30 settembre 2008

Papa Luciani, dottrina rocciosa in un cuore di fanciullo (Osservatore Romano)


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Papa Luciani, dottrina rocciosa in un cuore di fanciullo

In occasione del trentesimo anniversario della morte di Giovanni Paolo I, il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, ha celebrato ieri nella basilica patriarcale di San Marco una messa in suffragio del compianto pontefice della quale pubblichiamo qui di seguito l'omelia:

"Di che cosa stavate discutendo lungo la via?" (Marco, 9, 33). Il Signore ha appena preannunziato ai Suoi la Sua passione, morte e risurrezione. Egli si sta decisamente incamminando verso questo evento drammatico e misterioso. E i discepoli? Rispondono con il loro silenzio imbarazzato di fronte alla Sua domanda perché erano perduti in una radicale superficialità. Discutevano "su chi fosse il più grande" (Marco, 9, 34). Sono lontani dalla logica dell'offerta implicata dalla loro vocazione e missione di apostoli. Questa domanda un "essere presi a servizio" del Regno di Dio (non un semplice servire). Allora Gesù, constatando che la predizione della Sua passione, morte e risurrezione era stata espressa invano, preso tra le sue braccia un bambino (in aramaico una stessa parola significa "bambino" e "servitore") "lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: "Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato"" (Marco, 9, 36-37).
Un bimbo, l'essere umano più indifeso, che per natura chiede di essere ricevuto e curato, diventa così l'efficace simbolo del Figlio di Dio: che "non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo la condizione di servo" (Lettera ai Filippesi, 2, 6-7). E l'abbassamento del Verbum-caro rivela lo sconfinato amore del Padre. L'onnipotenza di Dio si dimostra nell'impotenza del Crocifisso. Per libero amore, in Cristo Gesù, Dio si fa servo a favore di noi peccatori, per guarirci della nostra volontà di potenza. Servo, cioè oggettivamente umile come un bambino: "Chi accoglie uno di questi bambini accoglie me e, attraverso di me, il Padre" (Marco, 9, 37).
"Quando io dico: Signore io credo; non mi vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla mamma; si crede alla mamma; io credo al Signore, a quello che Egli mi ha rivelato" (Giovanni Paolo I, Udienza generale, 6 settembre 1978). Questa infanzia dello spirito che, come diceva san Leone Magno, non ha nulla in comune "con le goffaggini infantili" (Leone Magno, Sermo vii, 2) ci riporta direttamente alla figura dei poveri di Javhè ben incarnata nell'umile ragazza di Nazaret. Il riferimento a Maria, madre di Gesù e madre nostra, si addice in modo singolare a Papa Luciani. Egli non si limitò ad affermare che Dio è padre ma genialmente, fin dalla prima Omelia qui in San Marco - e quindi assai prima del celebre Angelus - parlò, con linguaggio nuziale, anche di Dio come madre. Albino Luciani ebbe una coscienza acuta dell'assoluta necessità del rapporto di paternità/maternità/figliolanza come condizione imprescindibile per l'educazione. Tutto il suo ministero, da Belluno fino al soglio di Pietro, ne è documento mirabile. E tutti noi percepiamo che nella vorticosa transizione dell'odierna società l'educazione è la prima indispensabile risorsa. Ma l'educazione è un'arte, non una tecnica. Poggia sulla cura amorosa del rapporto tra generazioni. Se non si genera a casa, a scuola, nella società non si educa.
Da qui ha origine la sapienza di Albino Luciani, dottrinalmente rocciosa e non priva di severità, ma sempre proposta con l'umile consapevolezza di chi sa di doverla continuamente invocare dall'alto e custodire come il bene più prezioso ("se la ricercherai come l'argento e per essa scaverai come per i tesori" [Prima Lettura, Proverbio 2, 4]). Indefessa fu la sua ascesi tesa al cambiamento di sé, attraverso un continuo lavoro di approfondimento delle ragioni del credere, che egli seppe comunicare al popolo come impareggiabile catechista. Ascesi, cioè pratica di obbedienza in prima persona. Profondamente segnato dalla sua origine, tutto operò per il popolo santo di Dio con appassionata dedizione per i più semplici.
Nell'Udienza generale del 27 settembre 1978 (poche ore prima di morire), dedicata alla carità, Giovanni Paolo I disse: "Amare vuol dire andare verso l'oggetto amato con la mente, col cuore. Lo dice anche l'Imitazione di Cristo: chi ama "currit, volat, laetatur", chi ama corre, vola, è lieto, gode. Allora, amare Dio vuol dire andare verso Dio col cuore. Viaggio bellissimo". Leggiamo in quest'ottica il transito di Albino Luciani che ormai è nella luce della santità canonica. Vediamo ora la sua morte, giunta in maniera repentina e del tutto inaspettata, come la conclusione di questo viaggio bellissimo, come la corsa di un uomo dal cuore di fanciullo che trova la sua pacificazione tra le braccia del padre. Del resto la Chiesa con sapienza ci farà, fra poco, pregare così: "La fiamma di carità ... alimentò incessantemente la vita di Giovanni Paolo I e lo spinse a consumarsi per la tua Chiesa" (Orazione dopo la comunione): è questa la cifra sintetica del suo brevissimo, ma straordinariamente intenso pontificato.
E cosa tocca a noi ora qui convenuti per la trentennale memoria del Servo di Dio? Nella sua Lettera a Gesù, l'ultima del celebre Illustrissimi, Albino Luciani afferma: "Ho scritto, ma mai sono stato così malcontento di scrivere come questa volta. Mi pare di avere omesso il più che si poteva dire di Te, di aver detto male ciò che si doveva dire molto meglio. C'è un conforto, questo: l'importante non è che uno scriva di Cristo, ma che molti amino e imitino Cristo. E, per fortuna - nonostante tutto -, questo avviene ancora".
Con l'ausilio della Vergine Nicopeia chiediamo di saper seguire solerti Gesù contemplando il volto di Albino Luciani per trarre conforto dai suoi insegnamenti.

(©L'Osservatore Romano - 29-30 settembre 2008)

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