18 marzo 2007
Rassegna stampa del 18 marzo 2007
LA LINEA DI RATZINGER
Ritorno della messa in latino Pronto il testo del Pontefice
Luigi Accattoli
CITTÀ DEL VATICANO — Il «motu proprio» papale che liberalizzerà l'uso del vecchio messale, cioè la «messa in latino» di prima del Concilio, potrebbe essere pubblicato entro Pasqua: il tempo «si avvicina» dicono in Vaticano, ma non c'è ancora la data. Qualcuno lo prevede per il 25 marzo e altri per il 5 aprile, Giovedì Santo, che non sembra un giorno adatto per un testo normativo, essendo destinato a grandi celebrazioni.
Oggi l'uso della vecchia messa dev'essere autorizzato dal vescovo che ne valuta l'opportunità, dopo la riforma non potrà essere negato quando lo chiedono almeno trenta fedeli. L'uso del vecchio messale era stato proibito da Paolo VI al momento della promulgazione del nuovo nel 1969, ma esso è stato costantemente rivendicato dall'ala tradizionalista cattolica, in particolare dalla «Fraternità san Pio X» fondata dal vescovo francese Marcel Lefebvre. Dopo la scomunica di Lefebvre e dei vescovi da lui ordinati nel 1988, Giovanni Paolo II promulgò un «indulto» che autorizza la vecchia messa su richiesta e a discrezione dei vescovi locali.
Benedetto XVI ( nella foto) vuole ora ampliare l'accesso al vecchio rito sia in vista del recupero dei lefebvriani alla «piena comunione», sia per un convincimento personale sulla possibilità che più riti possano convivere favorendo insieme il pluralismo e l'attaccamento alla tradizione.
Corriere della sera, 18 marzo 2007
Il "motu proprio" pubblicato forse il giovedì di Pasqua
Papa: torna la messa in latino
Sarà liberalizzato il rito tridentino caro a Lefebvre
CITTÀ DEL VATICANO - Potrebbe essere pubblicato il prossimo 5 aprile, giovedì di Pasqua e giorno in cui la Chiesa cattolica celebra il sacerdozio e l'eucarestia, il "motu proprio" del Papa sul recupero della messa in latino, quella preconciliare, con il rito tridentino che prevede il sacerdote dietro l'altare e non davanti. Si tratta dell'unico tipo di messa accettato dai seguaci del defunto vescovo scismatico Marcel Lefebvre e il documento pontificio aprirebbe senza dubbio la strada per una ricomposizione della frattura avvenuta negli anni Ottanta. Il "motu proprio", così si chiama una nota scritta di proprio pugno da un pontefice, è ormai pronto e la pubblicazione è considerata «prossima» da tutte le fonti vaticane. La data del 5 aprile, inizio del triduo pasquale, darebbe al documento un'enfasi e un'importanza del tutto particolari. Forse persino eccessive, dice qualcuno, perchè negli episcopati nazionali, e specie in quello francese, sono in molti a sollevare i dubbi sull'opportunità di liberalizzare la messa in latino. Non che adesso sia proibita: ma sono tanti e tali i passaggi burocratici e i placet da ottenere da parte dei vescovi locali che molti fedeli, a cui pure piacerebbe ritornare alle atmosfere sancite dal Concilio di Trento, vi rinunciano. Il "motu proprio" del Papa consentirebbe la celebrazione della messa in modo quasi automatico, se a richiederla è un gruppo di almeno 30 devoti.
I vescovi francesi, guidati dal loro presidente mons. Jean Pierre Ricard, non hanno nascosto un certo disagio di fronte alla prospettiva di perdere il controllo su un capitolo liturgico che ancora brucia in Francia, dove è forte il seguito della Comunità lefebvriana di San Pio X. Sono proprio la ritrosia di alcuni ambienti ecclesiastici cattolici e la necessità di limare e smussare ad aver ritardato finora l'uscita del documento papale. È d'altra parte evidente che il ritorno ad una spiritualità più legata alla tradizione millenaria della Chiesa è uno dei punti centrali del pontificato di Benedetto XVI.
Liberta', 18 marzo 2007
A Pasqua la Messa in latino
Dubbi dei vescovi transalpini sull’opportunità di liberalizzarla
CITTÀ DEL VATICANO — Potrebbe essere pubblicato il 5 aprile, giovedì di Pasqua e giorno in cui la Chiesa cattolica celebra il sacerdozio e l'eucarestia, il «motu proprio» del Papa sul recupero della messa in latino, quella preconciliare, con il rito tridentino che prevede il sacerdote dietro l'altare e non davanti. Si tratta dell'unico tipo di messa mai accettato dai seguaci del defunto vescovo scismatico Marcel Lefebvre e il documento pontificio aprirebbe senza dubbio la strada per una ricomposizione della frattura avvenuta negli anni Ottanta dello scorso secolo. Il «motu proprio», così si chiama una nota scritta di proprio pugno da un pontefice, è ormai pronto e la pubblicazione è considerata «prossima» da tutte le fonti vaticane. La data del 5 aprile, inizio del triduo pasquale, darebbe al documento un'enfasi e un'importanza del tutto particolari. Forse persino eccessive, dice qualcuno, perchè negli episcopati nazionali, e specie in quello francese, sono in molti a sollevare i dubbi sull'opportunità di liberalizzare la messa in latino. Non che adesso sia proibita: ma sono tanti e tali i passaggi burocratici e i placet da ottenere da parte dei vescovi locali che molti fedeli, a cui pure piacerebbe ritornare alle atmosfere sancite dal Concilio di Trento, vi rinunciano. Il «motu proprio» del Papa — secondo le anticipazioni che si sono rincorse negli ultimi mesi — consentirebbe la celebrazione della messa in modo quasi automatico, se a richiederla è un gruppo di almeno 30 devoti. I vescovi francesi, guidati dal loro presidente mons. Jean Pierre Ricard, non hanno nascosto un certo disagio di fronte alla prospettiva di perdere il controllo su un capitolo liturgico che ancora brucia in Francia, dove è forte il seguito della Comunità lefebvriana di San Pio X. Sono proprio la ritrosia di alcuni ambienti ecclesiastici cattolici e la necessità di limare e smussare ad aver ritardato finora l'uscita del documento papale. È d'altra parte evidente che il ritorno ad una spiritualità più legata alla tradizione millenaria della Chiesa è uno dei punti centrali del pontificato di Benedetto XVI. Anche nell'esortazione post-sinodale sull'Eucarestia, pubblicata lo scorso 12 marzo, papa Ratzinger ha auspicato un più ampio uso del latino e del canto gregoriano nelle liturgie. Nelle messe a carattere internazionale, ad esempio, il latino — ha osservato il Papa — servirebbe «ad esprimere meglio l'unità e l'universalità della Chiesa», pur lasciando in lingua nazionale la lettura, l'omelia e le preghiere dei fedeli. Tutto ciò — si chiedono alcuni — non rischia di mandare in soffitta la riforma liturgica di Paolo VI che introdusse gli idiomi nazionali, la presenza del sacerdote di fronte all'altare ed una maggiore partecipazione dei fedeli alla messa? «Nessuno vuole gettare ombre sulla riforma conciliare. Ci mancherebbe altro — ha spiegato il card. Angelo Scola martedì scorso nell'illustrare l'esortazione post sinodale di Papa Ratzinger — che certe indicazioni sul recupero del latino, del gregoriano, di spazi e momenti di silenzio propri della tradizione più antica dovessero creare nuove divisioni». Il desiderio di Benedetto XVI — ha aggiunto il porporato, patriarca di Venezia, «coglie la necessità di equilibrare meglio la dimensione orizzontale dell'assemblea eucaristica con quella verticale, derivata dal suo significato divino più profondo».
Il Tempo, 18 marzo 2007
Distribuita da stasera a Roma e Firenze, ha una presentazione del cardinal Ruini
Nel testo: non confondere "le altre forme di convivenza" con il matrimonio
CITTA' DEL VATICANO - Il Vaticano continua la sua offensiva contro il ddl sui Dico. Da stasera infatti, in tutte le parrocchie di Roma e Firenze verranno distribuiti ai fedeli volantini che riproducono una letteradel cardinale di Firenze, Ennio Antonelli, a difesa dell'istituto familiare. La lettera è accompagnata da una breve presentazione del cardinale vicario Camillo Ruini.
"La famiglia - si legge nel testo Ruini - è da tempo al centro dell'attenzione pastorale della diocesi di Roma oltre che di un ampio confronto sociale e culturale. Ho ritenuto perciò di fare cosa utile offrendo alle famiglie romane, tramite i sacerdoti impegnati nelle benedizioni pasquali, un testo scritto dal cardinale Ennio Antonelli per la diocesi di Firenze".
Nella lettera, scritta da Antonelli per i suoi parrocchiani, si legge che "la famiglia sta venendo privatizzata, ridotta a un semplice rapporto affettivo, senza rilevanza sociale, come se si trattasse soltanto di una forma di amicizia".
E ancora: "La famiglia fondata sul matrimonio è non solo una comunità di affetti, ma anche un'istituzione di interesse pubblico; e come tale va riconosciuta, tutelata, sostenuta e valorizzata dalle pubbliche autorità che hanno la responsabilità specifica di promuovere il bene comune. Non vanno confuse con la famiglia altre forme di convivenza, che non comportano l'assunzione degli stessi impegni e doveri nei confronti della società e si configurano piuttosto come un rapporto privato tra individui, analogo al rapporto di amicizia, per il quale nessuno si sogna di chiedere un riconoscimento giuridico. Le esigenze private possono trovare risposta nei diritti riconosciuti alle singole persone".
Repubblica, 17 marzo 2007
La strategia dei disarmati
Coraggiosa obiezione di coscienza
Gianfranco Marcelli
A Roma come a Lima. In termini deamicisiani, si direbbe "dagli Appennini alle Ande". Perché cambiano gli interlocutori, ma il messaggio rimane lo stesso. Quando è in ballo la salvaguardia della vita, la Chiesa, esperta e amica dell'umanità, non muta il suo linguaggio a seconda degli interlocutori. Così, a tre settimane dal discorso all'Accademia pontificia, nello stesso giorno in cui Benedetto XVI conferma al nuovo ambasciatore peruviano l'impegno dei cattolici a compiere la propria missione evangelizzatrice al servizio della verità, l'organismo vaticano diffonde una dichiarazione conclusiva del suo congresso sulla "coscienza cristiana a sostegno del diritto alla vita", per dare seguito al solenne appello del Papa alla mobilitazione.
La sintesi è agevole: quel forte grido di allarme risuonato nella Sala Clementina del palazzo apostolico è stato ben meditato; quell'invito a scuotersi e, ogni volta che occorre, a resistere non dovrà restare lettera morta. Attingendo in pari misura alle radici della fede e alle fonti della razionalità, i cristiani impegnati sul terreno del primo e principale diritto umano - quello di esistere a dispetto di ogni "potere" esterno - devono avere ben chiari lo spessore e l'urgenza del proprio compito. Una "mission" che può per altro essere facilmente compresa e rispettata dai responsabili della comunità civile e da ogni persona di buona volontà.
Per raccogliere la sfida c'è una condizione: non accontentarsi delle risorse spirituali e intellettuali acquisite, ma coltivare con cura la propria formazione, consapevoli che sulla trincea della vita le emergenze si moltiplicano e le minacce si fanno sempre più sottili. La coscienza cristiana dei credenti farà bene, insomma, a non presumere troppo di se stessa e a calibrare attentamente la qualità e le caratteristiche dei «molteplici attacchi a cui è esposto il diritto alla vita». Perché prima ancora del fronte giuridico e normativo, va soppesato e tenuto in considerazione il «contesto culturale» in cui siamo immersi e che mette a dura prova le capacità di resistenza.
Una volta irrobustita e resa salda, tuttavia, quella stessa coscienza sarà in grado di dispiegare tutti i mezzi utili per adempiere il dovere di difendere la vita. A cominciare dallo strumento cruciale dell'obiezione: una scelta che - si badi bene - non può essere circoscritta soltanto al mondo sanitario nelle sue diverse espressioni, ma coinvolge in pari misura quello giudiziario e la sfera politico-legislativa. Ben sapendo che il suo esercizio potrà esporre a duri conflitti con il potere costituito, ma anche e soprattutto con quegli ambienti che vorrebbero confinare gli attentati alla vita umana nel recinto soporifero della normalità.
Il documento dell'Accademia fa un esempio significativo, che sottopone alla sensibilità degli operatori dell'area medica, quello della cosiddetta "contraccezione d'emergenza", realizzata mediante le varie pillole del giorno dopo: di fatto, degli abortivi in potenza che scattano in caso di gravidanza incipiente. Obiettare in questo caso può risultare arduo, non solo dal punto di vista tecnico, ma proprio per le modalità di accesso e di impiego alle pratiche, che ne banalizzano la portata negativa.
Ma come già Papa Benedetto aveva sottolineato, la mobilitazione di quanti hanno a cuore la vita umana non dovrà avere solo carattere difensivo. Lo dimostra il richiamo finale del documento vaticano alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, dove si proclama la «libertà di pensiero, di coscienza e di religione», da garantire «nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti». Anche dare corpo e sostanza a questi principi è compito da adempiere con creatività e sollecitudine.
Avvenire, 17 marzo 2007
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