15 maggio 2007

La scomunica...


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"Repubblica" presenta uno speciale sulla storia e le ragioni della scomunica.
Parte, comunque, da un presupposto sbagliato e cioe' che i politici messicani siano stati scomunicati, cosa non vera, come abbiamo detto in piu' occasioni.

Raffaella


Quando la Chiesa mette al bando

Cosa c´è dietro il monito lanciato da benedetto XVI

Storia di una interdizione nel mondo cattolico e nelle altre religioni
L´espulsione dalla comunità ecclesiale e l´impedimento ai sacramenti


GIOVANNI FILORAMO

In un sermone predicato il 16 maggio del 1519 in occasione della lettura domenicale del giorno, il testo di Giovanni 16, 2: «Vi espelleremo dalle sinagoghe», Lutero, non ancora scomunicato, affronta di petto il problema degli aspetti degenerativi che l´istituto della scomunica, al pari delle indulgenze, aveva all´epoca assunto. Mezzo di pressione, in questo caso fiscale – per imporre alle popolazioni renitenti il pagamento delle decime – , mentre manifestava il potere della Chiesa e del papato sul corpo esteriore dei fedeli, esso rivelava nel contempo la sua impotenza di autentico vincolo spirituale, capace di legare nel profondo la comunità dei fedeli. Soltanto Dio, infatti, poteva introdurre e, dunque, escludere dalla comunione dei veri credenti.
Nella radicalità della sua critica all´istituto giuridico della scomunica, così come si era venuto configurando nella Chiesa medievale, il sermone di Lutero racchiude non soltanto le ragioni profonde della rottura confessionale che si consumava in quegli anni cruciali, ma, più in generale, gli elementi caratterizzanti del fenomeno generico, il bando da una comunità religiosa, di cui la scomunica costituisce una specie, per quanto significativa. Sottolineando la dimensione essenzialmente religiosa ma, prima ancora, squisitamente individuale di un atto che si sarebbe dovuto consumare nel foro interiore del singolo, tra il peccatore e il suo Dio, Dio di grazia e di giustizia, l´agostiniano Lutero metteva a nudo, indirettamente, la caratteristica fondamentale del bando, che, con le variazioni del caso, si ritrova anche in altre tradizioni religiose: l´esclusione dello scomunicato dalla "comunione" religiosa di appartenenza.
La situazione di pluralismo religioso in cui viviamo ci mette oggi nuovamente di fronte a un problema che sembrava appartenere al passato e che le analisi antropologiche, appiattendo troppo spesso la religione sulla cultura, tendono a sottovalutare: la centralità della comunità religiosa e dei diritti sacri che la reggono, tra cui rientrano le modalità, sanzionate sacralmente, dell´ingresso e dell´esclusione, i due fenomeni che ne stanno alla base. I conflitti che periodicamente emergono, sia nel caso di comunità islamiche sia di altre comunità religiose ormai ampiamente presenti anche nelle nostre città, relativi alla difficoltà di mediare tra esigenze comunitarie e normative dello Stato su campi scottanti come l´istruzione scolastica, i tempi e gli spazi sacri, il rispetto delle regole alimentari religiose nelle mense degli ospedali, delle caserme, delle scuole, l´ammissibilità di un abbigliamento religiosamente qualificato nei luoghi pubblici, culminano nel problema del bando. A prescindere ora dalle forme che assume, esso non è negoziabile, non può cioè, per la centralità che riveste nella identità del gruppo, sottoporsi a quelle forme di mediazione con il quadro giuridico statuale che possono essere ricercate in altri casi.
Al pari dei riti di ingresso, infatti, anche se con caratteristiche e logiche diverse, i meccanismi di esclusione, che culminano nel bando come modalità di allontanamento senza ritorno dell´escluso, costituiscono forme vitali di sanzionamento e legittimazione dell´identità corporativa della comunità religiosa. In quanto tali, essi sono rintracciabili in numerose religioni, fondate e regolamentate da un diritto sacro o, in sua assenza, rette da regole non scritte di tipo sacrale. Questa distinzione rimanda a sua volta, dal punto di vista comparativo, a una distinzione più generale tra due tipi fondamentali: quelle in cui la religione coincide con la cultura e l´ethnos di appartenenza, e quelle in cui, come le religioni profetiche, monoteistiche e di salvezza, l´identità della comunità acquista una sua specificità religiosa, fondandosi ad esempio, come avviene nel cristianesimo e nell´islam, sull´annuncio profetico e sulla rivelazione della volontà salvifica di Dio, che si rivolge a tutti gli uomini, favorendo la creazione di un vincolo comunitario che trascende le appartenenze etnico-culturali.
Anche se i meccanismi di esclusione possono, in questi due tipi di religione, coincidere, con uno spettro che può andare dalla confisca dei beni alla confisca del bene più prezioso: la vita, la logica soggiacente è diversa. Nelle religioni antiche, che noi chiamiamo pagane e politeistiche, e nelle loro continuità moderne, come le religioni indigene e tradizionali che non hanno conosciuto le trasformazioni indotte dalle missioni cristiane ed islamiche, proprio per la coincidenza tra vita politica, dimensione culturale e dimensione religiosa, in genere i motivi di esclusione coincidono con crimini socialmente riprovevoli (che noi saremmo tentati di definire "profani" o "secolari"), come l´omicidio o l´adulterio. Le colpe "religiose" più frequenti, che facevano scattare da parte dello stato o della città il decreto di espulsione del colpevole, comprendevano in genere varie forme di sacrilegio e cioè di violazione delle regole di purità e sacrali che regolamentavano la vita politica, come la bestemmia, lo spergiuro, la mancanza di rispetto nei confronti delle figure sacrali del sacerdote o del sovrano, la violazione delle regole sacrali connesse alla celebrazione di particolari festività. Naturalmente, queste regole di fondo variavano a seconda dei contesti culturali e del soggetto coinvolto: se un singolo o un gruppo o addirittura un´intera comunità. Così come variavano il grado e l´intensità dell´esclusione dalla vita della comunità: dal bando temporaneo, all´esilio, all´esclusione perpetua che, in una società antica, in cui un individuo tendeva a essere identificato e a identificarsi con la comunità di appartenenza, coincideva con la sua messa a morte sociale.
Le forme di bando introdotte dalle religioni del secondo tipo, fondate su di un nuovo concetto di identità e di appartenenza specificamente religiose, conoscono l´emergere di un fenomeno nuovo. Ora che l´individuo, convertendosi alla nuova fede, può scegliere di abbandonare la società e, con ciò, la religione di origine, egli può anche scegliere di abbandonare a un certo punto la religione a cui si è convertito. Una esclusione volontaria, che queste comunità religiose non hanno mai visto di buon occhio, considerandola a vario titolo un tradimento dell´unica fede vera e introducendo, in questo modo, nuove cause di esclusione specificamente religiose, dall´eresia all´apostasia, termine, quest´ultimo, che è diventato l´oggetto di specifiche regolamentazioni giuridiche, con relative pene e condanne, che possono in determinati casi arrivare fino alla morte. Nel contempo, esse hanno ripreso e adattato alla nuova situazione le forme tradizionali di esclusione, inserendole nelle rispettive tradizioni di diritto sacro e, a seconda del modo di confrontarsi con le sfide della modernità (indotte, ad esempio, dal diffondersi dei diritti umani), mitigando e contemperando le proprie esigenze identitarie con le più generali esigenze del diritto laico e dei suoi presupposti etici. Così, per non portare che un esempio, una religione come l´induismo, per un verso potenzialmente inclusivista e dunque poco incline ad escludere, per un altro, caratterizzato da una forte organizzazione gerarchica che per secoli ha escluso dall´identità religiosa e dunque sociopolitica i fuori casta, a partire dalla formazione dell´India nel 1947, in seguito ai processi di secolarizzazione e laicizzazione promossi dalla sua dirigenza politica e iscritti nella sua costituzione, ha dovuto rimettere in discussione questo secolare meccanismo di esclusione, con le conseguenze talora drammatiche che ne hanno segnato la storia più recente.


DALLE SCOMUNICHE INDIVIDUALI A QUELLE COLLETTIVE
Quel potere sovrano esercitato dai Papi

Celebri sono le scomuniche inflitte da Papa Gregorio IX all´imperatore Federico II di Svevia e da Paolo III al re d´Inghilterra Enrico VIII

AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI

Qualche settimana fa, l´accenno del papa all´Inferno suscitò sorpresa e provocò un dibatto. In questi ultimi giorni, è la parola scomunica a porsi in modo analogo al centro dell´attenzione pubblica, in seguito alla dichiarazione di papa Benedetto XVI secondo cui «chi vota a favore di leggi pro-aborto si autoesclude dall´eucarestia» (secondo la dichiarazione di padre Lombardi, portavoce del Vaticano). L´esistenza stessa del dibatto è interessante, perché né per l´Inferno né per la scomunica gli accenni del papa contenevano novità. Essi corrispondono cioè a quanto affermano i più recenti documenti ufficiali, il Catechismo o il Diritto Canonico. Ma il fatto è che da decenni, la scomunica si era fatta in disparte nei rapporti tra la Chiesa e il mondo dei laici, non sembrava cioè costituire una seria minaccia agli occhi di tanta opinione pubblica, grazie al progressivo affermarsi di valori come il dialogo interreligioso, la tolleranza e il pluralismo. Ed è forse per queste ragioni che il ritorno alla ribalta dalla parola scomunica ha suscitato le reazioni che si sono lette sui giornali di tutto il mondo. Come fu per l´Inferno qualche settimana fa.
Il recente dibattito ha permesso di ricordarci che cosa significa la scomunica. La quale pone sostanzialmente un fedele nell´impossibilità di celebrare la comunione, ossia l´Eucarestia. Perché l´Eucarestia è il Corpo di Cristo, che rappresenta la Chiesa. E la scomunica comporta una separazione temporanea dalla comunità ecclesiale.
Questo nesso, fondamentale, tra scomunica e Eucarestia, ha radici storiche antiche. Nel 1215, il concilio Lateranense IV decretò che i fedeli avevano l´obbligo di fare la comunione una volta all´anno, il giorno di Pasqua; e chi non si fosse comunicato in quel giorno si sarebbe autoscomunicato ipso facto. Mai prima di allora la scomunica era stata prevista in termini così generali nei confronti dei fedeli. Il decreto del 1215 fu generalmente osservato. Innumerevoli sono le visite pastorali medievali e moderne che segnalano la presenza di scomunicati (per non aver adempito all´obbligo pasquale) nelle parrocchie di cui descrivono la vita spirituale e la situazione del clero. Il loro gran numero dimostra che anche nel Medio Evo la frequentazione alla messa fu lungi dall´essere generale.
Insomma, dal Duecento in poi e per molti secoli successivi, la scomunica era una minaccia che poteva verificarsi annualmente. Il che fece nascere il desiderio di possedere un certificato per l´avvenuta confessione e comunione. Si dice che l´imperatrice Maria Teresa fosse particolarmente puntigliosa in questo.
In quei secoli del Medio Evo e dell´età moderna, sui fedeli incombeva un´altra minaccia, quella della scomunica collettiva, ossia dell´"interdetto". Agli abitanti di una città o di una diocesi le autorità religiose – il papa o il vescovo – potevano vietare di accedere ai sacramenti per un periodo indeterminato. La promulgazione dell´ "interdetto" comportava il divieto assoluto di organizzare celebrazioni eucaristiche. Le ragioni che spinsero papi e vescovi a ricorrere a questo tipo di scomunica collettiva erano di natura religiosa ma anche politica. L´interdetto era una decisione estrema che tentava di risolvere conflitti che sembravano insanabili. Si impediva però così di vivere una vita sacramentale a intere popolazioni che di fatto non erano sempre responsabili di tali conflitti. Famiglie aristocratiche, monasteri ed altre istituzioni ecclesiastiche ottennero sovente il privilegio di poter continuare a celebrare offici divini in caso di interdetto imposto dalle autorità ecclesiastiche.
Per secoli dunque, scomuniche individuali e collettive hanno ritmato la vita religiosa dell´Europa cristiana. Ma lo strumento della scomunica fu anche un´arma di grande importanza nei conflitti tra papato e sovrani. Celebri sono, ad esempio, le scomuniche inflitte da papa Gregorio IX all´imperatore Federico II di Svevia (morto nel 1250) e da Paolo III al re d´Inghilterra Enrico VIII (morto nel 1547). Federico II fu scomunicato per molteplici ragioni, politiche e religiose, che vanno dalla mancata Crociata all´edificazione di una colonia di Saraceni a Lucera, e così via. Enrico VIII fu scomunicato per avere fatto annullare dalla Chiesa anglicana il matrimonio con Anna d´Aragona e riconoscere ufficialmente il matrimonio clandestino con Anna Bolena. Due grandi artisti del Cinquecento – Federico Zuccari e Giorgio Vasari – illustrarono queste scomuniche in due stupendi affreschi, conservati a Caprarola (Palazzo Farnese) e nelle Sala regia del Palazzo Vaticano. Ambedue i papi che stanno scomunicando Federico II e Enrico VIII tengono in mano una candela con l´intento di gettarla fra la folla riunita sotto la Loggia delle Benedizioni in Vaticano. I due artisti illustrano una cerimonia reale, nel corso della quale il papa, accompagnato dai cardinali e dai prelati di curia vestiti di bianco, procedevano alla scomunica dei "nemici" e dei "ribelli" della Chiesa, gettando appunto candele tra la folla, che simboleggiavano le fiamme dell´Inferno. Il rito fu celebrato ogni anno il Giovedì santo per più di cinque secoli, dall´inizio del Duecento (all´epoca di Federico II) fino al tardo Settecento. Il grande scrittore francese Montaigne assistette al rito nel 1580 e ne offrì una descrizione precisa. Egli osservò che sul balcone della Loggia della Basilica vaticana era stato disteso un panno di colore nero durante la cerimonia, simbolo dell´Inferno. Intorno al 1770 il rito fu ufficialmente abbandonato. E´ vero che da almeno un secolo (Thomas Hobbes) la legittimità della scomunica di natura politica era stata messa in discussione. Da allora, la Loggia delle Benedizioni sulla facciata della Basilica vaticana non servì più a celebrare il rito di scomunica in contumacia dei ribelli della Chiesa ma ad accogliere esclusivamente la benedizione papale urbi et orbi, che il papa celebra ancor oggi quando viene eletto, nel giorno di Pasqua ed in altre circostanze particolarmente solenni.


Storie di anatemi e altre inquisizioni

La scomunica richiede forme terrificanti. Il vescovo scandisce l´anatema avendo intorno dodici preti che tengono in mano la candela che poi calpesteranno

FRANCO CORDERO

Anatema: il nome greco corrispondente, dal verbo "anatíthemi" (appendere), designa offerte votive, ad esempio le armi d´una battaglia vinta; variando una vocale i Settanta traducono così l´ebraico "hérem", parola sinistra. In Giosuè 6.17 e 21 indica la mattanza d´ogni anima viva a Gerico, uomini, donne, bambini, vecchi, buoi, pecore, asini (meno una prostituta, Rahab, che aveva ospitato spie ebree). I due significati coesistono nell´aggettivo latino "sacer": tale l´uomo consacrato agli dèi infernali; chiunque l´ammazzi rende ossequio al dio; finché resti vivo, nuoce alla comunità. Nel lessico cattolico "anathema sit" chi lancia, sostiene o condivide idee empie.
Vediamo due casi. Nella fosca dottrina agostiniana, imposta alla Chiesa romana da quella d´Africa, Dio tira i fili della vita psichica lasciando ai pazienti l´illusione d´essere padroni in casa loro: la storia cosmica (genesi, caduta, redenzione) è un colossale gioco autistico perché angeli e animali umani erano discriminati ab aeterno, alcuni salvi, in malora l´enorme resto; i piani includevano peccato d´Adamo e lue genetica. Corre l´anno 418, primavera, quando 214 vescovi del XVI concilio cartaginese scomunicano Pelagio, monaco britanno, fautore d´un cristianesimo d´alta tensione morale, e l´allievo Celestio. A proposito d´uno dei nove anatemi ivi formulati, sant´Agostino vitupera l´idea "folle" che i bambini morti senza battesimo sfuggano all´inferno: ma il guignol dei neonati in pasto al diavolo non entra nelle raccolte romane o ne esce presto; poi dottori meno efferati escogitano il limbo, luogo d´una malinconica felicità naturale; infine, anno Domini 2007, dettati conformi ai tempi lo svuotano traslocando gl´inquilini in paradiso. Gran testa quel retore fenicio ex manicheo, convertito a Milano, vescovo d´Ippona, autore d´una psicanalisi ante Freud: ha scoperto la causalità psichica, altissimo merito scientifico; senonché chiama "grazia" l´impulso irresistibile inoculato dallo Spirito santo e in tale fantasmagoria l´assunto deterministico sviluppa paradossi ripugnanti alla cultura romana; Dio diventa orco. Da notare come abbia fondo ateistico l´umanesimo pelagiano. La Chiesa naviga come può, tra Scilla e Cariddi: condanna Pelagio, santifica Agostino, codifica l´impulso divino determinante, lascia credere alle anime tenere d´essere attive nella partita; insomma, balla sul filo della contraddizione. Il bianco è anche nero, dicono i canoni tridentini "de iustificatione" (sesta sessione, 13 gennaio 1547): "anathema sit" chi afferma che l´uomo possa salvarsi con le sue forze; o abbassa la grazia a fattore coadiuvante; o postula un´incipiente buona volontà interamente umana. Puro agostinismo ma i tre seguenti riabilitano sotto banco il monaco britanno: maledetto chi nega l´apporto umano al processo salutare o considera irresistibile l´impulso pneumatico o vede nell´uomo un automa. L´ortodossia configura uno stato onirico, sublogico, dove p e non-p siano egualmente vere: fiorisce una retorica del pastiche; solo così l´alchimia ecclesiastica diluisce conflitti dirompenti.
In sede antropologica il costo è rovinoso. Sotto qualunque insegna militino, gli ecclesiocrati professano un culto ateo del potere: il loro dipende da premesse non verificabili (il pianeta terra epicentro d´un romanzo divino culminante nell´Ecclesia triumphans; o l´imminente collasso dell´economia capitalistica e avvento d´una società armoniosa dove nessuno soffra nel lavoro alienato), perciò negano i fatti che le smentiscono; passato e futuro fluttuano, né vigono regole sintattiche; 2+2=5 o qualunque altro numero, secondo i dettami d´un soi-disant infallibile intelletto collettivo. Verità fluide. Mater Ecclesia, Partito, setta le definiscono in mercuriali quotidiane. Ora, non esistendo ancora un controllo genetico rigoroso, è affare arduo governare i cervelli frenandoli affinché pensino poco e siano pensieri innocui: l´indottrinamento avviene in forma capillare, dagli asili alle accademie; poi bisogna sorvegliarli, cogliere i devianti, dispensare cure o pene, donde spie, investigatori, consulenti, terapeuti, oracoli, apparati coattivi. La funzione crea l´organo: Tomás de Torquemada prefigura Heinrich Himmler o Andrej Vyšinskij, diligenti energumeni d´un lavoro efferatamente stupido, astuto però e ricco d´abilità pratiche, la cui massima è «al diavolo l´intelligenza»; dal filtro esce un personale direttivo adeguato al modello.
La scomunica richiede forme terrificanti. Le descrive Enrico da Susa, cardinale Ostiense (Summa aurea, metà del XIII secolo): il vescovo scandisce l´anatema avendo intorno dodici preti; tengono in mano "lucernas ardentes"; al punto culminante le sbattono in terra e calpestano.. Lo scomunicato finisce «cum diabolo et angelis suis, maledetto dalla «planta pedis usque ad verticem capitis». Sono inferno Lager e gulag. Meno brutali gl´interdetti borghesi ma altrettanto inesorabili. Guidati dall´istinto, praticano scomuniche anche i branchi, escludendo l´animale inidoneo alla vita gregaria. Nel mondo umano l´ordigno selettivo è in mano a gente uscita da selezioni perverse: teste piccole, talvolta maligne; gl´inquisitori figurano male nei verbali; Stalin sopraffà Trotskij; Martin Bormann divora i concorrenti. Vari segni indicano un´età dogmatica allo stato rinascente. Se i germi attecchiscono, quod Deus avertat, quanto lavoro porteranno al patologo del pensiero: concessa l´ipotesi d´un Creatore (sui gusti del quale è caritatevole chiudere gli occhi), non storpiamo i suoi pochi doni; tolto l´intelletto, cosa resta agli adamiti? Povere scimmie nude.

Repubblica, 15 maggio 2007

ah, poveri noi...

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