10 giugno 2007
"Gesu' di Nazaret": Don Silvio Barbaglia contesta l'articolo (scopiazzato) dell'Espresso
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Don Silvio Barbaglia, docente di scienze bibliche al seminario vescovile di Novara, contesta punto per punto che gli “errori” individuati nel libro di Benedetto XVI “Gesù di Nazaret” da Marco Damilano, in un articolo su “L’espresso” della scorsa settimana, siano veri errori.
Degli otto “errori” contestati, scrive, “se ne salva al massimo uno”: quello di p. 79 dove si afferma erroneamente sul piano filologico che “malkut”, sostantivo femminile ebraico che significa “regno, regalità, signoria”, è una “radice”.
Più che Damilano, però, don Barbaglia contesta Piero Stefani, noto biblista ed ebraista. È stato infatti Stefani a elencare per primo gli “errori” poi riportati tali e quali da “L’espresso”. L’ha fatto sul numero del 15 aprile 2007 della rivista cattolica progressista “Il Regno”, in una nota in calce a un suo commento al libro del papa.
Ecco il testo integrale della nota di Piero Stefani:
“Vanno inoltre segnalate, a motivo di un lavoro non esemplare dei due curatori dell’edizione italiana, Ingrid Stampa ed Elio Guerriero, varie imprecisioni, specie di carattere documentario e filologico, le quali tuttavia non comportano problemi interpretativi: confusione tra il monte Oreb e il monte Moria (o, in alternativa, tra Abramo ed Elia) a p. 51; sospetta non coincidenza tra Oreb e Sinai (p. 356); mancata distinzione tra il greco classico e quello della koinè a proposito della parola doxa (p. 62); la parola ebraica malkut presentata come una radice (p. 79); scelta di rendere più volte equivalenti le parole Dio e Signore (cf. per esempio «la regalità di Dio [YHWH]», p. 80 o «servo di Dio» per «servo del Signore», p. 381; si veda anche il caso particolarmente significativo di p. 368); uso di anacronismi come quello secondo cui Gesù entrò a Gerusalemme la «domenica delle palme» (p. 213; 272; 315; 335); scambio di un vocativo per un nominativo (p. 348, a proposito della parola epistàta); luoghi comuni, «un’asina - la cavalcatura dei poveri» (p. 105); confusione tra giudeo-cristiani e giudaizzanti (pp. 126, 145); sbaglio di genere per la parola sukkot presa come un maschile, p. 362; ecc.”.
Ed ecco la replica di don Barbaglia:
Lo svarione più eclatante sarebbe a p. 51, dove il papa avrebbe confuso il monte di Abramo, il monte Moria, con il monte di Mosè, l’Oreb. Il testo del papa dice: “Il ricordo può estendersi poi al racconto rabbinico secondo cui Abramo, sulla strada per il monte Oreb dove avrebbe dovuto sacrificare il figlio, non prese né cibo né bevanda per quaranta giorni e quaranta notti, nutrendosi dello sguardo e delle parole dell’angelo che lo accompagnava” (pp. 51-52). Damilano si mostra allibito per la confusione papale tra l’episodio di Genesi 22, il sacrificio di Isacco, e la storia di Elia che cammina per quaranta giorni verso il monte di Dio, l’Oreb in 1 Re 19. Che Abramo possa essere salito sull’Oreb in effetti pare cosa strana a tutti, ma non alla tradizione che ha redatto il testo originariamente ebraico dell’Apocalisse di Abramo, verso la fine del I sec. d.C., giunta a noi dalla testimonianza dell’antica Chiesa slava. Si tratta di un racconto midrashico che fonde insieme l’alleanza di Gen 15, il racconto del sacrificio di Genesi 22, il ciclo di Mosè al Sinai e il ciclo di Elia all’Oreb. L’angelo del Signore accompagna per il sacrificio Abramo fin sul monte Oreb lungo il cammino di quaranta giorni senza cibo e bevande (cfr. cap. 12). Quindi Abramo, secondo questa tradizione ebraica, va veramente sull’Oreb!
A p. 356, secondo Damilano, “il papa tedesco scivola sull’Oreb, per la seconda volta”. Infatti, papa Ratzinger, in riferimento ad una sorta di teologia sui monti nella Bibbia, afferma: “Sullo sfondo si stagliano però anche il Sinai, l’Oreb, il Moria – i monti della rivelazione dell’Antico Testamento, che sono tutti al tempo stesso monti della passione e monti della rivelazione e, dal canto loro, rimandano anche al monte del tempio su cui la rivelazione diventa liturgia”. Damilano ricorda a chi fosse ignorante in materia che, nella Bibbia, Sinai e Oreb sono lo stesso monte della rivelazione che ha due nomi diversi per diverse tradizioni, mentre il papa penserebbe che siano due monti diversi! Ma se si legge con attenzione il testo del papa egli non sta dicendo che con il Moria questi sono tre monti in tutto, in senso assoluto, ma che sono “i monti” che tengono insieme, da un punto di vista teologico, il significato della passione e della rivelazione e che rimandano anche al monte del tempio. L’Oreb è per Mosè solo il monte della rivelazione del nome (Esodo 3,12ss.) mentre sarà il Sinai a divenire per Mosè il monte della rivelazione e della passione (il dono della Legge e il peccato del popolo e la fatica dell’alleanza). Per Elia sarà l’Oreb il monte della passione e della rivelazione. Per Abramo sarà il Moria il suo monte della passione e della rivelazione. Ma la tradizione biblica in 2 Corinti 3,1 identificherà il monte del tempio (di solito il Sion) con il monte Moria, quello del sacrificio di Abramo. Nel tempio, inoltre, si legge ogni sabato la Torah di Mosè che è stata data sull’Oreb/Sinai, e per questo, nella liturgia, si ricollegano tutti e tre i monti (anche se erano fisicamente due) nelle figure di Abramo, Mosè ed Elia. L’approccio simbolico e teologico alle Scritture richiede una conoscenza profonda del testo che papa Ratzinger mostra di avere.
Alle pp. 213, 272, 315, 335 del libro, Damilano segnala che il testo del papa per ben quattro volte usa l’espressione “domenica delle Palme” quando dovrebbe essere risaputo che questa festa fu istituita dal cristianesimo parecchi secoli dopo. In tutti i testi richiamati il papa fa sempre riferimento al vangelo di Giovanni e, in specie al cap. 12. Solo il quarto evangelista ci permette di definire quel giorno in cui Gesù entrò in Gerusalemme mentre la folla con “rami di palme” gli veniva incontro gridando: “Osanna…”. Infatti, in Giovanni 12,1 si dice: “Sei giorni prima della Pasqua”. Ora poiché la Pasqua per Giovanni è collocata tra il venerdì sera e il sabato, l’indicazione cronologica di “sei giorni prima” cade tra la sera del sabato e la domenica, momento in cui è contestualizzata la cena a Betania in casa di Marta, Maria e Lazzaro. In Giovanni 12,12, introducendo la scena delle Palme si dice: “Il giorno dopo”, ovvero quella domenica! Quindi era davvero domenica. Al tempo di Gesù i giorni della settimana erano denominati tutti in relazione al sabato: primo giorno dopo il sabato (domenica), secondo giorno dopo il sabato (lunedì)… fino al venerdì che era chiamato invece “parasceve” del sabato, ovvero preparazione. Il papa per farsi capire anche da un lettore non ebreo, stando al testo di Giovanni, chiama quel giorno “domenica” e la determina per l’episodio noto con il segno delle palme.
Il fatto poi che non vi sia la maiuscola in “domenica delle Palme” mostra con chiarezza la volontà di segnalare non la solennità liturgica del cristianesimo, bensì l’evento decisivo di carattere messianico simbolizzato anche dalle “Palme” stesse.
Scambi di genere: a p. 362 si dice che la parola ebraica “sukkot” (capanne) è femminile e invece il papa la tratta come un maschile. A ben vedere il papa sta citando Daniélou che a sua volta cita Riesenfeld. Quindi occorrerebbe risalire alle fonti per vedere dove stia l’errore: nella versione italiana o nella citazione di Daniélou o nella citazione di Riesenfeld.
Scambi di declinazione: a p. 348 papa Ratzinger riporta il vocativo “epistàta” (maestro, insegnante, rabbino) invece del nominativo “epistàtes”. Se si va a controllare il testo si vede con chiarezza che il papa voleva citare esattamente il vocativo e lo fa usando virgolette e corsivo diversamente dai casi in cui vuole citare il nominativo, solo con virgolette. Il perché di questa eccezione è dato dal fatto che il termine ricorre nel Nuovo Testamento soltanto nel Vangelo di Luca e in tutto 7 volte e sempre al vocativo! Per sottolineare questo aspetto particolare, papa Ratzinger l’ha posto tra virgolette in corsivo. Il termine “Kyrios” (Signore) che Ratzinger richiama appena oltre è al nominativo (quindi senza virgolette) e ricorre 717 volte nel testo neotestamentario e di queste solo 124 al caso vocativo.
Luoghi comuni: a p. 105 ci sarebbe un’espressione da “fiaba bavarese” perché, commentando la citazione profetica di Zaccaria 9,9ss. il papa afferma: “Questa sua natura, che lo oppone ai grandi re del mondo, si manifesta nel fatto che egli giunge cavalcando un’asina – la cavalcatura dei poveri, immagine contrastante con i carri da guerra che egli esclude”. L’espressione “cavalcatura dei poveri” appare quindi “bavarese” per Damilano. Ma basta conoscere la letteratura esegetica al riguardo per verificare quanto il papa abbia fatto una scelta interpretativa molto attestata, che coglie il contrasto, nell’immagine, con la logica della potenza e della guerra. Cosa ci sia di “bavarese” in tutto questo proprio non si capisce.
A p. 62 del libro il termine “doxa” è tradotto con “gloria” che invece nel greco classico significa “opinione”. Vediamo cosa dice papa Benedetto XVI: “Questa gloria è, come indica il significato della parola greca dóxa, splendore che si dissolve”. Se si va a consultare gli studi di settore ci si rende conto che accanto ai significati di “opinione, stima, fama”, il termine dóxa, secondo gli studi di A. Deissmann e soprattutto di J. Schneider, può significare nel greco classico anche: “luce, splendore”. Il papa mostra evidentemente di conoscere più di altri questo significato.
A proposito di errori, nel libro del papa ce n’è comunque uno, incontestabile, non rilevato né da Stefani né da Damilano ma indicato in questo post di “Settimo Cielo” già il giorno dopo l’uscita di “Gesù di Nazaret” nelle librerie:
“Il papa non è infallibile: nel suo ultimo libro c’è un errorino”.
Nella prefazione al suo libro “Gesù di Nazaret” in vendita in Italia dal 16 aprile Benedetto XVI precisa:
“Non è assolutamente un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del ‘volto del Signore’. Perciò ognuno è libero di contraddirmi. Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell’anticipo di simpatia senza la quale non c’è alcuna comprensione”.
Ok. Ecco dove il papa può essere colto in castagna. Alla pagina 410 egli qualifica come “gesuita” l’esegeta americano John P. Meier, autore del poderoso studio in tre volumi “Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico”, edito in Italia dalla Queriniana.
In realtà Meier, che è docente all’università di Notre Dame, non appartiene alla Compagnia di Gesù, ma è un semplice prete incardinato nell’arcidiocesi di New York.
Il primo a far notare a Benedetto XVI lo sbaglio, con humour, è stato un collega di Meier, Robert P. Imbelli, professore di teologia al Boston College e anche lui prete di New York, nel blog della rivista cattolica “Commonweal”, in un post intitolato “Meier Magister” che prende spunto dal servizio di www.chiesa dedicato al libro del papa.
dal blog di Sandro Magister
Damilano...Damilano...Damilano...quanti errori!!!
Raffaella
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3 commenti:
magister deve sempre mettere legna sul fuoco della contrapposizione all'interno della comunità cristiana
gli errori segnalati sono ribattuti con un'acidità poco bella che ricorda il miglior politi e poi etichettare il regno come rivista progressista non è una cosa vera né simpatica
mah... sono perplesso...
perché bisogna sempre farsi del male da soli?
francesco
Mi dispiace, Francesco, ma non sono d`accordo con te. Chi mette legna sul fuoco è eventualmente chi, all`interno della comunità cattolica , crea e cerca la contrapposizione. Non penso che sia quello che abbia voluto la rivista il Regno con Piero Stefani, almeno lo spero.
Magister citando, don Barbaglia non fa che dare voce a chi rettifica, corregge chi pensava poter correggere il Santo Padre, apparentemente sbagliandosi.
Controverse di biblisti, esegeti, forse, ma non vedo perchè bisognerebbe dare spazio solo a coloro che criticano il Gesù di Nazaret del Papa.
Io mi sento di ringraziare e Magister e don
Barbaglia.
Quanto alla rivista Il regno, io non sono competente, ma effettivamente mi è stato detto che sono piuttosto , diciamo , indipendenti.
So anche che vi scrive uno dei più obiettivi e competenti vaticanisti, Luigi Accattoli.
Io sto leggendo la versione inglese del libro di Ratzinger e alcuni dei presunti errori non appaiono. Ad esempio 'malkut' viene definito 'word' ossia parola e non radice. Quindi Piero Stefani fa bene a prendersela con i curatori italiani, piuttosto che con l'autore. Inoltre, per ovvie ragioni linguistiche, non c'e' nessuno scambio di genere riguardante la parola 'sukkot'.
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