5 giugno 2008
Il teologo Lorenzo Albacete: «Anche i non cattolici americani conquistati da Benedetto XVI"
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DI CRISTIANA CARICATO
«Non credo sia possibile un giudizio definitivo sul viaggio: molto dipenderà dalla Chiesa americana.
Da come i sacerdoti, i vescovi e gli altri responsabili della pastorale sapranno portare al popolo americano il messaggio di Benedetto XVI».
Si astiene da un bilancio monsignor Lorenzo Albacete, teologo americano tra i più noti oltreoceano, editorialista del New York Times e attento osservatore di tutto ciò che fermenta nella cultura a stelle e strisce.
«Il Papa è venuto e ha rivolto una proposta molto chiara agli Stati Uniti: Cristo nostra speranza – ci dice nella sua casa di Yonkers nell’hinterland newyorkese –. Non solo discorsi ma una testimonianza vissuta personalmente, attraverso i suoi gesti e i problemi evidenziati. Ora tutto è rimandato alla libertà dei singoli».
Che impatto ha avuto il «personaggio » Ratzinger sugli americani?
Molto positivo. Non era conosciuto, sebbene avesse visitato più volte gli Usa. Molti avevano di lui un’idea negativa: enforcer dell’ortodossia morale e dottrinale, un Papa incapace di gesti comunicativi, e soprattutto un «tedesco»... Ora tutto ciò appartiene al passato.
Benedetto XVI ha conquistato fiducia e consensi soprattutto tra i non cattolici. Quanti nei mesi scorsi avevano mostrato atteggiamenti ostili, alla fine hanno dovuto riconoscere che le loro aspettative erano infondate e hanno dichiarato apertamente la loro stima per il Papa. Credo sia splendido.
Benedetto XVI ha dichiarato da subito di essere affascinato dalla cultura americana, soprattutto dal rapporto tra fede e vita pubblica.
Il Papa è stato molto molto chiaro nel sottolineare la dimensione positiva dell’esperimento americano, soprattutto nelle relazioni tra le religioni e lo Stato, nei rapporti Chiesa-laicità. Negli Stati Uniti questa sperimentazione ci ha condotti a una forma di «secolarizzazione» considerata positiva. Ratzinger, che pure non è molto incline ad apprezzare il termine «secolarizzazione», ha compreso come questa forma particolare abbia aiutato la Chiesa statunitense rendendola libera di rivolgere una proposta autentica alla gente. Durante il viaggio il Papa ha potuto toccare le diverse e principali anime della spiritualità americana. Certo ha anche messo in guardia da un nuovo processo di secolarizzazione che sta già invadendo l’Europa e che rischia di invadere anche gli Usa.
Qual è il rischio che corre il cattolicesimo americano?
Negli Stati Uniti è molto complicato trovare la risposta alla domanda: dov’è Gesù? Ci sono tanti, troppi Gesù e la verità non è facile da trovare. Per trovare la verità bisogna aprirsi alla categoria della possibilità e anche da noi la mentalità relativistica ha travolto la cultura cattolica, giungendo a una separazione netta tra fede e ragione. Quando ciò accade la realtà diviene incomprensibile alla ragione e la fede è sminuita a buona disposizione etico-morale. Il problema è qui, il Papa l’ha intuito subito. Ma spera anche che la religiosità americana sia abbastanza forte da resistere a questa «secolarizzazione relativistica».
Ma la complessità del pensiero ratzingeriano può essere compresa fino in fondo dagli americani?
Sebbene la stragrande maggioranza non sia in grado di cogliere a fondo tutte le sfumature del suo pensiero, i più sono stati conquistati dalla sua testimonianza. Ha pronunciato discorsi e compiuto gesti che l’America voleva sentire e vedere.
La visita a Ground Zero è stata il momento in cui si è avvicinato di più al sentire americano?
Sì, all’America di ieri e anche a quella contemporanea. Un momento davvero commovente. L’11 settembre è un’esperienza comunitaria che il popolo americano non potrà mai dimenticare e rimarrà come qualcosa di profondamente misterioso. E allora vedere il Papa sul luogo del crollo delle Twin Towers, portare Cristo a Ground Zero, senza parole ma solo con i gesti... Dopo tutto, lui ha insistito più volte che il cristianesimo è un avvenimento, accade nell’individualità di un incontro umano. Ed è questo che abbiamo visto più volte nei giorni della sua visita. Parole date per interpretare il senso dell’incontro, l’esperienza concreta di Cristo che dobbiamo continuare.
Nel corso del viaggio il Papa è tornato più volte sulla questione degli abusi sessuali compiuti sui minori: una ferita ancora aperta per la Chiesa americana...
Tutto ciò era essenziale. Anzi proprio in questo potremmo trovare il significato dell’intera visita. Tutti aspettavamo che il Papa avrebbe detto qualcosa a riguardo: ma nessuno immaginava la profondità né la ripetizione insistente delle sue parole. E poi quell’incontro con le vittime degli abusi è stato qualcosa di completamente inatteso. L’intera vicenda era stata per la Chiesa cattolica un disastro, non tanto sul piano economico ma a livello d’intimità col clero; io stesso provavo difficoltà ad andare in giro in talare. Era venuta meno la fiducia tra fedeli e sacerdoti, quel rapporto d’umanità viva che si instaura tra un prete e i suoi parrocchiani. Con lo scandalo c’è stata una rottura violentissima dei normali rapporti ecclesiali; una situazione devastante che ha lasciato profonde ferite.
Inaspettato è stato anche il discorso all’Onu. Non ha toccato punti concreti all’ordine del giorno nell’agenda internazionale ma la questione dei principi fondamentali. Anche questo un discorso che dovrà essere compreso fino in fondo?
Dovrebbe essere letto e studiato più a fondo. Non so chi davvero lo farà a livello di comunità internazionale... Quanti seguono da sempre Ratzinger non potevano immaginare che avrebbe fatto nessun altro tipo di discorso.
Basti pensare alle sue discussioni con Flores D’Arcais sui diritti fondamentali. Ricordo che in uno di quei dibattiti lui chiese all’intellettuale italiano se credeva davvero ci fossero diritti umani e quegli rispose: «No, ci sono diritti civili».
Replicò Ratzinger: «Non lo posso accettare, i diritti civili non bastano, io ho attraversato il nazismo, ho vissuto e so cosa questo significhi e comporti».
È sempre sorprendente come la verità trovi la sua forza dietro il dramma vissuto da un uomo impegnato a difendere i diritti umani e non in uno Stato che dovrebbe garantirli perché ne ha l’autorità.
© Copyright Avvenire, 4 giugno 2008
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