha deciso di disertare l’incontro che dopo 5 anni di rinvii avrebbe dovuto portare alla firma di un «trattato globale» su tutte le questioni ancora pendenti. Salta, quindi, il «tavolo» che avrebbe dovuto dare alla Chiesa in Israele sicurezza giuridica e fiscale. A quattordici anni dall’Accordo fondamentale che ha istituito rapporti diplomatici ufficiali tra Santa Sede e Israele, restano aperte questioni come l’esenzione delle istituzioni religiose dalle imposizioni fiscali e l’eventuale riconsegna (promessa a Giovanni Paolo II dal governo israeliano durante il suo viaggio in Terra Santa nel 2000) alla Custodia di Terra Santa, dell’edificio del Cenacolo, costruito in epoca bizantina sul luogo della casa in cui Cristo, nell’ultima cena, istituì l’eucarestia ed avvenne la pentecoste. Dal vertice di giovedì erano attesi passi importanti verso l’attesa restituzione.
L’accordo del ‘93 prevedeva, tra l’altro, che lo status della Chiesa cattolica nel Paese sarebbe stato esaminato e sistemato con successive intese da raggiungere attraverso il lavoro di una commissione mista. Tre lustri dopo, poco o nulla è stato fatto. «La Chiesa desidera veder riconfermate le storiche esenzioni fiscali, che aveva già acquisito nel 1948, al momento della creazione dello Stato di Israele e attende la restituzione di proprietà ecclesiastiche confiscate, come la chiesa-santuario di Cesarea, confiscata negli Anni 50 e successivamente rasa al suolo - spiega padre Bernardo Cervellera, direttore di AsiaNews, l’agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere -. Nella Chiesa in Israele c’era molta attesa per l’esito di questo incontro».
L’annuncio della prima sessione «plenaria» dei negoziati dopo cinque anni aveva suscitato un cauto ottimismo, ora sostituito per l’ennesima volta dalla delusione. Uno dei principali sostenitori in Curia del dialogo è il segretario di Stato Tarcisio Bertone, che da tempo auspica un «rapporto nuovo tra Vaticano e Israele». La Santa Sede, osserva il cardinale Bertone, «ha avviato contatti per regolarizzare la situazione ecclesiastica nello Stato di Israele, per quanto riguarda il problema dei diritti di proprietà e tutti i delicati aspetti che sono sul tavolo delle trattative». Secondo Bertone, i problemi «devono essere risolti come si risolvono in uno Stato democratico, che tutela i diritti delle persone, delle istituzioni religiose».
In ballo c’è anche il documento con cui i patriarchi e i capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme hanno rinnovato la richiesta di uno statuto speciale per la città di Gerusalemme (il precedente testo di riferimento è un memorandum del 1994 su «Il significato di Gerusalemme per i cristiani»). Nel documento vengono posti alcuni punti fermi, che coincidono in sostanza con i nodi principali da risolvere a livello diplomatico tra Santa Sede e Israele. Si tratta per lo più di materie tecniche, per completare appunto l’attuazione dell’«Accordo fondamentale» del 1993. I responsabili delle Chiese cristiane di Gerusalemme chiedono tra l’altro «il rispetto dei diritti fondamentali delle persone e delle comunità che vi abitano» e «libertà per le comunità religiose di possedere e gestire le opere necessarie al loro ministero come chiese, scuole, ospedali, ostelli». E proprio quest’ultimo è uno dei punti più spinosi su cui trovare un accordo.
La Stampa, 28 marzo 2007
Sono anni che Israele fa il "tira e molla"...non e' ora di tenere fede agli impegni?
Bella senz’anima nei suoi primi 50 anni questa Europa laicista non ha futuro
di Redazione
Parole, tante belle parole, look eleganti, fuochi d'artificio, serate di gala. La nostra Europa ha cinquant’anni. Raccoglie Paesi e Popoli, come mai in passato. Vanta istituzioni, poteri, autonomia, forza economica. Sembrerebbe, insomma, più in forma che mai. Ma è un’Europa senza anima, incapace di scaldare i cuori e di trascinare passioni. Sembra un’Europa più attenta alle forme, alle esteriorità; un'Europa che si presenta molto bella, elegante, ma che è così poco «popolare» tra la gente.
Al di là delle dichiarazioni di principio che non possono appassionare: cos’è oggi l’Europa? Quale ruolo nello scacchiere internazionale vuole giocare? Quale è la sua dimensione culturale? Cosa vuole proporre ai suoi nuovi membri, cittadini e residenti? Cosa vuole dire Europa? Il motivo di tanta incertezza è chiaro: si è voluto costruire la nuova Europa su modelli puramente tecnocratici e burocratici, rifiutando l’idea che «fare l’Europa» voglia dire impegnarsi in un progetto per una società migliore, con una sua identità popolare, percepita nella quotidianità, tra la gente. Il fatto è che viviamo in un’Europa dove prevale un’impostazione «laicista» della convivenza sociale, solo apparentemente neutrale, ma in realtà assolutamente ideologica. Pericolosissima.
Nel nome di una fantomatica uguaglianza, tutto è uniformato, annullato, spersonalizzato. Ed il nichilismo sta trionfando, ogni giorno di più. Il modello laicista genera mostri, nel nome di un «antropocentrismo» fondato sulla finitezza dell’uomo, sulla sua dimensione più «piccola» legata al soddisfacimento dei bisogni più immediati, sulla «pancia» dell’uomo, e dimentica come ogni modello di convivenza istituzionalizzato dovrebbe essere uno strumento e non uno scopo fine a se stesso. Il dramma dei nostri giorni è che viviamo in un’Europa che rifiuta il concetto di appartenenza. Le identità forti terrorizzano. Vanno combattute.
Chi appartiene è il «male», da lasciare ai margini, perché nocivo per una collettività indistinta e avaloriale. Così si ricreano moderni ghetti, dove gli uomini che scelgono di essere se stessi, di andare a fondo alla loro irripetibile individualità, di essere responsabili di se stessi e della collettività di cui sono parte, sono confinati e impossibilitati a dialogare costruttivamente tra loro. Così si evita di costruire un modello sociale basato sul diritto di essere se stessi, sul riconoscimento di ogni specifica individualità e sul legame costruttivo che si genera nell’incontro tra le alterità.
Questa concezione di identità sociale richiederebbe laicamente un’Europa che scaturisca «dal basso», da ciò che è più vicino all’individuo per come è, e non per come qualcuno la vorrebbe. Ecco la sfida dei nostri giorni: edificare un’Europa che faccia dialogare le cellule che, dopo la famiglia, più sono prossime ai bisogni, ai desideri e all’identità dell’uomo. E questi valori vanno ricercati nelle famiglie, nelle comunità, tra gli amici, nelle associazioni di volontariato, ovunque le persone siano legate, non dallo scambio di ricchezza o potere, ma dall’impegno reciproco, o meglio, da una più vasta causa comune.
In altre parole, dall’eterogeneità che descrive l’attuale quadro sociale e che molti non vogliono vedere, deriva una considerazione apparentemente paradossale: se si deve offrire un nuovo e originalissimo valore che serva da cemento per un’Europa realmente laica e multiculturale, esso non va cercato nella cultura - ovvero nella non cultura - della maggioranza, bensì in quella delle minoranze, in quel meraviglioso coacervo determinato dall’incontro delle «appartenenze» trasformate in nuovi operatori culturali e politici, in grado di dare al nostro mondo, nel suo insieme, nuovi motivi di omogeneità, di identità, di fiducia. Si tratta allora di costruire un modello sociale che riconosca come fondanti determinati valori e soprattutto determinati bisogni. E non c’è dubbio che il principale di questi bisogni è quello religioso.
Questo perché le religioni legano le persone le une alle altre e tutte insieme a Dio. Formano, in quanto espressioni di significato, comunità, creano unità, sistemi, entità uniche. È questo che le differenzia dalla politica. La differenza è la casa della politica, ed è ciò che la religione trascende. La religione lega in comunità, la politica media. Ed è proprio la religiosità, per questo suo tendere all’unità, che può permettere di vincere la sfida del vero pluralismo, della laicità, senza omologare «le appartenenze» ma rendendole la principale forma formans della società.
*Presidente Unione comunità ebraiche italiane
Come trovare l´equilibrio tra ragione e desiderio
JOAQUÍN NAVARRO-VALLS
Se c´è un pregio nel vivere in un mondo dominato dai media elettronici è che possiamo sapere sempre tutto di tutti. Apparentemente, almeno. È sufficiente fare una carrellata dei programmi televisivi pomeridiani per rendersi conto della totale esibizione che viene fatta di ogni aspetto personale ad un pubblico semplice e in un orario accessibile, senza alcuna inibizione.
Per quanto mi riguarda, non si tratta di lasciarsi andare a superficiali giudizi di disapprovazione verso qualcosa o qualcuno, ma soltanto riflettere su alcuni cliché che guidano l´attuale comportamento collettivo dove il dominio dalle emozioni e dai sentimenti è prevalente se non assoluto. Tanto che si ha l´impressione di assistere ad un ragionare non con la ragione ma con le emozioni e i sentimenti.
Si potrebbe dire che siamo di fronte ad un fenomeno di attualità, se non fosse per il fatto che tali atteggiamenti erano conosciuti bene anche in passato. La cultura greca, culla della nostra civiltà, ci offre un contributo ampio in merito alla questione. La scuola degli Stoici, per esempio, aveva considerato attentamente tutti quei modi di agire propriamente umani che si esprimono in una inclinazione naturale ed irrazionale verso un piacere. Impulsi, passioni, desideri, legati spesso tra loro, nascono dalla tendenza assolutamente fondamentale negli animali a conservare la propria vita e ad ottenere ciò che è necessario per la sopravvivenza della specie.
Nel caso dell´essere umano, però, le cose si complicano. È per questo che le scuole Cirenaiche, celebri per il loro culto dei piaceri, consideravano con molta attenzione e prudenza gli aspetti irrazionali che muovono l´uomo verso l´appagamento incontrollato dei bisogni elementari.
Epicuro affermava, in tal senso, che nel rapporto tra l´uomo e i piaceri subentra un aspetto tutto particolare, definibile con il termine moderno di "inquietudine". Il consumo di un piacere fine a se stesso si traduce quasi sempre in un "turbamento" dell´anima, perché l´uomo, al contrario degli altri animali, è spinto a trovare nel piacere stesso qualcosa di più della mera fruizione temporanea di una sensazione, qualcosa di riconducibile alla sfera spirituale.
Questo tipo di conclusione assomiglia a quella a cui era giunto il poeta simbolista Baudelaire: la sfrenata consumazione di un piacere produce alla fine soltanto una grande solitudine. Mi sembra, tutto sommato, un buon punto di partenza per capire l´uomo di oggi, le sue inquietudini, le sue amarezze. O almeno alcune di esse.
La considerazione degli istinti e dei piaceri non dovrebbe, infatti, accompagnarsi né alla loro condanna, né alla loro esaltazione, ma semplicemente ad una loro valutazione all´interno di un discorso antropologico complessivo, che tenga conto di tutti gli aspetti autenticamente umani, sensibili o intellettuali, emotivi o razionali che siano. Platone, davanti all´alternativa se le soddisfazioni passionali siano un bene o un male, rispondeva sempre con un esplicito "dipende". Perché nell´uomo il raggiungimento degli ideali più spirituali è affiancato sempre dalla dinamica del desiderio e della soddisfazione soggettiva. La cosa importante, in ogni caso, è non perdere la libertà che da la padronanza di sé e si alimenta da motivi razionali e non soltanto da impulsi emotivi.
La peculiarità specifica della persona umana è non soltanto quella di conoscere a che cosa tende ma di valutare il desiderio stesso. Questo distanziarsi dai sentimenti per giudicarli sta tra le cose che distinguono radicalmente "l´homo sapiens" da qualsiasi altra forma di vita, anche quella dei primati più evoluti. Ed è la caratteristica che permette al genus "homo" di diventare persona.
Ogni persona non può limitarsi soltanto a desiderare i cibi che mangia, o ad amare le cose che reputa belle, ma ha un desiderio di conoscere il valore di ciò che ama e di ciò che considera piacevole. Negare questo fatto sarebbe come ritenere che qualcuno potesse amare una persona senza mai averla conosciuta, oppure desiderare di guardare un quadro o di ascoltare una sinfonia senza sapere realmente di che cosa si tratta, che significato possegga, ecc...
È chiaro che il fatto stesso di avere dei desideri per l´uomo non equivale automaticamente a conoscere il valore di ciò che desidera, e, meno ancora, significa sapere perché desidera qualcosa. Ma una volta conosciuto l´autentico valore di una cosa, nessuno di noi sarebbe pronto a sacrificarne il possesso per una cosa ritenuta peggiore. Quando, infatti, ci rendiamo conto che la compagnia di una persona è migliore di quella di un mazzo di carte, è chiaro che preferiamo andare a cena con gli amici, piuttosto che rimanere da soli a fare un solitario.
Certamente, sappiamo tutti quanto sia difficile a volte rimanere razionali davanti alla forza dei desideri, perché questi sono capaci di produrre in noi, se non controllati, una immagine travolgente, distorta e alterata sia della realtà che di noi stessi. Tuttavia, come ha rilevato Spaemann, nell´uomo «gli atti del pensare, del preferire e del volere sono, esclusivamente nell´essere umano e non negli animali, delle variabili indipendenti» con cui è possibile «giudicare» e «guidare» i propri istinti e con cui è possibile anche liberarsi dal loro dominio.
Una visione umanamente equilibrata non può pertanto né fare a meno delle passioni, né farsi trascinare dalle passioni, ma dovrebbe giungere ad una armonia razionale e volontaria di se stessi che permetta di avere dei buoni desideri e dei buoni sentimenti, facendo in modo che le forze istintuali che permettono la sopravvivenza della vita non divengano strumento di distruzione.
Conoscersi è, in definitiva, lavorare sulle stesse tendenze istintive e su se stessi, per convogliare e finalizzare razionalmente la vitalità delle passioni a quanto è giusto volere per essere - sarebbe meglio dire, per diventare - persone umane.
Oscar Wilde, con il suo umorismo, ammetterebbe che questo esercizio è un lavoro quotidiano che può produrre nel comportamento di una persona «sensibili miglioramenti». E a cominciare a sapere qual è il valore delle cose. Oltre al valore di noi stessi.
Repubblica, 28 marzo 2007
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