20 giugno 2008

Sulle tracce di Paolo si finisce per incontrare Pietro (Osservatore Romano)


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Sulle tracce di Paolo si finisce per incontrare Pietro

di Mario Spinelli

L'Anno paolino, proclamato da Benedetto XVI per celebrare il secondo millennio della nascita dell'Apostolo dei Gentili, è alle porte. Sarà l'occasione migliore per riflettere a fondo su questo autentico gigante della Chiesa apostolica, che fra i contemporanei ha contribuito come nessun altro a elaborare teologicamente e spiritualmente l'insegnamento di Cristo - che allora era trasmesso in modo orale dagli apostoli, non essendo stati ancora scritti i Vangeli - a promuovere la prima espansione cristiana nei Paesi mediterranei e a evangelizzare il mondo pagano.
Paolo di Tarso, certo, non attende di essere riscoperto nei prossimi mesi: tutte le generazioni cristiane hanno riconosciuto la grandezza e l'importanza della sua opera in campo dottrinale ed ecclesiale. Si pensi all'influsso che hanno esercitato nei secoli le sue epistole e il suo pensiero: dalla Chiesa antica a quella medievale, dalla Riforma - Lutero chiamava la Lettera ai Galati la "mia fidanzata" - ai nostri giorni. Qualcuno (Renan, ad esempio) è arrivato a vedere nel convertito di Damasco il vero fondatore del cristianesimo come si sarebbe configurato nei secoli, e nella sua predicazione, scritta e verbale, un insegnamento diverso e per certi versi alternativo a quello di Gesù e degli apostoli. Esagerazioni, perché teologi e biblisti hanno ampiamente dimostrato le radici e la coerenza cristologiche e neotestamentarie dei grandi temi paolini, sviluppati sulla scorta di istruzioni giunte a Paolo dagli apostoli o direttamente "dal Signore" (1 Corinzi, 11, 23): la predestinazione, la grazia, la salvezza, la dialettica tra legge e libertà, il Cristo come nuovo Adamo, l'unità della Chiesa, la vita cristiana e così via. Comunque abbagli ed equivoci come quello appena ricordato testimoniano pur sempre la costante centralità di Paolo nella storia della teologia e della spiritualità cristiane.
Ma se l'Anno paolino non servirà a ribadire quanto è da sempre noto e acclarato, e cioè il ruolo fondante di Paolo come apostolo e come "pensatore" cristiano, ciò non significa che dalla ricorrenza bimillenaria non si attenda - con libri, articoli, convegni, trasmissioni radiotelevisive e quant'altro - un nuovo incremento e approfondimento di studi, ricerche, conoscenze e divulgazioni. Gli studiosi sono già al lavoro, e un primo evento di rilievo in questa direzione sarà il dodicesimo simposio di Tarso, che si terrà il 22 e 23 giugno nella città natale di Paolo e a Iskenderun, in Turchia, alla presenza del cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani, e con l'intervento di biblisti, storici e patrologi di vari Paesi.
Il nostro tempo, e quindi anche la celebrazione paolina che va a inaugurarsi, crediamo sia chiamato in particolare a riflettere su Paolo come evangelizzatore e annunciatore della Parola. Nel momento in cui si avverte con crescente urgenza il bisogno di una nuova evangelizzazione dell'Occidente, quale miglior modello si può avere su questo fronte del più instancabile missionario della Chiesa apostolica?
Legata a questo aspetto, risalta anche la dimensione attualissima dell'Apostolo come fautore del dialogo con i pagani, che egli promosse e realizzò più di ogni altro nel primo secolo cristiano. A Efeso, davanti all'Areopago di Atene, a Corinto, dove visse e predicò due anni, Paolo è l'emblema stesso del dialogo dei cristiani con il paganesimo e del confronto fra il Vangelo e le culture altre, nel segno di una comune ricerca della verità e del bene.
Come pure, la riflessione sull'eredità di Paolo - da un lato come autore e testimone venerato in tutte le Chiese ed esaltato in modo particolare dalla Riforma protestante, dall'altro come artefice e difensore dell'unità e della concordia fra le comunità cristiane, in gran parte da lui stesso fondate - non potrà non offrire una base privilegiata al progresso dell'incontro e dello scambio ecumenico. Magari ancora di più di quanto non sia avvenuto in passato.
Un modo significativo ed efficace per ricordare Paolo è anche quello di ripercorrere i luoghi e gli itinerari dei suoi viaggi apostolici: nei prossimi mesi si registrerà sicuramente un'impennata nei programmi e nelle iniziative di questo tipo. Il pellegrinaggio sui siti e le tracce paoline non era una meta tradizionale dei devoti europei, come Santiago di Compostela, Roma e Gerusalemme. Lo è diventato negli ultimi decenni, e oggi è sempre più in auge.
Paolo ha viaggiato in quasi tutto il Mediterraneo, è vero: in Grecia, a Malta, in Italia, forse in Spagna. Ma gli Atti degli apostoli raccontano soprattutto le sue missioni in Anatolia, l'antica Asia Minore, che egli percorse in lungo e in largo per oltre venticinque anni, dal 45 al 67, predicando, battezzando, convertendo giudei e pagani, fondando chiese e comunità e facendo di questo Paese quella che è stata definita la "Terra Santa della Chiesa", cioè il primo e principale teatro della sua diffusione fuori della Palestina.
Ripercorrendo l'Anatolia di Paolo, non da ovest a est come fanno i pellegrini occidentali, ma in direzione contraria - che è poi la stessa seguita da Paolo - il primo luogo paolino che incontriamo è Antiochia sull'Oronte, l'antica capitale dei Seleucidi, terza città dell'impero romano dopo Roma e Alessandria, sede del Cesare d'Oriente e base di partenza per le legioni romane in marcia contro la Persia. Di questa metropoli ellenistica si parla spesso in Atti. Vi fuggirono molti cristiani di Gerusalemme dalla persecuzione giudaica seguita alla lapidazione di Stefano (11, 19); qui i "fratelli" furono chiamati per la prima volta cristiani (11, 26) e qui si cominciò ad annunciare il Vangelo ai pagani (15, 1ss), proprio per iniziativa di Paolo e Barnaba, l'apostolo cipriota che lo accompagnò nei primi anni.
In tutta l'età patristica Antiochia resterà fra le maggiori città cristiane, illustrata da grandi Padri come Ignazio, martire a Roma come Paolo, Giovanni Crisostomo, che predicò nella splendida cattedrale dalla cupola d'oro, e Simeone Stilita - la sua famosa colonna si ergeva sulla via per Aleppo. Antiochia fu anche sede dalla famosa scuola biblica d'indirizzo storico, alternativa all'allegorismo esegetico alessandrino.
Paolo fu legatissimo ad Antiochia, dove visse nella sua prima vera comunità ecclesiale - dopo la conversione e dopo la prima predicazione a Damasco (Atti, 9, 19ss) - e luogo da cui partì e dove ritornò in tutti e tre i viaggi missionari in Anatolia: dal 45 al 48, dal 50 al 52 e dal 53 al 58. Inoltre, come si è accennato prima, e come testimoniano i raffinati mosaici dell'Hatay Muzesi, alcuni del primo secolo, cioè coevi di Paolo, fu in questa capitale della cultura e dell'arte ellenistica che l'Apostolo visse la sua "seconda conversione", da Saulo a Paolo per così dire, cioè dal giudeo-cristianesimo proprio di un ex fariseo doc come lui all'apertura pastorale e spirituale al mondo pagano.
Ma la memoria antiochena più visitata dai pellegrini non si rifà a Paolo bensì al capo degli apostoli, che è stato il primo vescovo della città.
È la Grotta di San Pietro, austera chiesa gotico-crociata scavata nella roccia del monte Silpio, dove la tradizione colloca la casa dell'antiocheno Luca, donata dall'evangelista alla prima comunità cristiana locale. Significativo è il trono in pietra dietro l'altare, seconda cattedra petrina dopo Gerusalemme e prima di Roma. Uscendo dalla chiesa rupestre la vista domina sulla città, con tutte le sue millenarie memorie storiche e sacre.

(©L'Osservatore Romano - 20 giugno 2008)

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