2 novembre 2008
L'inno manzoniano per la solennità di tutti i santi: "Quando il poeta diventa teologo" (Inos Biffi per l'Osservatore Romano)
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L'inno manzoniano per la solennità di tutti i santi
Quando il poeta diventa teologo
di Inos Biffi
Nell'elenco dei dodici inni, che Alessandro Manzoni aveva progettato a commento delle principali solennità dell'anno liturgico, era anche contemplato un inno per tutti i santi, l'Ognissanti, che rimase tuttavia incompleto, mentre non vennero composti quelli per l'Epifania, l'Ascensione, il Corpo del Signore, la Cattedra di san Pietro, l'Assunzione e i Morti.
Il poeta lo inizia nel 1830, ma la stesura, già da subito, non deve averlo soddisfatto; di quella stesura eliminata resta soltanto il titolo, cui fanno seguito tre citazioni bibliche: "... in omnibus Christus. (Paul. Col. iii, 11); Multa quidem membra, unum autem corpus. (Cor. i. xii, 20); Omnes enim vos estis Unum in Christo Jesu. (Gal. iii, 28)", le quali concordano sul tema dell'unità del Corpo di Cristo, formato dalla molteplicità delle membra e, in questa prospettiva, una visione degli stessi santi contemplati in quest'unico Corpo.
Una lettera al figlio Pietro del 1847 indica che un terzo dell'inno è finito, ma gli raccomanda di non farne parola a nessuno. Di fatto sappiamo che il testo incompiuto fu letto da Rosmini. Più tardi, nel 1860, quattro sue strofe vennero pubblicate da Louise Colet, alla quale Manzoni stesso le aveva fatte conoscere, mentre il tutto vide la luce nel 1914.
Senza dubbio, per la sua incompiutezza non ci è possibile conoscere e gustare tutta la visione che Manzoni aveva concepito o ci avrebbe dato nell'interezza; e tuttavia le strofe che ci ha lasciato sono di una incomparabile bellezza di poesia e di teologia della santità cristiana.
Ripassano nelle quattordici strofe due categorie di santi: quelli che sono vissuti nel chiostro, quelli raggiunti dalla misericordia divina con la grazia della conversione, mentre considerata a sé, come incomparabile, viene al terzo posto la Vergine Maria.
La prima categoria rievocata da Manzoni è quella dei santi vissuti nella solitudine o che, com'è scritto da Manzoni in appunti sparsi, hanno serbato "i silenzi del cor". Con tutta l'intensità e l'ardore del loro desiderio essi hanno cercato Dio come si cerca il Sole, che, ancora velato dalle nebbiose ombre terrene - "ora vediamo in modo confuso", afferma l'Apostolo - li riveste adesso con la pienezza straripante e beatificante della sua luce nitida e splendente: "Cercando col cupido sguardo, / Tra il vel della nebbia terrena, / Quel Sol che in sua limpida piena / V'avvolge or beati lassù".
Il mondo, nella sua superbia, disprezza la santità fasciata dal silenzio - come dice la Scrittura: la "sapienza nascosta e tesoro invisibile" (Siracide, 20, 30) - quella dei contemplativi, degli anacoreti, degli asceti penitenti, dei mistici; al suo giudizio le virtù esercitate in solitudine, operosamente raccolte e gelosamente conservate, non appaiono meritevoli dell'onore degli altari, ma solo un patrimonio insignificante e infruttuoso: "Il secol vi sdegna, e superbo / Domanda qual merto agli altari / V'addusse; che giovin gli avari / Tesor di solinghe virtù".
La domanda va fatta al Creatore.
Dalla sua provvida cura, e a utilità degli uomini, sono certo venuti la spiga di grano, che alimenta la vita, le fibre per intesser le vesti, le erbe con virtù medicinali: "nell'erba del campo / La spiga vitale nascose, / Il fil di tue vesti compose, / De' farmachi il succo temprò".
E sempre per la creazione divina sono apparsi il pino, che non si piega al vento australe - "il pino inflessibile agli austri" - il salice che, condiscendente, si lascia piegare (lenta salix di Virgilio) - "docile il salcio alla mano"; il larice, che resiste alle intemperie invernali, come l'ontano resiste alle acque - "il larice ai verni, e l'ontano durevole all'acque".
E qui pare di scorgere il gusto di Manzoni esperto di botanica nel far passare e illustrare, in poetica e compiaciuta rappresentazione, erbe e piante, quasi connotati di qualità o risonanze morali: si pensi alla docilità del salice e, all'opposto, alla non flessibilità del pino.
Ma nel mondo non esistono solo creature di visibile e immediata utilità per l'uomo. Con "la spiga vitale", con gli arbusti per i tessuti e le erbe medicinali, spunta e si ritrova un fiore silenzioso, che parrebbe superfluo e creato vanamente. Eppure c'è ed è il Creatore che lo ha fatto apparire.
È quindi a lui che deve rivolgere la domanda chi disdegna come sterile e inservibile la santità dei solitari: "A Quello domanda, o sdegnoso, / Perché sull'inospite piagge, / Al tremito d'aure selvagge, / Fa sorgere il tacito fior, / Che spiega davanti a Lui solo / La pompa del pinto suo velo, / Che spande ai deserti del cielo / Gli olezzi del calice, e muor".
Mi sembrano, questi, i versi tra i più belli di Manzoni. Il "tacito fior" - ecco un'altra connotazione morale: la silenziosità - trova la sua unica ragione nello stesso suo Creatore: di fronte a lui quel fiore sperduto dispiega lo splendore dei suoi colori, e per lui effonde i suoi profumi; colori e profumi non risultano allora sciupati, poiché rallegrano lo sguardo di Dio e sono un piacere unicamente per lui. La breve vicenda di un fiore che sboccia, con le sue "spoglie lucenti", che spande "i fuggenti olezzi del calice" (Appunti sparsi) e che poi muore, poteva sembrare uno sperpero, e fu invece un atto di gratuita e pura adorazione.
Così è della santità: pur nascosta e lontana dai clamori e dagli elogi del mondo essa vale, perché gradita e preziosa agli occhi di Dio. E qui la poesia di Manzoni si trasfigura in alta e ispirata teologia.
La seconda categoria di santi cantata da Manzoni comprende coloro che sono giunti alla santità dopo aver conosciuto la gravità della colpa e averla espiata: per lungo tempo incamminati su strade oscure del male, vittime di piaceri ingannevoli e funesti, fatalmente in corsa verso un baratro, si sono mirabilmente trovati nel seno di una sconfinata misericordia: "E voi che gran tempo per ciechi / Sentier di lusinghe funeste, / Correndo all'abisso, cadeste / In grembo a un'immensa pietà".
Manzoni forse in questi versi pensava alla propria conversione, che egli circondò sempre di grande discrezione e riserbo, invitando a rendere grazie a Dio.
È difficile non essere profondamente toccati dai due ultimi versi: "Correndo all'abisso cadeste / In grembo a un'immensa pietà", che ci fanno pensare a quelli di Dante: "Ma la bontà infinita ha sì gran braccia / che prende ciò che si rivolge a lei" (Purgatorio, ii, 122-123).
Tutto portava a pensare che l'abisso dell'inferno e della dannazione avrebbe accolto quei peccatori, ma, per il miracolo del perdono, invece che in quell'abisso, essi si ritrovarono nel tenerissimo abbraccio dell'infinito amore divino. I convertiti santi, ma pensiamo anche a tutti i convertiti, come l'Innominato - e in realtà tutti i santi - sono frutti della pietà di Dio.
A somiglianza delle acque sotterranee che, dopo tortuosi percorsi, finalmente trovano la via per erompere e sboccare in un limpido zampillo - in "lucido sgorgo" - essi, ormai purificati, sono risaliti, raggiungendo la vetta della santità; e segnati dalla contrizione e dal coraggio, alimentano nel pianto per le colpe passate l'audace tensione a nobili propositi: "Sorgeste già puri, e la vetta, / Sorgendo, toccaste, dolenti / E forti, a magnanimi intenti / Nutrendo nel pianto l'ardir".
Né essi devono nascondere pudicamente le ferite lasciate in loro dai peccati trascorsi: quelle ferite recano l'impronta di Dio che le ha rimarginate; quella memoria "costituisce una promessa di salvezza e la prova del potere e della bontà di Dio" (Valter Boggione): "Un timido ossequio non veli / Le piaghe che il fallo v'impresse: / Un segno divino sovr'esse / La man, che le chiuse, lasciò".
La terza parte del canto è tutta riservata a Maria, che "non ha avuto bisogno del perdono perché ebbe intatta la bellezza della natura umana, quale Dio l'aveva donata ad Adamo: non fu toccata "prima" dal peccato originale e neppure "poi" dal peccato attuale: qui sta il capolavoro dell'"Amor che tutto può"" (Giovanni Colombo).
Nelle tre brevi strofe che concludono il canto il poeta mostra di aver colto con acuta precisione il senso del dogma dell'immacolata: Maria non fu purificata dalla colpa, ma è tornata al cielo - ed è il dogma dell'Assunta - adorna della grazia nella quale era stata concepita e che precedette ogni remissione. Come canta la Chiesa: Tota pulchra es Maria, et macula originalis non est in te.
Questa innocenza non fu, tuttavia, un merito della Vergine, ma il gratuito dono dell'Amore divino onnipotente: "Tu sola a Lui festi ritorno / Ornata del primo suo dono; / Te sola più su del perdono / L'Amor che può tutto locò".
Maria è salutata dall'angelo come colei che fu da sempre l'immensamente amata.
Per questo non venne contagiata dall'insidioso e avverso Serpente: "Te sola dall'angue nemico / Non tocca né prima né poi".
Soltanto su noi egli riuscì indecentemente vincitore: "(...) appena su noi / L'indegna vittoria compiè". Secondo la profezia della Genesi, il suo capo orgoglioso fu invece schiacciato dal piede incontaminato della Vergine: "Traendo l'oblique rivolte, / Rigonfio e tremante, tra l'erba, / Sentì sulla testa superba / Il peso del puro tuo piè".
La descrizione di rara efficacia di quell'"angue nemico" che, turgido e spaventato, sopravviene sinuosamente tra l'erba, richiama il verso virgiliano: latet anguis in herba (Bucoliche, 3, 93), e quello dantesco: "Occulto come in erba l'angue" (Inferno, vii, 84), e l'altro: "Tra l'erba e' fior venìa la mala striscia, / volgendo ad ora ad or la testa, e'l dosso / leccando come bestia che si liscia" (Purgatorio, viii, 100-102).
Così Manzoni, di là dalla santità dei contemplativi e da quella dei santi penitenti, ha ritratto l'innocenza di Maria, modello di tutta la santità cristiana, ancora una volta mostrando la sua luminosa dottrina mariana e la fervida devozione alla Vergine, di cui sono cosparse la sua poesia e la sua prosa.
Ognissanti
... in omnibus Christus. (Colossesi, III, 11)
Multa quidem membra, unum autem corpus. (1 Corinzi, XII, 20)
Omnes enim vos estis Unum in Christo Jesu. (Galati, III, 28)
Cercando col cupido sguardo,
Tra il vel della nebbia terrena
Quel Sol che in sua limpida piena
V'avvolge or beati lassù;
Il secol vi sdegna, e superbo
Domanda qual merto agli altari
V'addusse; che giovin gli avari
Tesor di solinghe virtù.
A Lui che nell'erba del campo
La spiga vitale nascose,
Il fil di tue vesti compose,
De' farmachi il succo temprò,
Che il pino inflessibile agli austri,
Che docile il salcio alla mano,
Che il larice ai verni, e l'ontano
Durevole all'acque creò;
A Quello domanda, o sdegnoso,
Perché sull'inospite piagge,
Al tremito d'aure selvagge,
Fa sorgere il tacito fior,
Che spiega davanti a Lui solo
La pompa del pinto suo velo,
Che spande ai deserti del cielo
Gli olezzi del calice, e muor.
E voi che gran tempo per ciechi
Sentier di lusinghe funeste,
Correndo all'abisso, cadeste
In grembo a un'immensa pietà;
E, come l'umor, che nel limo
Errava sotterra smarrito,
Da subita vena rapito
Che al giorno la strada gli fa,
Si lancia e, seguendo l'amiche
Angustie, con ratto gorgoglio,
Si vede d'in cima allo scoglio
In lucido sgorgo apparir,
Sorgeste già puri, e la vetta,
Sorgendo, toccaste, dolenti
E forti, a magnanimi intenti
Nutrendo nel pianto l'ardir,
Un timido ossequio non veli
Le piaghe che il fallo v'impresse:
Un segno divino sovr'esse
La man, che le chiuse, lasciò.
Tu sola a Lui festi ritorno
Ornata del primo suo dono;
Te sola più su del perdono
L'Amor che può tutto locò;
Te sola dall'angue nemico
Non tocca né prima né poi;
Dall'angue, che, appena su noi
L'indegna vittoria compiè,
Traendo l'oblique rivolte,
Rigonfio e tremante, tra l'erba,
Sentì sulla testa superba
Il peso del puro tuo piè.
(©L'Osservatore Romano - 1 novembre 2008)
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