9 marzo 2007

La forza della vita, la tristezza di una morte inutile...


Cari amici, credo di poter parlare a nome di tutti quando affermo che siamo tutti sconvolti per la morte del bambino sopravvissuto ad un aborto terapeutico e morto nella notte di mercoledi'.
La sua incredibile forza di vivere a dispetto di tutto e di tutti non puo' lasciarci indifferenti. Quel bimbo era perfettamente sano ma, a causa di una diagnosi poi rivelatasi errata, e' stato eliminato, ucciso, soppresso (quale participio passato dobbiamo usare?).
La vicenda e' tragica e nessuno di noi puo' permettersi di giudicare quei genitori che hanno deciso di scegliere l'aborto terapeutico. Penso che la loro sofferenza sia immane e, come tale, merita rispetto e silenzio.
Credo, pero', che la vicenda di questo povero bambino debba indurci ad una riflessione sull'aborto, sulla vita e sulla paura della nostra societa' riguardo ai figli non perfetti.
Mi viene in mente il discorso di Papa Benedetto XVI di sabato 24 febbraio 2007 (consultabile qui).
Il Pontefice ci ha ammoniti riguardo alla ricerca del figlio perfetto, della selezione genetica, di quella che oggi si chiama eugenetica (vedi rassegna stampa del 25 febbraio) ed ora questo piccolo bambino ci aiuta a capire quanta verita' sia contenuta nelle parole di Papa Ratzinger.
Non possiamo fare finta di nulla e occorre riflettere bene sui concetti di "prodotto del concepimento", embrione, feto e neonato.

Raffaella


Stasera a "Otto e mezzo", su La 7, ore 20.30, si parlera' della vicenda di Firenze.:

ABORTO TERAPEUTICO, UNA CASO CHE INQUIETA

Dopo la morte del bambino nato in seguito a una interruzione di gravidanza per ragioni terapeutiche, si è riaperto il dibattito sulla eccessiva medicalizzazione della maternità e la ricerca del figlio sano. Se ne parlerà domani, venerdì 9 marzo, a "Otto e Mezzo", in onda su LA7 alle ore 20:30.

Ospiti di Ritanna Armeni e Giuliano Ferrara, il cardinale Javier Lozano Barragan, Presidente del Pontificio Consiglio Pastorale per la Salute, Livia Turco, ministro della Salute, Alessandra Kustermann, ginecologa e responsabile diagnosi prenatale della clinica Mangiagalli di Milano e Marina Corradi di Avvenire.


Nel frattempo segnalo alcuni articoli de "Il Foglio":


Il cappio ombelicale
Genitori distrutti, medici costernati e impauriti, legislatori imbarazzati di fronte a un bimbo di venticinque centimetri che è vissuto abbastanza per mostrarci quanto era più forte di noi e della nostra povera idea di potenza
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Roma. Il bambino è morto, gli si è fermato il cuore. Un cuore piccolissimo, un figlio di mezzo chilo appena, lungo venticinque centimetri: aveva bisogno di altri quattro mesi per crescere, anche meno, aveva bisogno di nutrirsi ancora un po’ e di starsene tranquillo, nella pancia di sua madre. Quando l’hanno estratto, all’improvviso, ha provato a vivere ed è stato fortissimo per più di ventiquattr’ore, nonostante i polmoni incompleti, nonostante il freddo che fa qui fuori, e si è mostrato al mondo, sano e indifeso: hanno detto che piangeva, che quel cuore non smetteva di battere. Allora il medico che stava effettuando l’aborto, al Careggi di Firenze, ha chiamato un pediatra della terapia intensiva per rianimare il piccolo. Lo dice la legge. La 194: “Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto (…) il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”. Perché a ventidue settimane si può vivere, si può respirare, a ventidue settimane si è molto molto piccoli ma anche forti e si tirano i calci, così in questo caso l’aborto viene chiamato “terapeutico” e viene vincolato a un certificato medico che provi l’imminente e grave pericolo di vita della madre.
La madre era in uno stato di disperazione per cui nessuno psichiatra moderno le avrebbe negato la forzatura del certificato: aveva fatto il solito esame dell’undicesima settimana di gravidanza, si chiama translucenza nucale ed è un’ecografia molto approfondita che misura il rischio del bambino di avere sindrome di Down o altre malformazioni: fornisce percentuali, nient’altro. Pareva che ci fossero problemi. Allora lei ha fatto anche la villocentesi, esame accuratissimo e invasivo che ha dato risultati rassicuranti: tutto a posto. Ma il dubbio aveva preso vita: si insinua in ogni pensiero ogni notte ogni giorno, e l’idea di un figlio non perfettamente sano è, definitivamente, non più accettabile, inascoltabile. L’ecografia della ventesima settimana è stata terribile: non si vedeva lo stomaco. Forse le hanno persino detto, con le facce scure, che in un bambino su cento lo stomaco è invisibile e non significa nulla, che la scienza non è esatta e che la vita è invece sorprendente, ma ormai era tutto perduto. Le hanno spiegato che suo figlio poteva avere l’atresia dell’esofago, una malformazione curabile chirurgicamente che colpisce un bambino su 3.500, e lei a quel punto era certa si trattasse del suo bambino. Un’altra ecografia la settimana dopo, e di nuovo lo stesso risultato. Non ha nemmeno voluto fare la risonanza magnetica, non ha voluto aspettare più. E’ corsa da un chirurgo esterno, un amico, che forse le ha lasciato immaginare scenari difficili, “la sofferenza del bambino”, o magari le ha solo dato i numeri (anche quel 97 per cento che guarisce bene), e comunque lei e il padre avevano deciso. Aborto. Via dal dolore, la diagnosi prenatale serve a questo: a fuggire dalla paura.
Adesso non ce ne frega niente dei carabinieri, della malasanità, dell’inchiesta, delle dichiarazioni politiche, dell’errore tecnico, di Livia Turco, di Ignazio Marino, dello psichiatra che ha firmato il certificato, delle colpe impossibili da dare, dell’ospedale che fa le condoglianze alla famiglia e giura che è stato fatto tutto il possibile per salvare il piccolo, dei titoli mostruosi sui giornali (“Sanità nella bufera per un aborto sbagliato”, la Stampa), non ce ne frega niente davvero ed è completamente devastante anche solo l’idea che adesso su quel bambino minuscolo si faccia un’autopsia. Quel
bambino che un momento prima di essere tirato fuori dalla pancia dava i calcetti, alla fine ha avuto anche un nome. I genitori avevano deciso di rinunciare a lui perché era un fardello troppo insopportabile l’idea della malformazione, ma poi hanno visto che era forte, vivo e sano (il fatto è che sono sempre più numerosi i bambini che sopravvivono all’aborto terapeutico, anche perché sono sempre migliori le tecniche di rianimazione: è la
scienza che va avanti e non solo nella diagnosi prenatale e nello studio dei geni, anche nelle possibilità di non morire, ma di questo non si tiene conto), allora hanno fatto il riconoscimento e gli hanno dato un nome. Di certo hanno sperato, gridato scongiurato che ce la facesse, e che facessero, i medici, qualunque cosa. Anni fa nello stesso ospedale c’era stata una bambina piccolissima, troppo prematura, ce l’aveva fatta. Il loro bambino no, è morto di notte. Con molto scandalo e moltissimo dolore di tutti, perché era sano. Se invece quell’esofago fosse stato anche solo minimamente malformato, ci si sarebbe potuti consolare, forse la notizia del tentativo di vincere la morte non sarebbe nemmeno arrivata. Ma era proprio il bambino che ogni madre desidera, e che ogni screening prenatale si augura di esaminare, solo che lo stomaco non si vedeva.
L’Osservatore Romano ha scritto della “lotta miracolosa” di questo bambino, e poi, però, ha scritto che “l’aborto è arrivato a compimento”. E’ andata così e non ci sono colpevoli da punire per sentirsi meglio.
I genitori sono distrutti per sempre, i medici costernati, impauriti, i legislatori imbarazzati ascoltano i neonatologi spiegare che sopra le ventidue settimane c’è ormai troppa speranza di vita per praticare ancora l’aborto terapeutico. La scienza ha rivelato ancora e ancora quanto è incerta e distratta, e il bambino è vissuto abbastanza per mostrarci quanto è stato più forte di noi e della nostra povera idea di potenza.

Annalena Benini

Il Foglio, 9 marzo 2007


Diagnosi per la cura, non per la selezione
Per don Colombo solo il fine terapeutico rende tollerabile l’errore
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Milano. Errore medico, errore della tecnica scientifica, errore umano. La cronaca recente ha fornito più di un esempio tragico di questo drammatico scacco della capacità umana. Si stigmatizza e non si drammatizza, il problema vero non è la caccia al colpevole. Ma non è nemmeno pura fatalità. Ma nell’inconcepibile tragedia di Firenze si intravvede qualcosa che va al di là della fallibilità umana e della fallibilità della medicina: “Nei casi di utilizzo di tecniche diagnostiche su cui grava un’elevata possibilità di errore, è più che mai necessario saper distinguere”, spiega al Foglio don Roberto Colombo, direttore del Laboratorio di Biologia molecolare e genetica umana della Cattolica di Milano: “Quando il fine della diagnosi è terapeutico, finalizzato a una terapia precoce, si può parlare dell’esistenza di un ‘errore tollerabile’. In quel caso, infatti, l’errore non porta necessariamente alla morte del feto. Molto diverso è quando il fine della diagnosi è, magari implicitamente, selettivo. Allora dall’errore può derivare la soppressione di una vita”.
C’è anche di più, secondo il professor Carlo Bellieni, neonatologo e docente di Terapia neonatale all’Università di Siena. Pur senza voler entrare nel caso specifico di quanto accaduto a Firenze, Bellieni sottolinea un aspetto che reputa decisivo: “In interventi abortivi terapeutici che si svolgono tanto avanti – dalla diciottesima, ventesima settimana in poi – noi sappiamo oggi che il feto avverte il dolore. Soffre. E di questo è giusto venga tenuto conto”. Bellieni, che è autore di un volume dedicato proprio alle capacità sensoriali della vita prenatale, “L’alba dell’io. Dolore, desideri, sogno, memoria del feto” (Società editrice fiorentina), rimanda al dibattito scientifico in corso da tempo a livello mondiale: “La rivista Pain Clinical Updates, organo dell’International Association for the Study of Pain (Iasp) ha dedicato un intero numero proprio alla sofferenza del feto. Nella comunità scientifica ci si interroga se sia necessario, o doveroso, sedare il feto prima dell’aborto fatto dopo la ventesima settimana. Negli Stati Uniti, una legge impone di avvertire la madre di questo fatto”.
Al di là di questo aspetto drammatico, il problema centrale resta però quello dell’utilizzo della diagnosi prenatale, e del quadro di riferimento bioetico e biomedico in cui queste pratiche vengono svolte. Diventa un problema più ampio. “Innanzitutto – sottolinea Bellieni – l’Italia detiene il record per quanto riguarda le diagnosi prenatali. Nel nostro paese la media è di sei-sette ecografie effettuate per gravidanza, quando nei casi normali ne basterebbe una, al massimo tre. E anche il ricorso a esami più invasivi e delicati, amniocentesi e altro, è elevato”. Bisogna interrogarsi sul motivo di questa pratica: “Il motivo è che è stata istillata nella popolazione una fobia del diverso, un vero terrore per la vita ‘imperfetta’. Nasce una mentalità per cui i genitori vogliono ricorrere a queste diagnosi per paura. Spesso a livello inconscio, ma prevale un’idea selettiva della nascita: l’idea di dover ricercare il figlio perfetto”.

Anche don Colombo concorda su questo aspetto. Anzi sottolinea che il problema grave è comunque quello che riguarda l’attuale sistema biomedico.
Infatti nella maggior parte dei casi la donna non è in grado di valutare dal punto medico, ed è facile che subisca un’influenza in un senso o nell’altro “e la cultura attuale fa sì che l’influenza vada, magari anche involontariamente, verso l’idea di selezionare la vita perfetta, scartando l’altra”. Tanto Bellieni che Colombo sottolineano la validità della diagnosi prenatale, “che è buona, come pure la cura in utero del feto”, afferma Colombo, “perché questo fa parte di una concezione terapeutica della medicina”. Del resto la legislazione ha da tempo riconosciuto il diritto della donna a ottenere le
diagnosi prenatali e anche gli ospedali come il Gemelli o il San Raffaele, dove pure non si pratica l’aborto, questi esami vengono regolarmente compiuti. Il problema è, piuttosto, quello di una concezione complessiva dell’esistenza e della salute “che è come un piano inclinato”, dice don Colombo, e che pende verso una concezione selettiva della vita: “Anche su questo dobbiamo accorgerci del dibattito etico e scientifico in corso nel mondo: l’eugenismo non è un rischio inventato da qualcuno, è un tema sotto gli occhi della comunità scientifica”.
Ma esiste, e in quale forma, la possibilità di sorvegliare, quantomeno, l’inclinazione del piano della “qualità perfetta della vita”?
E’ una questione anche di corretta impostazione medico-scientifica, dice Colombo, secondo cui la necessità di ricorrere a queste diagnostiche prenatali va vigilata nella sua finalità e verificata nella sua efficacia che purtroppo, come dimostra il caso fiorentino, è limitata. “Penso che l’unico modo per ottenere questi due risultati sia di enunciare e sviluppare all’interno del codice deontologico medico un principio chiaro: il principio di non ricorrere sistematicamente alla diagnosi prenatale in tutti quei casi in cui tale diagnosi non è utile”.
Ma quali sono questi casi? “In realtà, i casi in cui pratiche come l’amniocentesi sono necessarie sono soltanto due: l’esistenza di una storia genetica familiare positiva, che faccia ragionevolmente supporre la presenza di malattie diagnosticabili; oppure l’età avanzata della donna – dai trentacinque anni in su secondo il parere condiviso – poiché sappiamo che possono incorrere in questi casi maggiori rischi di malattie e malformazioni”. Limitare a questi casi il ricorso a diagnostiche invasive è anche un sistema non certamente per non sbagliare, ma per poter gestire l’effetto dell’errore, evitando che da esso discenda un male più grave.

Maurizio Crippa

Il Foglio, 9 marzo 2007


La guerra contro gli esseri più indifesi
Storie tragiche americane che spiegano il retroterra di Firenze, Careggi
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Roma. Oggi i liberal parlano di Bernard Nathanson come di un anziano paria, ma ieri era il loro beniamino, il medico che aprì la strada all’aborto legale e alla sentenza Roe vs. Wade che ne fece un diritto costituzionale. Nathanson ha eseguito il suo ultimo aborto nel 1978. In tutto, ne ha diretti 15 mila. Nessuno lo hai mai contestato nel merito, perché nessuno meglio di lui conosce l’aborto. Nel 1968 ha fondato la National Abortion Rights Action League. Nella sua clinica sono stati effettuati 60 mila aborti in un anno, dirigeva un’equipe di trentacinque medici. Sancì la propria abiura pubblica con un video che fece epoca, “The Silent Scream”, la storia di un feto e della sua eliminazione. Ronald Reagan lo trasmise alla Casa Bianca. E’ con sollievo che Nathanson ha accolto le parole di George W. Bush nel 2002: “La storia del nostro paese è la storia di una promessa di vita e libertà, inclusione e protezione per i senza voce e senza potere. Oggi estendiamo questa promessa ai membri più vulnerabili della società”. Quel giorno Bush firmò il Born Alive Infants Protection Act. Una legge con la quale per la prima volta si riconoscevano come “persone” i sopravvissuti alla tecnica abortista e si imponeva al medico di salvarne la vita. Un dovere contemplato dalla nostra legge 194: “L’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.
“Quella di Bush è stata una legge importantissima sebbene spesso aggirata” dice al Foglio Bernard Nathanson. “Vorrei che la Casa Bianca la rendesse ancora più chiara ed effettiva”. Bush firmò la legge a Pittsburgh al fianco di Gianna Jensen, una sopravvissuta ad aborto “terapeutico”. Nel 1977 il giudice della Corte suprema Clement Haynesworth stabilì, nel caso di un bambino sopravvissuto all’aborto, che “il feto in questo caso non è una persona da proteggere”. Morì dopo venti giorni. Due anni dopo, in Colautti vs. Franklyn, la Corte attribuì ai medici la libertà di determinare la “vitalità fetale”, conferendo loro un potere che andava oltre la Roe. Il giudice William Rehnquist dissentì dall’opinione di maggioranza. Quattro anni dopo ci fu il caso Planned Parenthood vs. Ashcroft. Il magistrato Lewis Powell in quel caso stabilì che un aborto “effettivo” doveva comportare un nuovo nato privo di vita. Sentenze che hanno aperto la strada alla tecnica dell’“aborto a nascita parziale”: il medico mette il feto in posizione podalica, afferra i piedi, porta le gambe fuori dell’utero e provoca il parto, estraendo il corpo del feto, tranne la testa. Si esegue un’incisione alla base del cranio, attraverso cui si fa passare la punta di un paio di forbici. Nel foro si fa passare un catetere, attraverso il quale viene aspirato il cervello e il contenuto della scatola cranica del feto. Per portare a termine l’aborto non resterà che estrarne la testa. Il feto deve uscire già morto dal ventre materno. Con una maggioranza trasversale, Bush nel 2003 firmò la legge che ha messo al bando l’aborto a nascita parziale.
La legge non è mai stata applicata dopo che sei Corti federali l’hanno giudicata incostituzionale. Quest’anno la Corte suprema dovrà pronunciarsi.
Durante un caso di aborto tardivo il giudice della Corte suprema del New Jersey, Maryanne Barry, stabilì che quel bambino con la testa fuoriuscita dal corpo della madre non è “nato”, è diverso da un bambino “voluto”. “L’aborto a nascita parziale non è aborto ma infanticidio” ci dice Nathanson.
“L’aborto è la separazione della madre dal feto entro venti settimane, qui siamo a trenta.
Ho conosciuto un medico che li esegue, sono degli infanticidi, è un atto di barbarie medica che una vera civiltà dovrebbe rifiutare.
La legge deve proteggere i deboli. Venticinque anni fa parlavo sempre di ‘procedura medica’ per gli aborti, la vita del nuovo nato era chiamata ‘vitalità fetale’ ed è da allora che si discute se il medico ha il dovere o meno di salvare il feto nell’aborto. Sono un medico, non un bioeticista, e un medico onesto sa che la vita è sacra e degna di essere salvata, sempre, durante ogni fase della gravidanza e a dispetto della precedente decisione di abortire della donna.
Pur ammettendo il fatto che una gravidanza non desiderata può creare gravi problemi, non è con la distruzione della vita che se ne troverà la soluzione”.
Il professor Hadley Arkes è stato fra gli ideatori della legge firmata da Bush. “La legge semplicemente ci invita a trattare questi nuovi nati alla stregua di tutti gli altri nati” spiega Arkes. “E’ come quando l’Amministrazione Lincoln decise di usare il termine ‘persone’ per tutti, bianchi e neri.
Lincoln una volta ha detto che ‘dando la libertà agli schiavi, garantiamo questa libertà agli uomini liberi’. In questo caso, garantendo le più elementari protezioni alla vita umana, stiamo assicurando un diritto per tutti, per i nati come per i non nati”. Al fine di mitigare gli effetti della Roe, sotto la quale sono eseguiti ogni anno un milione e mezzo di aborti, si parla di abbassamento del limite temporale, ragione per abortire, periodo di attesa, notifica ai genitori in caso di minorenne e restrizione dei luoghi dove praticarlo. Secondo Nathanson, l’America è pronta a rivedere la sentenza. “Servono limiti strettissimi alla possibilità di abortire. Sebbene io pensi che l’aborto non sia ammissibile in alcuna circostanza. Parlo da ginecologo, medico e ostetrico. Non esiste condizione medica che giustifichi l’aborto.
La morale, non solo cattolica, ci impone di salvaguardare sempre il bene più grande. Se l’utero avesse finestre, le donne fuggirebbero dalle cliniche. Non possiamo continuare questa guerra contro il più indifeso fra gli esseri umani”.
Giulio Meotti

Il Foglio, 9 marzo 2007

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