30 settembre 2008

Rémi Brague: "Cristianesimo, kit di sopravvivenza dell'umanità" (Osservatore Romano)


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Fede e democrazia in una società dove lo Stato ha rinunciato al compito di educare i cittadini

Un kit di sopravvivenza per l'umanità

Il 30 settembre a Roma, a Palazzo De Carolis, in occasione della presentazione dell'ultimo numero della rivista "Aspenia" - pubblicazione trimestrale di politica internazionale dell'Aspen Institute - si svolgerà un incontro intitolato "Il secolo delle fedi" al quale parteciperanno il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, Massimo D'Alema, deputato e presidente della Fondazione Italianieuropei, e Giulio Tremonti, ministro dell'Economia e delle Finanze.
Sul tema del rapporto tra fede e politica pubblichiamo integralmente uno dei saggi contenuti nella rivista.


di Rémi Brague

Ci sono solo due elementi reali, per ora almeno, in questa tendenza al "ritorno della religione". Da una parte la presenza di una religiosità diffusa, talvolta un po' insensata o decisamente perversa. Chiunque è pronto a riconoscere che la religiosità è una dimensione fondamentale dell'uomo. E quindi essa non "ritorna" ma sussiste, nonostante i teorici della "secolarizzazione". I grandi gruppi religiosi tradizionali, come la Chiesa, avevano almeno il vantaggio di piegare la cosiddetta religiosità al controllo della ragione, se non altro perché proponevano qualcosa che usciva dal contesto del gruppo ristretto, della setta, per assumere un valore universale. Oggi, le sette proliferano.
D'altra parte, è indubbio che stiamo assistendo a un ritorno del discorso sulla religione. Un tema considerato più o meno osceno negli anni Sessanta e Settanta, che oggi viene non solo tollerato, ma è addirittura onnipresente nei mass media. Se ne parla nei toni più vari, con entusiasmo o con disprezzo. Ma è comunque interessante notare che la religione entra a far parte del discorso politico e che i politici osano finalmente parlarne. Tuttavia, la domanda legittima è se questo ritorno non sia che un semplice elemento ornamentale, di cui alcuni amano fra l'altro servirsi a mo' di spauracchio. In effetti, a fungere da contrappeso al ritorno del discorso sulla religione c'è un aspetto che costituisce un sintomo inquietante: in molti Paesi vengono pubblicati saggi che assegnano all'ateismo funzioni militanti, se non addirittura aggressive. Sono scritti che attribuiscono infatti alla "religione" o alle "religioni" le colpe di tutti i mali possibili dell'umanità. Pensavamo che questi toni appartenessero alla propaganda nazista contro gli ebrei e i cristiani, oppure ai libri dei "senza dio" nell'ex Urss. Non per niente nazismo e comunismo, come regimi, erano entrambi ferocemente atei e hanno finito per essere enormemente più distruttivi delle "religioni". Nel loro caso, la letteratura di propaganda antireligiosa ha aperto la strada a persecuzioni molto concrete. Dobbiamo aspettarci qualcosa di simile in Europa? Non saprei. L'unica cosa di cui sono certo è che non dobbiamo dimenticare anche questo tipo di "ritorno".
Un'ipotesi interessante collega questi fenomeni a una crisi interna della democrazia, che finirebbe per negare se stessa. Come regime politico, infatti, la democrazia starebbe attraversando una crisi di identità. Ma questi concetti sono in realtà dei "contenitori", nei quali si può infilare tutto e il contrario di tutto. È quindi urgente un chiarimento.
Cominciamo dalla "democrazia". Si tratta di un regime politico che gli storici e i pensatori dell'antichità già conoscevano, a partire dall'esperienza della pòlis greca, delle aristocrazie mercantili dei fenici, di Cartagine e della Roma repubblicana. Esperienza alquanto breve, peraltro, poiché cedette subito il passo agli imperi: prima l'impero d'Alessandria, poi suddiviso in regni, quindi l'impero romano, che fu molto più longevo. I filosofi consideravano la democrazia una specie fra le tante, alla stregua dell'aristocrazia e della monarchia, nell'ambito dei buoni regimi.
La democrazia veniva distinta dai cattivi regimi, oligarchia e tirannia, ed era l'esatto contrario della sua forma corrotta, l'oclocrazia, il governo della massa più vile. Platone e Aristotele classificano la democrazia come il meno buono dei buoni regimi, o il meno cattivo dei cattivi. Churchill, che aveva studiato i classici, aveva forse in mente gli antichi filosofi greci quando pronunciò la famosa battuta sulla democrazia, definendola la "peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che abbiamo sperimentato finora".
La nostra esperienza dei regimi "democratici", nei quali abbiamo la fortuna di vivere, è ben diversa. Per esempio, il corpo sociale che ne è l'artefice, l'insieme dei cittadini, è ben più consistente di quanto non fosse in Grecia. I cittadini della pòlis greca erano di sesso maschile e di condizione libera. Donne e schiavi, come pure gli stranieri residenti, ne erano esclusi. Inoltre il voto, che per noi è il simbolo della democrazia, aveva un peso molto limitato. I magistrati molto spesso venivano scelti con un'estrazione a sorte. Tutte queste novità sono di origine stoica, e in seguito cristiana. "La democrazia è d'essenza evangelica", scrisse il filosofo dell'élan vital Henri Bergson. In realtà, le procedure di selezione dei governanti attraverso il voto vennero concepite nel Medioevo dagli ordini religiosi.
Ciò che in Grecia non esisteva, così come non esisteva nelle repubbliche italiane del Medioevo, ma che invece caratterizza la nostra epoca è l'esaltazione della democrazia. Esaltazione grazie alla quale ogni altro regime appare infausto, se non addirittura criminale.
Inoltre, il concetto di democrazia, specie nella sua forma aggettivata ("democratico"), forma che viene automaticamente valorizzata, va ben oltre la sfera politica. Oggi viene infatti utilizzata per qualificare ogni pratica, comportamento, atteggiamento umano che abbia come fine la ricerca della parità di condizioni e il rifiuto di qualsiasi distinzione tra individui. Tanto che potremmo addirittura parlare di "democratismo".
Bisogna però chiarire subito anche la nozione di "autonomia": l'autonomia della volontà individuale, infatti, è spesso considerata uno degli ingredienti della democrazia. In origine, autonomia significava la possibilità di autogovernarsi in base a leggi proprie. Se questo equivale a dire che la coscienza è l'ultima istanza decisionale, nulla da obiettare. Abelardo, nel xii secolo, insegna - e dopo di lui san Tommaso nel xiii secolo - che abbiamo il dovere di seguire la nostra coscienza, se siamo sinceramente convinti che essa ci intimi di fare qualcosa, e dobbiamo seguirla perfino nel caso in cui essa sbagli.
L'idea di autonomia diventa però pericolosa nel momento in cui viene intesa come capacità di decidere ciò che è bene e ciò che è male, e cioè di "creare valori", formula assurda, ma assai diffusa. È per questo motivo che gli autori medievali, fautori dei diritti della coscienza come ultima istanza, si affrettano a sottolineare che la coscienza ha l'urgente e rigoroso dovere di informarsi, di formarsi, di entrare in una dialettica che l'aiuterà a evolvere, superando i propri errori.
La coscienza è un po' come il gusto. Soltanto io posso dire se ciò che sto bevendo mi piace oppure no. E nessuno riuscirà a convincermi del contrario. Ora, è oggettivamente vero che una bottiglia di Chateau Margaux è molto meglio di una lattina di Coca Cola, sebbene non tutti siano in grado di percepire la differenza. Il gusto, inoltre, può essere educato, così come può essere corrotto, a forza di bere porcherie. È possibile che qualcuno mi aiuti a scoprire un buon vino. Ma l'unico modo per farlo è farmelo bere. È chiaro che quando sarò in grado di apprezzare ciò che è oggettivamente migliore, sarò pur sempre io a giudicare, ma i miei criteri si saranno affinati.
Il problema è che da qualche decennio a questa parte, lo Stato legislatore ha rinunciato a uno dei suoi compiti essenziali: educare i cittadini. In passato, le leggi non solo presupponevano una certa morale, ma al tempo stesso la promuovevano. Lo Stato assolveva a questo compito senza peraltro aderire a una morale specifica - ammesso che questa espressione abbia un senso. Semplicemente, cercava di garantire le condizioni di un ordine sociale soddisfacente, da cui esso stesso dipende.

Oggi, succede sempre più spesso che il legislatore pensi di essere sempre preposto al compito di registrare l'evoluzione delle mentalità, modificando le leggi in funzione delle oscillazioni della "domanda sociale".

Con questa espressione, il più delle volte si intendono gli slogan di gruppi di pressione, non necessariamente molto numerosi, i quali tuttavia pretendono di parlare in nome della società stessa. E quando tengono in pugno i media, riescono a far credere di rappresentare il pensiero della maggioranza.

In questo contesto, viene spesso citata la tesi di Ernst-Wolfgang Böckenförde. Il giurista tedesco, allievo di Carl Schmitt, che ha ricoperto le più alte cariche in ambito universitario e nello Stato, è un personaggio alquanto interessante, cattolico praticante e membro attivo del partito socialdemocratico. La sua tesi centrale si trova in un saggio di grande successo pubblicato quarant'anni fa. E consiste nel sostenere che lo Stato democratico vive di presupposti (Voraussetzungen) che esso stesso non è in grado garantire. Secondo Böckenförde, va trovata una legittimazione a tutto ciò che impone un obbligo; fra le varie fonti di legittimazione, la religione non è l'unica, ma una delle più importanti, poiché è quella che trasmette l'èthos nei rapporti tra cittadini, èthos in assenza del quale ogni forma di vita in comune sarebbe impossibile in un assetto liberale. È una tesi che mi pare assai profonda e feconda, alla quale tuttavia aggiungerei due elementi.
La situazione descritta da Böckenförde sembra avere, anzitutto, una portata più ampia. Il problema, secondo il costituzionalista tedesco, è che lo Stato democratico emette per così dire assegni a vuoto. Questo però è solo un caso specifico. Sfruttare risorse non rinnovabili è quanto i tempi moderni fanno sin da quando sono iniziati. Ma il progetto moderno ha funzionato finché si fondava sull'esistenza di quel soggetto sovrano che era l'uomo. Al principio era l'uomo cosciente della propria dignità dell'Umanesimo italiano. Poi, l'uomo padrone di sé di Cartesio e di Corneille, che partiva alla conquista della natura, secondo Francis Bacon. Poi era l'uomo dei Lumi, che considera l'"umanità" un valore e rivendica ovunque un atteggiamento "umano". Viene poi l'uomo industriale, fiero della sua conoscenza e delle sue conquiste tecniche, l'uomo del giovane Marx, "saldamente piantato sulla terra ben tonda".
Eppure noi, gradualmente, abbiamo smesso di credere nel valore dell'uomo. Questo cambiamento è accaduto nel xix secolo, ed è una storia che andrebbe raccontata. Una certa interpretazione delle tesi di Darwin ha tentato di farci credere che l'uomo non è altro che il prodotto del caso.
Nietzsche è stato il primo a concepire l'insufficienza dell'uomo, o quantomeno a proclamarla a gran voce con l'immagine del "super uomo": l'uomo è ciò che va superato, l'uomo così com'è non è capace di adempiere al ruolo che gli è stato assegnato. Pensate a tutti i sogni odierni per rifare l'uomo, Compresi gli incubi biologici... Questa dialettica, secondo cui l'umanesimo finisce per autodistruggersi, andrebbe presa sul serio.
Va aggiunto che la concezione che Böckenförde ha del ruolo della religione meriterebbe qualche sfumatura. La religione, per lui, è innanzitutto una fonte di doveri. Io invece penso che il problema sia ben più grave. Non si tratta di individuare dei limiti, degli argini. Si tratta piuttosto di trovare delle ragioni di vita. Noi pensiamo che il problema fondamentale sia di incanalare una vita che sgorga impetuosa e rischia di straripare. Questo forse è vero in alcuni casi. Ma, nell'insieme, la nostra vecchia civiltà è piuttosto stanca di vivere.
Due secoli addietro Hegel scriveva che esistono parole altisonanti - il Bello, la Religione, e così via - le quali fungono da esca per risvegliare la "voglia di mordere". Era già ironico allora. Mi domando però che cosa avrebbe detto oggi.
Il cristianesimo possiede una particolarità che in questa circostanza potrebbe rivelarsi utile. Ho dedicato un intero libro per tentare di enuclearla.

Il cristianesimo non difende una morale specifica. Si limita a quello stretto necessario che consente alla vita umana di continuare a vivere e di restare umana. Questo "kit di sopravvivenza" dell'umanità lo troviamo nei dieci comandamenti.

Ma anche nei pensatori pagani dell'antichità, in Cina, nelle Indie, a dire il vero un po' dappertutto. Non esistono regole morali prettamente cristiane. Come vivere lo sanno tutti, o possono saperlo. Ma perché vivere, perché scegliere la vita e, tanto per cominciare, perché dare la vita, sono interrogativi più complessi. È a essi che il cristianesimo fornisce una risposta.

(©L'Osservatore Romano - 29-30 settembre 2008)

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