6 giugno 2008
Alle origini della teologia cristiana. E la nuova «philosophìa» sbocciò tra i barbari (Osservatore Romano)
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Alle origini della teologia cristiana
E la nuova «philosophìa» sbocciò tra i barbari
Pubblichiamo stralci di una delle relazioni in programma nel sesto Simposio europeo dei docenti universitari in corso presso la Pontificia Università Lateranense.
di Enrico dal Covolo
Il discorso di Paolo all'Areopago rappresenta per molti aspetti la prima "occasione ufficiale" dell'incontro tra il cristianesimo antico e la filosofia. Benché Paolo avesse accuratamente preparato il suo discorso, con citazioni e riferimenti mirati alla dottrina greca del lògos, l'esito finale fu comunque deludente: "Ti sentiremo un'altra volta", commentarono ironici gli Ateniesi, voltando le spalle all'oratore. Così il tentativo di Paolo rimase isolato, almeno in quella fase di maturazione e di avvio della nuova religione.
Si può avanzare a questo punto una domanda apparentemente banale, ma che in realtà costringe ad approfondire la questione dei rapporti tra fede e logos alle origini della Chiesa, mentre accompagna la lettura dei nn. 36-37 della Fides et ratio: quando inizia la teologia cristiana?
Non è facile rispondere a questa domanda. Si pensi anzitutto alla diffidenza dei primi cristiani verso il termine theologhìa, ai loro occhi talmente compromesso con il culto degli dèi, che ancora alla fine del ii secolo Melitone preferiva riferirsi al cristianesimo come philosophìa piuttosto che theologhìa: "La nostra philosophìa sbocciò tra i barbari", esordisce il vescovo di Sardi in un celebre frammento della perduta Apologia. E anche senza seguire le posizioni estreme di chi comincia la storia della teologia saltando a piè pari l'età patristica, bisogna riconoscere che gli inizi speculativamente più rilevanti vanno cercati ai margini dell'istituzione, se è vero che "gli gnostici furono i maîtres-à-penser del cristianesimo di quell'epoca, sia sotto l'aspetto teologico sia sotto l'aspetto esegetico" (Manlio Simonetti).
Ma per impostare la questione in modo soddisfacente, occorre precisare l'accezione di "teologia", a cui facciamo riferimento. Se non ci si riconduce pregiudizialmente a un concetto di teologia dotta, "scientifica", e comunque posteriore al periodo del Nuovo Testamento, allora si può affermare che la teologia cristiana nasce con il cristianesimo stesso, non dopo il Nuovo Testamento e l'età apostolica. Di fatto kèrygma originario e elaborazione teologica appaiono inseparabilmente intrecciati negli scritti canonici del Nuovo Testamento, come del resto negli apocrifi più antichi e nei Padri apostolici.
Così il "teologico" non è aggiunto o giustapposto al "kerygmatico", ma è interno a esso, di modo che non vi è frattura tra rivelazione e teologia.
Pertanto, fin dalle origini, gli scrittori cristiani non esitarono a utilizzare le categorie e i metodi della filosofia greca.
Ma quale filosofia? Esclusi gli indirizzi epicureo e peripatetico a causa della negazione della provvidenza, e a maggior ragione quelli scettico e cinico, non restavano che gli orientamenti "metafisici" del platonismo.
Scrive Raniero Cantalamessa in un lucido saggio su Cristianesimo primitivo e cultura greca: "I primi tre secoli vedono impegnati nel dialogo due mondi ancora entrambi vivi e autonomi, mentre più tardi, dopo la pace costantiniana, il paganesimo con la sua filosofia tenderà sempre più a diventare un fatto di sopravvivenza culturale".
Questo giudizio complessivo individua un arco cronologico ben definito per riflettere sul primo incontro del cristianesimo con la filosofia. Di fatto i primi tre secoli segnano il tempo di costruzione faticosa di un'identità culturale complessa del cristianesimo, in cui la primaria istanza religiosa ed esistenziale viene progressivamente strutturata nelle categorie filosofiche e linguistiche della cultura ellenistica imperiale.
Inoltre la periodizzazione evocata da Cantalamessa ci esime da una valutazione globale del rapporto tra platonismo e cristianesimo, poiché solo nel quarto secolo si manifesta appieno la facies platonica del cristianesimo: come è noto, tale rapporto segnerebbe un'inculturazione permanente del cristianesimo nella forma platonica.
Da parte sua, l'enciclica affronta questo problema nel n. 72 del sesto capitolo. "Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca - ammette Giovanni Paolo ii - non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci. Oggi, via via che il Vangelo entra in contatto con aree culturali rimaste finora al di fuori dell'ambito di irradiazione del cristianesimo, nuovi compiti si aprono all'inculturazione".
Così "problemi analoghi a quelli che la Chiesa dovette affrontare nei primi secoli si pongono alla nostra generazione". D'altra parte, però, "quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall'inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile eredità - conclude decisamente Giovanni Paolo ii - sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia".
Ma - per tornare ai primi tre secoli - la questione fondamentale da risolvere, per consentire un "dialogo a tutto campo" tra cristianesimo e cultura classica, era quella di fondare e giustificare il ricorso alla filosofia greca, e non era certo problema di facile soluzione. A prima vista, infatti, il dialogo tra la novitas cristiana e una filosofia, che comportava pur sempre l'ossequio alla religione olimpica, poteva apparire improponibile. Così, fin dai primi tempi, si riscontrarono, in seno al cristianesimo, due atteggiamenti diversi: quello dell'accettazione, ma anche quello del rifiuto.
Quello di un totale rifiuto, almeno apparente, ha la sua espressione più evidente in alcuni rappresentanti del cristianesimo africano e siriaco (come Tertulliano, almeno per alcuni suoi scritti, e Taziano), cioè di due aree estreme del mondo ellenizzato.
L'altro atteggiamento invece fu di grande apertura, di dialogo critico e costruttivo con la filosofia dei Greci. È l'atteggiamento iniziato da Giustino e sviluppato dagli alessandrini, soprattutto da Clemente. Qui il lògos dei Greci non solo non è rifiutato, ma è visto come propedeutico alla fede. È la teoria del Lògos spermatikòs di Giustino. Il suo significato è ben noto: quel Lògos, che si è manifestato profeticamente (in figura) agli Ebrei nella Legge, si è manifestato anche parzialmente sotto forma di semi di verità ai Greci. Ora, conclude Giustino, poiché il cristianesimo è la manifestazione storica e personale del Lògos nella sua totalità, ne consegue che "tutto ciò che di bello (kalòs) è stato detto da chiunque, appartiene a noi cristiani".
In questo modo Giustino, pur contestando alla filosofia greca le sue contraddizioni, orienta decisamente al Lògos qualunque veritas philosophica, fondando così dal punto di vista razionale la pretesa di verità e di universalità della religione cristiana.
Su questi presupposti si realizza tra la fine del ii secolo e la prima metà del iii una nuova occasione di incontro tra la fede e il lògos, dopo il "fallimento" dell'Areopago.
Ne furono protagonisti Clemente e Origene. Essi sono stati definiti in modo suggestivo "il Giano bifronte della "scuola alessandrina"". Clemente, infatti, guarda in una direzione culminativa del passato, mentre Origene è volto a un futuro differente. In particolare si può cogliere nei due alessandrini un modo diverso (e per molti aspetti complementare) di intendere il rapporto tra il cristianesimo e la filosofia.
Per Clemente la tradizione filosofica greca è, al pari della legge per gli Ebrei, ambito di rivelazione, sia pure imperfetta, del Lògos, che permette all'uomo di raggiungere i "semi" della verità. Per Origene, invece, la filosofia ha funzione prevalentemente strumentale, di attrezzatura concettuale per lo sviluppo dell'indagine teologica ed esegetica, che deve essere sempre verificata alla luce della rivelazione.
Inoltre per Origene - a differenza di Clemente - la distinzione dei gradi della conoscenza teologica non poggia tanto su ragioni intellettuali, quanto invece su ragioni morali e spirituali, su una sorta di tiepidezza nella fede, che impedisce il progresso gnoseologico proprio di una fede intensa.
In ogni caso, tutti e due gli alessandrini attingono generosamente alle categorie filosofiche del loro tempo "per elaborare una prima forma di teologia cristiana".
Così la Fides et ratio ammette il merito singolare di Origene nella storia della teologia: "Tra i primi esempi che si possono incontrare", scrive Giovanni Paolo ii a proposito dell'incontro tra il lògos dei Greci e il cristianesimo, "quello di Origene è certamente significativo".
A questo punto possiamo valutare la portata e le conseguenze della decisa opzione dei nostri Padri per la filosofia e il lògos.
È illuminante, a questo riguardo, una riflessione di Joseph Ratzinger, all'epoca professore di Teologia dogmatica nell'università di Tubinga. "Il paradosso della filosofia antica - scriveva nel 1968 in Introduzione al cristianesimo - consiste, dal punto di vista della storia delle religioni, nel fatto che essa con il pensiero ha distrutto il mito", senza peraltro accantonare del tutto la forma religiosa di venerazione degli dèi. Di fatto la religio tradizionale non batteva le vie del lògos, ma si ostinava su quelle del mito, pur riconosciuto dalla filosofia come privo di consistenza reale. Perciò il tramonto della religio era inevitabile: "Fluiva - spiega Ratzinger - come logica conseguenza del suo distacco dalla verità, che finiva per ritenere la religio una semplice institutio vitae, ossia un puro indirizzo e una mera impostazione di vita. Di fronte a questa situazione, Tertulliano ha delineato la posizione cristiana con una frase grandiosa, audace e incisiva: "Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine"".
"Penso - commenta ancora il futuro Pontefice - che questa sia una delle più grandi massime della teologia patristica. Vi si trovano infatti riuniti in singolarissima sintesi la lotta ingaggiata dalla Chiesa primitiva, e al contempo il perenne compito incombente sulla fede cristiana. All'idolatrica venerazione della consuetudo Romana, della "tradizione" dell'urbe, che faceva assurgere le sue abitudini consacrate a regola autosufficiente di condotta, si contrappone ora la rivendicazione esclusivistica della verità. Il cristianesimo veniva così a porsi risolutamente dalla parte della verità, accantonando per sempre l'idea di una religione che si accontentava di essere una mera configurazione cerimoniale, alla quale infine, battendo la strada dell'interpretazione, si riesce anche, faticosamente, a dare un senso".
"L'opzione cristiana originaria - conclude Ratzinger - è invece completamente diversa. La fede cristiana ha fatto la sua scelta netta contro gli dèi della religione per il Dio dei filosofi, vale a dire contro il mito della consuetudine per la verità dell'essere".
(©L'Osservatore Romano - 7 giugno 2008)
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