25 settembre 2008

D'Agostino: "Il testamento c'è già: ora bisogna arginare e cambiare"


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CAPIRE LA VERA POSTA IN GIOCO

IL TESTAMENTO C’È GIÀ: ORA BISOGNA ARGINARE E CAMBIARE

FRANCESCO D’AGOSTINO

Le poche, ma dense parole che il presidente della Cei ha riservato al 'caso Englaro', inaugurando i lavori del Consiglio permanente, hanno suscitato – come era prevedibile – un forte interesse mediatico. In questo contesto, la reazione di Giuliano Ferrara, apparsa sul Foglio del 23 settembre, è quella che più ha destato meraviglia, per il suo carattere amichevo­le e rispettoso nella forma, ma particolarmente aspro nella sostanza. Ferrara, infatti, vede in quella del car­dinale una risposta intimidita e confusa alle istanze della cultura postmoderna e – cosa ancor più grave – un’acquiescenza al relativismo soggettivista, che af­fida alla volontà soggettiva delle persone la scelta in­sindacabile su come si debba morire.
Eppure, chiunque legga le parole esatte di Bagnasco si rende subito conto che esse in nulla e per nulla a­vallano l’interpretazione di Ferrara. Ma, per l’appun­to, si tratta di un’interpretazione, cioè di un 'proces­so alle intenzioni': e contro le interpretazioni non c’è prova testuale che tenga. Ferrara si è mosso come si muovono gli intellettuali, quando percepiscono una possibile frattura tra la realtà e i principi che essi han­no a cuore e vogliono difende­re (a volte generosamente, co­me è appunto il caso del diret­tore del Foglio). Tanto peggio per la realtà, essi allora conclu­dono. Bisogna salvare i princi­pi; il resto non interessa.
Non è così che ragionano i cri­stiani.
Non c’è dubbio che essi siano uomini attaccatissimi ai loro principi; ma non stanno al mondo solo per argomentarli e difenderli (questo è il compito dei filosofi e forse più in generale degli intellettuali), bensì per fa­re in mondo che i principi, non restando nel mondo delle idee, operino concretamente nella realtà. Il cristiano, prima anco­ra di giudicare (e condannare) il mondo, lo ama; lo ama, perché Dio lo ha amato per pri­mo creandolo, e tanto lo ha amato da incarnarsi, per salvarlo, in Gesù Cristo. Ecco perché la più bella icona di Gesù è quella del pastore (immagine che non a ca­so i vescovi attribuiscono a se stessi): il pastore è me­tafora di colui che ama e si prende cura delle sue 'pe­core', e non – per dire – di uno zoologo che si interes­sa di loro solo come oggetto di ricerca scientifica.
Dal cardinal Bagnasco, come pastore, non ci aspet­tiamo disquisizioni teologiche o analisi sociologico­culturali; questo è il compito che spetta ai teologi, ai filosofi, eventualmente allo stesso Bagnasco, ma in veste diversa da quella di presidente della Cei. Da lui, come da ogni 'pastore', desideriamo apprendere co­me il cristianesimo deve incarnare i suoi principi nel­l’esperienza umana, come deve farli operare all’in­terno della storia, farli rispondere alle esigenze del tempo. Il cardinale ha preso correttamente atto di un 'fatto storico', i pesanti interventi della magistratu­ra nella vicenda Englaro: un fatto dal minimo rilievo 'dottrinale', ma di notevole rilevanza bioetica e so­ciale. Un intellettuale può legittimamente rifiutarsi di leggere una sentenza, perché sa bene che non sono le sentenze a esplicitare ciò che è bene e ciò che è ma­le per l’uomo. Ma un pastore ha il dovere di farlo, per­ché il gregge di cui egli deve aver cura, non è menta­le o virtuale, ma è un insieme concreto di persone che vogliono un orientamento per la vita quotidiana (quel­la su cui incidono le sentenze della magistratura).

La Cassazione, con un’infausta decisione, ha di fatto introdotto l’istituto del testamento biologico (e per di più in forma anche verbale!) nel nostro ordinamen­to, alterando profondamente il principio etico e giu­ridico del rispetto assoluto che si deve alla vita uma­na. Dobbiamo cioè concludere che la pretesa che si debba riconoscere ai malati un vero e proprio 'dirit­to' a lasciarsi morire è ormai già presente, grazie alla Cassazione, nel nostro sistema.

A questo bisogna reagire: non certo per avallare ulte­riormente in forma di legge tale pretesa, ma per ne­garla espressamente, nel momento stesso in cui si ri­conosca (come aveva a suo tempo auspicato il Co­mitato nazionale per la bioetica) il diritto dei malati a depositare in forma scritta e rigorosamente garan­tita (e solo se lo ritengono opportuno) non un testa­mento biologico, non direttive vincolanti per i medi­ci, ma «dichiarazioni anticipate» su quali, tra i diver­si, possibili, leciti trattamenti sanitari di fine vita, es­si ritengano preferibili. Auspicando un intervento saggio e innovativo del le­gislatore, e indicando limiti inderogabili, il cardinale ci ha dato un esempio di come la dottrina debba es­sere difesa sempre attraverso il riferimento all’espe­rienza concreta; un esempio di quello che potremmo chiamare, usando un’espressione di Kierkegaard, un autentico 'esercizio del cristianesimo', prezioso per i cristiani e meritevole di attenzione da parte di tutti gli uomini di buona volontà.

© Copyright Avvenire, 25 settembre 2008

Quello che io trovo incredibile e' che in un Paese come l'Italia, culla (un tempo) del diritto, la magistratura si impadronisca di un potere che non le spetta: quello legislativo intriducendo istituti giuridici ed ampliando presunti diritti non disponibili.
E' pur vero che il compito della Cassazione e' interpretare le leggi anche alla luce dei "segni dei tempi" ma, nel caso Englaro, siamo andati molto, ma molto, al di la' della lettera della legge.
Per non parlare della sentenza, contraddittoria e non sufficientemente argomentata, della Corte di Appello di Milano.
Chi puo' dire oggi quale sia, oggi, la volonta' della ragazza?
E le testimonianze di terzi possono valere quanto la dichiarazione diretta dell'interessata?
E' chiaro che si e' creato un vuoto pericolosissimo che deve essere colmato. Come? Con una legge? Con altri provvedimenti? E' giusto parlarne.

R.

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