19 giugno 2008

Il già e il non ancora nella «Spe salvi»: "L'esperienza della valle oscura dove non si teme alcun male" (Osservatore Romano)


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Il già e il non ancora nella «Spe salvi»

L'esperienza della valle oscura dove non si teme alcun male

di Marcella Farina
Figlia di Maria Ausiliatrice
Pontificia Accademia di Teologia

Spe salvi, la seconda enciclica di Benedetto XVI, come la prima, sintetizza un pensiero che abbraccia tutta la sua esistenza; delinea il suo ritratto interiore, non solo dal punto di vista teologico dottrinale, ma anche e soprattutto dal punto di vista mistico spirituale, proponendo una riflessione che parte dalla vita per servirne la crescita fino alla pienezza in Cristo. Pure i densi nuclei tematici teologici e filosofici sono il riflesso del suo vissuto di credente, studioso e pastore.
Egli ricerca accogliendo il Lògos-Amore, quindi secondo la logica dell'amore e della verità: l'amore e la verità, non i beni materiali, sono la sostanza dello sperare.
Perciò è in compagnia dei santi, testimoni anche nel paradosso che la speranza è Cristo. Ecco, dunque, Bakhita, la schiava del Darfur, che, grazie a Cristo, entra nel dinamismo della speranza: "La grande speranza: io sono definitivamente amata e, qualunque cosa accada, io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona". Non una speranza egocentrica: "La speranza, che era nata per lei e l'aveva "redenta" non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti" (n. 3). E il riferimento ai santi è frequente nell'enciclica.
È evidente la dimensione antropologico-pastorale, in quanto propone il messaggio della divina rivelazione quale realtà teoantropologica, nell'intimo nesso tra appello di Dio e risposta umana, un nesso che egli stesso sperimenta nella gioia e nella gratitudine.
La sua esistenza si svolge grazie all'amore ricevuto e donato, all'amicizia ricercata, custodita e coltivata, alla fedeltà umile e trasparente. Sa che "l'uomo viene redento mediante l'amore (...) ha bisogno dell'amore incondizionato" (n. 26). Qui nasce dal punto di vista antropologico la possibilità di sperare.
Egli lo sperimenta fin dalla nascita in famiglia e in parrocchia, luoghi vitali ove la sua speranza cresce come granello di senapa, nelle difficoltà e nelle gioie del quotidiano.
I genitori lo hanno testimoniato costantemente fino alla fine della loro vita terrena, e sono per lui una terraferma, una rivelazione del Dio affidabile, della speranza che non delude, della felicità che viene dalla fede. In loro ha trovato sempre quella confidente sicurezza di cui ha avuto tanto bisogno nelle svolte della sua esistenza.
La Chiesa, nella concretezza della comunità parrocchiale, è l'altro luogo in cui impara la speranza: è la sua patria più intima con la quale è fuso dalla nascita nell'acqua battesimale che lo dischiude alla vita eterna (cfr n. 10).
Nel parroco, maltrattato e percosso dal regime, vede la speranza che si fa pazienza e perseveranza, quindi il coraggio contro la menzogna, la complicità e il servilismo.
La solidità della famiglia e della Chiesa lo prepara ad affrontare la dura prova del nazismo, perché è la fedeltà dell'amore che gli fa comprendere la verità della speranza cristiana e la falsità delle promesse ingannevoli costruite sulla menzogna e sulla paura. Il futuro, quindi, si fonda sull'amore, sulla verità, sulla speranza.
"Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell'intimo aspettiamo: la vita che è "veramente" vita" (n. 31).
"La fede è hypòstasis delle cose che si sperano, prova delle cose che non si vedono"; offre beni migliori, i veri beni, rispetto al sostentamento materiale, alle promesse del progresso e alle utopie mondane. È più affidabile del reddito, perché nel presente attira la realtà futura, per cui "le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future" (n. 7). Quindi la speranza non è una vuota attesa, ma attesa-accoglienza del dono che è già qui: è il Signore, l'Emmanuele. Lo attestano i martiri e la schiera dei credenti che per Lui hanno abbandonato tutto (cfr n. 8s, 22-27).
Ecco perché la speranza rende possibile affrontare il presente: "Anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino" (n. 1).
Negli anni di studio la ferma speranza è illuminata dalla testimonianza dei suoi maestri, in particolare da Gottlieb Söhngen. Questi è testimone singolare della Chiesa affidabile e della fiducia nell'intelligenza: nella sua ricerca sincera della verità, andando alla radice delle questioni, accoglie la saggezza della lunga genealogia di maestri, dagli antichi filosofi ai contemporanei, dai martiri ai padri, ai grandi dottori medievali e moderni, ai mistici, alle sante e ai santi che hanno arricchito i secoli di energie spirituali.
Söhngen lo guida nei lavori di dottorato e post-dottorato nei quali studia due autori eloquenti nella riflessione sulla speranza: Agostino e Bonaventura, la grande tradizione patristica e quella francescana. Sono due testimoni del Dio affidabile dai quali apprende che la speranza, per essere accolta e alimentata, deve trovare un cuore dilatato e purificato dall'amore, libero da ogni attaccamento ai beni di questo mondo.
La Spe salvi porta i segni di queste genealogie della fede e della saggezza umana. Anche dal punto di vista pastorale ha avuto degli educatori singolari che l'hanno introdotto nel servizio sacerdotale generoso e ardente, nella preghiera liturgica, nell'apostolato in mezzo ai giovani. Pure qui sperimenta l'amore e la confidenza, l'amicizia e la gioia che rendono feconda la fede e sicura la speranza.
Non a caso annota con riconoscenza la fiducia che gli viene donata: gioisce del clima familiare che si instaura nel seminario, nei centri di studio e dove è chiamato a svolgere la sua missione, perché l'amorevolezza, la stima, l'amicizia, ossia i valori "sostanziosi" umani e soprannaturali costituiscono l'humus della speranza.
Non stupisce così il fatto che lascia la sede universitaria di Tubinga, perché non ama studiare e insegnare in un ambiente in cui prevalgono la rivalità e l'ideologia, non la passione per la verità e l'amore.
È interessante annotare come pure dell'esperienza conciliare sottolinea le profonde e grandi amicizie, la ricerca della verità nella prospettiva del futuro, della grande speranza. Anche la nuova obbedienza al ministero episcopale, alla Congregazione per la Dottrina della Fede, infine alla Cattedra di Pietro è vissuta nell'Amore, nell'abbandono confidente nel Signore che lo chiama a lavorare nella sua vigna. Il continuo ringraziare per i gesti di affetto che gli si manifestano sono il segno della sua spiritualità alimentata di fede, speranza, amore.

Vive nella speranza, tra il già e il non ancora, l'accoglie come il granello di senape in terra buona, raccordando le piccole alla grande speranza.

È la rivelazione del Dio Amore che fonda questo esistere sicuro pure nella fragilità e precarietà dell'esistenza terrestre. Quindi lo sperare e l'affidarsi della creatura vengono dalla fede che ne è la sostanza: "La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento sul quale l'uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale, l'affidabilità del reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una nuova libertà di fronte a questo fondamento della vita che solo apparentemente è in grado di sostentare, anche se il suo significato normale non è con ciò certamente negato" (n. 8).
Ciò vale non solo per me, ma per l'umanità intera - passata, presente e futura -, non solo per l'umanità futura, ma anche per quella passata e presente, non solo per la collettività, ma anche per me personalmente, per ciascuno di noi. È uno sperare comunionale che "presuppone l'esodo dalla prigionia del proprio "io" (...) lo sguardo sulla fonte della gioia, sull'amore stesso - su Dio" (n. 14).
L'enciclica, al riguardo, ha dei testi illuminanti ove la chiarezza e la consequenzialità dell'argomentazione fanno emergere i tratti della speranza cristiana che non è evasione, né presunzione; non è godimento egoistico della propria felicità, né dispersione nell'attivismo, ma è sempre, e in tutte le dimensioni, dono, grazia che attesta il primato di Dio e la responsabilità, la risposta amorosa, libera e intelligente della creatura umana che si lascia coinvolgere da Lui nella sua passione per la salvezza di tutti.
Al centro vi è la rivelazione di Dio compiuta in Cristo, vera Immagine del Dio vivente, e la rivelazione del mistero della persona umana quale essere che viene dall'Amore con la vocazione specifica ad amare fino alla fine, come il Figlio di Dio.
Il Figlio di Dio, il Verbo, Gesù di Nazaret, nella sua vicenda è per noi la possibilità di imparare a chiamare Dio Padre. Il suo Vangelo "è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova" (n. 2).
Gesù "ci dice chi in realtà è l'uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente uomo. Egli ci indica la via e questa via è la verità. Egli stesso è tanto l'una quanto l'altra, e perciò è anche la vita della quale siamo tutti alla ricerca. Egli indica anche la via oltre la morte; solo chi è in grado di fare questo, è un vero maestro di vita (...); è Colui che conosce anche la via che passa per la valle della morte; Colui che anche sulla strada dell'ultima solitudine, nella quale nessuno può accompagnarmi, cammina con me guidandomi per attraversarla: Egli stesso ha percorso questa strada, è disceso nel regno della morte, l'ha vinta ed è tornato per accompagnare noi ora e darci la certezza che, insieme con Lui, un passaggio lo si trova. La consapevolezza che esiste Colui che anche nella morte mi accompagna e con il suo "bastone e il suo vincastro mi dà sicurezza", cosicché "non devo temere alcun male" (cfr Salmi, 23 [22], 4) - era questa la nuova speranza che sorgeva sopra la vita dei credenti" (n. 6). Lo sperare cristiano non cancella la storia, non illude sulla possibilità di eliminare la sofferenza, ma spinge a costruire il mondo secondo amore e verità; non è individualistica, ma coinvolge l'universo, l'umanità intera, l'intera creazione.
"La fede in Cristo non ha mai guardato solo indietro né mai solo verso l'alto, ma sempre anche in avanti verso l'ora della giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato. Questo sguardo in avanti ha conferito al cristianesimo la sua importanza per il presente. È vittoria sulla morte e non è illusoria strategia di eliminare la sofferenza, ma piuttosto conduce alla verità della vita dando senso al soffrire. Nel soffrire non siamo soli: Dio è con noi" (n. 41).
Il Papa sottolinea che nella vita possiamo camminare solo nel dinamismo dell'amore, e quindi della verità: l'esperienza di essere amati e di poter amare riempie la vita di luce e rende possibile la progettualità del futuro, quindi l'itinerario della speranza.

(©L'Osservatore Romano - 20 giugno 2008)

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