15 maggio 2007

Papa Ratzinger, il ritorno dell'Amore


IL PAPA DELLA SVOLTA

Il ritorno dell'Amore

di Sergio Belardinelli

Se rifiutiamo Dio, rifiuteremo anche l'Uomo

Due anni di pontificato non sono molti, eppure mi sembrano sufficienti per comprendere il filo conduttore che anima e, molto probabilmente, animerà il magistero di Benedetto XVI. La sua prima enciclica, i suoi discorsi, specialmente quelli di Regensburg e di Verona, tutto sembra voler richiamare soprattutto il «realismo inaudito» della figura di Gesù Cristo e, attraverso di lui, «l’interazione necessaria tra amore di Dio e amore del prossimo». Deus caritas est, appunto. Il comandamento dell’amore assunto come banco di prova della vita cristiana sia sul piano della vita individuale, sia su quello della comunità ecclesiale. Una prospettiva destinata ad avere un impatto notevole non solo all’interno della Chiesa, ma in tutta la cultura del nostro tempo. «Tutta l’attività della Chiesa - si legge nella Deus caritas est - è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo; cerca la sua evangelizzazione mediante la Parola e i Sacramenti, impresa tante volte eroica nelle sue realizzazioni storiche; e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana». Era dunque inevitabile che un tale amore dovesse impattare anche l’ambito della politica in generale e della giustizia in particolare. A questo proposito, pur ribadendo il principio dell’autonomia delle cosiddette realtà temporali, Benedetto XVI non manca di riaffermare anche il principio della «relazione reciproca» in cui vengono inevitabilmente a trovarsi fede e politica, Chiesa e Stato. A dispetto di coloro che, in nome di una malintesa laicità, vorrebbero una fede nettamente separata dalla politica e ridotta a fatto puramente privato, l’enciclica ci ricorda che c’è un «punto in cui politica e fede si toccano». Questo punto è dato dalla natura stessa dell’essere umano. Una natura che è tanto più razionale, quanto più fede e ragione, anziché porsi in antitesi, sono capaci di illuminarsi reciprocamente; una natura che è tanto più razionale, quanto più l’umana ragione, specialmente quando affronta questioni cruciali, quali la dignità della nostra vita o la giustizia, è capace di rimanere veramente aperta, di farsi, come dice il Papa, «purificare» dalla fede. È dunque a partire da questo punto che la fede, illuminando la politica sul senso della vera giustizia, la mette al riparo dal «pericolo mai totalmente eliminabile» di sottomettersi al potere fine a se stesso e di assecondare così una tentazione autarchica, che ne farebbe oltretutto il contrario di una politica veramente laica, liberale e democratica. Come viene ricordato da Benedetto XVI nella sua enciclica (un concetto ripreso anche nel discorso di Verona), «la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini della lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare».

In questo accenno alle «forze spirituali», indispensabili per una politica che voglia essere al servizio della giustizia, ma non riproducibili per via esclusivamente politica, si sente risuonare un motivo assai ricorrente nella riflessione del Cardinale Joseph Ratzinger. Con le parole di un autore a lui certamente noto, Wolfgang Boeckenfoerde, potremmo dire che lo Stato liberale di diritto vive di presupposti che da solo non è in grado di garantire. Il giusto funzionamento delle istituzioni liberaldemocratiche, nonché la consapevolezza dei loro limiti hanno bisogno di una cultura politica e di una coscienza morale difficili da mantenere se si perdono di vista i loro presupposti religiosi, diciamo pure certe «forze spirituali», capaci di tener vivo, nel mezzo della dialettica democratica ispirata al principio di maggioranza, il senso di qualcosa che vale incondizionatamente. «La domanda sull’incondizionatamente buono o sull’incondizionatamente malvagio - aveva scritto il Cardinale Ratzinger nel 2002 - non può essere elusa, se ci deve essere un ordinamento della libertà che sia degno dell’uomo». La stessa struttura argomentativa, tendente a far valere ciò senza di cui la politica rischia di chiudersi in se stessa, viene dunque riproposta da Benedetto XVI. In un certo senso, pur ravvisandone tutta l’importanza, è un po’ come se egli ci richiamasse la non autosufficienza, se così posso dire, del discorso sulla giustizia, spingendoci a guardare più lontano, a non dimenticare che quand’anche realizzassimo la società più giusta, non per questo avremo eliminato il dolore, la malattia, la solitudine, la morte. Come si legge nella Deus caritas est, «l’amore - caritas - sarà sempre necessario anche nella società più giusta. Non c’è alcun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo». La riflessione politica moderna non sembra invero molto sensibile a questo genere di argomentazioni. I suoi presupposti antropologici sono per lo più materialistici e individualistici, tendenti ora a ridurre l’umano al sociale, ora a separare nettamente e quindi astrattamente i due ambiti. Per questo essa si rivela incapace di rendere ragione della essenziale relazionalità e trascendenza dell’uomo, del fatto cioè che l’uomo è tale in quanto è essenzialmente in relazione (in relazione con Dio, col mondo, con gli altri uomini), senza essere mai riducibile alle sole condizioni sociali o biologiche della sua esistenza. La tendenza tipicamente moderna a ridurre la complessa dialettica sociale a una dialettica tra Stato e cittadino è in ultimo riconducibile a questo deficit di antropologia. Tuttavia dopo la tragedia dei regimi totalitari, stante il fenomeno della globalizzazione e la crisi del modello occidentale di welfare state, che sembra rendere sempre più drammatico, a livello nazionale e internazionale, il problema della giustizia; stante altresì la crisi culturale delle nostre liberaldemocrazie, strette tra la frammentazione individualistica, che rende sempre più difficile la percezione di un ethos comune, e la crescente egemonia di una cultura che, grazie al potere della tecnica, sembra voler trasformare qualsiasi desiderio in «diritto»; stante infine il magistero poderoso di Giovanni Paolo II, mi pare si possa dire che la questione antropologica stia riguadagnando il centro della scena. Ed è in tale contesto che va letta, a mio avviso, l’antropologia dell’amore che ci viene proposta dal magistero di Benedetto XVI.

L’uomo non è fatto per essere solo; per essere felice ha bisogno di amare e di essere amato; ha bisogno degli altri, i quali, proprio per questo, non rappresentano soltanto il «limite» della sua libertà o, peggio ancora, il suo «inferno», secondo la nota espressione di Jean Paul Sartre, ma la condizione, affinché egli possa vivere felice. Naturalmente l’uomo ha bisogno anche di giustizia, ma più ancora, lo ripeto, ha bisogno d’amore. Qualcosa del genere aveva intuito anche Aristotele, allorché nell’Etica Nicomachea raccomandava ai governanti di coltivare la giustizia, ma di tener d’occhio soprattutto l’amicizia, poiché «quando si è amici non c’è bisogno di giustizia, mentre quando si è giusti c’è ancora bisogno d’amicizia». In ogni caso l’essenziale caducità della vita umana è qualcosa che non può essere compensata totalmente né dallo Stato né dal progresso tecnico scientifico. Guai anzi a uno stato e a una scienza che dovessero perdere il senso dei loro limiti; diventerebbero infatti una forma di religione senza Dio e, di conseguenza, i peggiori nemici dell’uomo. Gli sforzi moderni di costruire una società più giusta, fatta di uomini capaci di riconoscersi reciprocamente, prescindendo dal riferimento a Dio, alla fine si sono rivelati un fallimento. Comunismo e nazismo, come aveva intuito Augusto Del Noce non furono soltanto «errori-orrori contro la cultura», ma anche e forse soprattutto «errori della cultura», la quale, per volersi emancipare dalla sua tradizione cristiana, alla fine si è trovata semplicemente in balia della barbarie. Per dirla con Nietzsche, ma nel senso opposto al suo, sembra che davvero dovevamo fare l’esperienza della distruzione dei valori cristiani, l’esperienza del nichilismo, per comprendere fino in fondo quale fosse «il valore stesso di questi valori». I grandi ideali moderni dell’autonomia e della libertà individuale, scardinati da qualsiasi ordine metafisico o, se si vuole, da qualsiasi ordine d’amore, si sono rivelati in molti casi come la semplice volontà dell’uomo di andare oltre se stesso (lo Uebermensch di Nietzsche, appunto). Ma a furia di seguire i grandi maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud e tanti altri) e la loro pretesa di smascherare le menzogne che si nascondono dietro ai «limiti» (etici e conoscitivi) che la ragione umana incontra sulla sua strada, abbiamo poco a poco impoverito la ragione e distrutto il senso stesso della realtà; non c’è più alcun mondo comune che possa essere concepito come la casa di tutti, né ci sono più gli altri uomini. Di qui la sollecitazione da parte di Benedetto XVI nel suo grande discorso di Regensburg a operare per un nuovo incontro «tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione», sapendo che «non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio».

A leggere queste parole in una cultura come la nostra, attraversata da tante inquietudini e ostinata a fronteggiare le molte sfide che ci troviamo di fronte con la convinzione che bisogna farlo «come se Dio non ci fosse», si ha una sorta di sussulto di gratitudine e di speranza. Quanto sta accadendo sul fronte delle tecnologie della vita, tanto per fare un esempio, mostra con eloquenza il rischio che, in nome magari di desideri spacciati per diritti o di una filantropia divenuta cieca rispetto a ciò che è veramente umano, si possano innescare processi che vanno contro l’uomo. Lo stesso si potrebbe dire delle discussioni virulente a cui assistiamo in tema di «laicità» dello Stato. Con pacatezza e fermezza Benedetto XVI ci ricorda invece che esiste un’inscindibile «unificazione dell’uomo con Dio». Ragionando «come se Dio non ci fosse», si potrebbe arrivare a ragionare come se non ci fosse nemmeno l’uomo. E il funzionalismo che domina sulla nostra società ne è forse la prova più eloquente. Proprio come auspicava Emile Durkheim, certamente uno dei padri del funzionalismo, stiamo subordinando l’elemento morale alle esigenze della vita sociale, mettendo così fuori gioco il senso stesso di qualcosa che valga e che obblighi incondizionatamente. Per dirla con le parole del sociologo francese, la nostra morale è diventata «plastica»; «Nulla è indefinitamente e incondizionatamente buono»; abbiamo una morale totalmente funzionalizzata alle esigenze della vita sociale. In linea di principio, quindi, anche l’uccisione di un innocente può diventare legittima, se si riesce a dimostrare, cosa sempre piuttosto semplice, che è per il bene della società. Il funzionalismo in effetti non conosce limiti; pone volta a volta, a seconda delle convenienze, alcuni valori di riferimento e a questi commisura tutti gli altri. Se, poniamo, si tratta in primo luogo di produrre merci a costi più bassi possibile, il funzionalismo non si cura più di tanto del fatto che ciò avvenga in condizioni quasi disumane, come accade ad esempio in Cina. Se, per fare un altro esempio, si tratta di abbassare i livelli demografici di una determinata popolazione, il funzionalismo, di per sé, non esclude che si possa fare ricorso, come in effetti accade, a pratiche di sterilizzazione coatta. Se, infine, si tratta di soddisfare un desiderio di maternità o di paternità, il funzionalismo è indifferente alle conseguenze morali della tecnica cui si fa ricorso, poiché ciò che conta è semplicemente il risultato. E si potrebbe continuare.

Mai come oggi, dunque, credo che sia opportuno dare rilievo al senso di qualcosa che nella nostra vita individuale e sociale obblighi «incondizionatamente». In una società sempre più funzionalizzata, che tende a espellere l’umano dalla vita sociale, il bisogno di un’antropologia che sappia rendere piena ragione dell’incommensurabile dignità di ogni uomo si intreccia con l’obbligo che abbiamo di realizzare condizioni di vita più umane e una maggiore giustizia sulla terra che condividiamo insieme ai nostri simili. «Ogni uomo è un pensiero di Dio», aveva scritto il Cardinale Ratzinger alcuni anni orsono. Benedetto XVI ci indica oggi la via antica e sempre nuova della fede nel Dio vivente, il «realismo inaudito» della persona di Gesù Cristo. E questo nella convinzione che, «partendo dalla prospettiva di Dio», di un Dio che è amore, la ragione possa essere liberata «dai suoi accecamenti» e perciò aiutata «a essere meglio se stessa» nonché a scoprire «il collegamento inscindibile tra amore di Dio e amore del prossimo».

Liberal n. 40 - maggio-giugno 2007

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